Introduzione
Il presente elaborato nasce da un mio interesse personale verso un luogo, o meglio un non 
luogo, che non ci è consentito conoscere a pieno, in quanto ritengo che solamente chi vi 
abita possa realmente sapere cosa esso sia: il carcere. Circa un anno fa ho scelto di usare 
questa struttura come argomento della mia tesi, ma da allora ad oggi le cose sono mutate. 
Inizialmente volevo creare un lavoro incentrato sul carcere inteso come luogo di 
spersonalizzazione, in quanto istituzione totale deprivante del sé di ognuno per le sue 
misure troppo rigide e detentive. Successivamente però, ho deciso di estrapolare da questo, 
un sotto argomento, concentrandomi così su una particolare tipologia di carcere, quella 
femminile, riferita anche al rapporto mamme detenute e figli. Da cosa questa scelta ? Da 
un libro letto '' Mamma è in prigione''. 
Questo libro della giornalista Cristina Scanu tratta di una sua ricerca condotta nelle carceri 
femminili italiane. L'ultimo studio sulla detenzione femminile qui in Italia risale agli anni 
'90, e per questo la giornalista scende sul campo, e dopo oltre un anno di inchiesta ci svela 
un mondo di confine: dai grandi problemi di una normativa mancante creanti  una mala-
prigione, agli altrettanti grandi problemi causati dal fatto che il 90 % delle detenute è 
madre di uno o più figli, lasciati fuori oppure tenuti con sé in cella, come previsto e 
accettato dalla legge. Il carcere non è un luogo per bambini, il carcere non dovrebbe essere 
un luogo per bambini, perché qui essi divengono vittime, vittime di errori non commessi.
È per questo che ho preferito agire diversamente, è per questo che ho preferito passare 
dalla generalità del carcere ad una sua specificità, con lo scopo di dare voce ad un mondo 
che sembra non averne, ma che  in realtà si nutre di più voci.
Il mio elaborato si suddivide in tre grandi capitoli: ''la carcerazione femminile'', ''affetti 
imprigionati'' e ''sprigionare gli affetti''. Il primo mette in luce la vita detentiva delle carceri 
femminili italiane. Due distinte modalità di rappresentare la vita possono essere il viaggio e 
la dimora. Al viaggio si connettono aspetti come l'apertura e la permeabilità del proprio 
essere a ciò che è altro da sé. Alla dimensione della dimora invece si connettono aspetti 
come il desiderio di stabilità, protezione, sicurezza, per colui che la abita ma anche per 
colui che come ospite in essa viene accolto. La dimensione del viaggio cosi come quella 
della dimora, presuppongono libertà di scelta. Ma cosa succede quando questi due elementi 
non vengono scelti? Il viaggio in carcere presuppone il contrario di quella che è chiamata 
apertura, il carcere è l'emblema della chiusura. Il viaggio in carcere non è una scelta è un
obbligo, una realtà in cui ti trovi obbligatoriamente a dover stare per un lasso di tempo 
definito dalla legge. Il carcere è una dimora che non si può scegliere, è un luogo  in cui chi 
vi abita non è libero di uscirci bensì impedito, un luogo in cui il tempo e l' organizzazione 
della vita sono decisi da altri, un luogo in cui non vi è  stabilità, protezione, sicurezza, e 
affetto. Come può così caratterizzarsi il ''vivere'' di un detenuto? Ma soprattutto, come può 
caratterizzarsi il ''vivere'' di una donna detenuta che vive all'interno di strutture pensate per 
il genere opposto e quindi di non aiuto alla specificità dei problemi femminili, come la 
questione della maternità? 
La detenzione femminile è meno conosciuta e meno considerata perché stando alle 
statistiche solo il  5% dei detenuti è di sesso femminile, e queste finiscono in carcere per 
motivi differenti da quelli maschili, se si può dire ''meno gravi'' come furto, alcolismo, 
tossicodipendenza, prostituzione, spaccio. Ma chi erano queste donne prima di entrare in 
carcere? La maggior parte di loro viveva una condizione di disagio e marginalità sociale 
già prima di entrare in cella, non svolgeva alcun lavoro, era priva di strumenti culturali per 
inserirsi in società, era impegnata nel ruolo di madre e moglie ma era esclusa dal mercato 
del lavoro, ed aveva un titolo di studio fermo alla scuola media inferiore. 
Forse i motivi ''meno gravi'' sono causa della stessa società, che crea emarginazione e che 
crea soluzioni ad essa di ancor più elevata emarginazione, come appunto la stessa 
carcerazione.
Arriviamo alla seconda parte della mia tesi dove chiarisco il problema del rapporto 
mamma detenuta e figlio, rientrante nel problema dell'affettività in carcere. Quando si parla 
d’affettività si comprendono in questo termine tutte quelle relazioni, familiari ma non solo, 
che hanno per la vita del detenuto una rilevante importanza, e che  possono 
sostenere quest'ultimo nel suo percorso riabilitativo, rappresentando un punto di 
riferimento per la vita fuori dal carcere. All’interno dei rapporti affettivi ha un notevole 
rilievo per i detenuti il mantenimento del legame con i propri figli che, per varie cause, è 
molto spesso difficile. Dal punto di vista legislativo la questione carceraria femminile è 
stata affrontata nel 1975 con la legge n. 354, conosciuta come legge Gozzini. La legge 
all'articolo 21-bis, decreta che ''alle madri è consentito tenere presso di sé i figli fino all'età 
di tre anni. Per la cura e l'assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido''.
