9
serve pure a tutelare interessi generali.                                     
Il dissesto di un imprenditore, soprattutto quando si tratta di 
soggetti impegnati in attività di grandi dimensioni, può 
determinare conseguenze negative per quanto attiene 
l’aspetto occupazionale, ma ripercussioni gravi possono 
registrarsi, pure, nel settore del credito.                                     
Per cui la salvaguardia del buon andamento dell'economia 
nazionale, o ancora la protezione del sistema creditizio, la 
difesa del mercato e dei livelli occupazionali