La legge aiuta, o non aiuta, il minore che può a scelta della madre, stare con la stessa dietro 
alle sbarre. Storie di mamme detenute dimostrano che a volte non è una scelta, a volte è 
solamente l'unica alternativa. Spesso la famiglia non c' è e la paura che il proprio figlio 
possa finire in una famiglia altra, dimenticandosi di quella d' origine fa si che la mamma
scelga di tenere il bambino con sé. Questo è amplificato nella donne straniere che ancor più 
di quelle italiane non hanno aiuti esterni, o una famiglia capace di accudire il figlio così 
che il loro essere sole è causa del loro effettivo destino. Sempre come previsto dalla legge 
per i figli detenuti sono state aperte le sezioni nido che possono essere formate da un unico 
stanzone, o  da celle a due o più letti. Quando è possibile, si legge nel sito del ministero ''il 
servizio è ubicato al piano terra per disporre di spazi verdi e comprende almeno due stanze, 
un posto letto e culla dotate di wc, cucinini, sala giochi, servizi igienici e locali pulizie, 
cortile esterno arredato con giochi, locali di servizio''. Nonostante tutti gli abbellimenti la 
struttura di queste sezioni rimane comunque quella del carcere. 
Come funziona invece la genitorialità di quelle mamme con i figli fuori dal carcere? Si 
nutre di colloqui, o meglio di quelle poche ore destinate ad essi. 
Arriviamo all'ultimo capitolo del mio elaborato ''spirigionare gli affetti'.
Gli affetti sono parte di quegli elementi che permettono ad una persona di essere tale, di 
sentirsi ancora tale. Mantenere gli affetti in carcere oggi però è veramente difficile. Le 
vittime sono oltre che i detenuti anche e soprattutto i familiari che subiscono lo stesso 
trattamento di un recluso, essendo privato al suo stesso modo degli affetti che fino al 
giorno prima erano parte della loro vita. Servirebbe così più tempo e più spazio per un 
contatto più diretto e intimo con figli e mariti. Tempo e spazio ad oggi racchiusi in delle 
sale colloqui dove tante volte non ci si riesce a ''sciogliere''. 
Uno degli istituti dove molte donne chiedono di essere trasferite è quello di Bollate 
(Milano) dove è stato applicato il regolamento interno per gli istituti e sezioni femminili.
Da qui la mia intervista, fatta via e-mail, alla psicologa Carla Fregoni sul progetto 
''Comunque Famiglia'' attivo a Bollate.  Esso è un progetto che la cooperativa Spazio 
Aperto Servizi sta portando avanti dal 2005 grazie ad un équipe di psicologi tra cui la 
stessa Carla. Il progetto ha voluto creare uno spazio destinato ai colloqui chiamato 
''casetta'', o stanza dell'affettività dove le mamme possono incontrare compagni e figli, 
anche se per poco tempo l'anno. 
Uno squarcio di affettività? 
Inoltre con la legge del 21 aprile 2011 si consente alle detenute incinte o con figli fino a sei 
anni (non più tre) di non rimanere chiuse in cella con i loro bambini, a meno di particolari 
“esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”, ma di poter usufruire degli arresti domiciliari 
presso la propria abitazione o in strutture apposite come gli Icam (istituti a custodia 
attenuata per detenute madri). Gli Icam, gestiti sempre dall’amministrazione penitenziaria, 
sono strutture realizzate al di fuori delle carceri e rappresentano un nuovo modello di
detenzione femminile. Il primo è stato inaugurato a Milano nel 2006, ha le sembianze di un 
vero appartamento, interamente disposto su un piano, sul quale si aprono portineria, sala 
colloqui, sala attrezzata con tv e computer, biblioteca, lavanderia, ludoteca, sei camere da 
letto, sala, cucina, giardino, infermeria.
Gli agenti sono in borghese e la struttura è dotata di sistemi di sicurezza non riconoscibili 
dai bambini. L'icam ha quindi le caratteristiche di un ambiente familiare.
Il problema è che la popolazione delle detenute madri è costituita in larga parte da 
straniere, senza fissa dimora o incarcerate per tossicodipendenza, prostituzione e piccoli 
furti, reati generalmente soggetti a reiterazione. In relazione a questa tipologia di detenute 
esisterà quindi sempre “l’esigenza cautelare di eccezionale rilevanza”, che non consentirà 
loro di scontare la custodia cautelare o la reclusione presso un istituto a custodia attenuata, 
continuando a vivere così con i loro bambini all’interno degli istituti di pena.
A ben vedere quindi la nuova normativa non scioglie il nodo centrale del problema.
Niente di meglio della tragedia di Antigone è capace di raccontare il conflitto irrimediabile 
tra diritto e giustizia, tra la legge degli uomini e quella degli dei. Non a caso è proprio una 
donna, Antigone, a svelare l'inganno della legge infallibile, disobbedendo al potere cieco 
del padre-padrone e mettendo così in gioco il proprio corpo per salvare l'anima del fratello. 
Corpo e anima non possono essere scissi, compongono l'uomo.
Darrell Standing, nel racconto della sua prigionia all'interno del romanzo di Jack London 
''Il vagabondo delle stelle'', ride di coloro che pensano che le anime siano imprigionabili a 
vita. Le anime delle donne sono ancor più libere di quelle degli uomini. La storia le ha 
abituate a vivere costrette nei corpi ma libere nello spirito, che nella realtà carceraria viene 
imprigionato in uno spazio maschiocentrico, ovvero pensato e organizzato come se i 
carcerati fossero tutti uomini.
Serve un cambiamento, serve uno spazio che pensi a loro, che si occupi di loro, che le 
renda capaci di ricostruire se stesse e la loro vita.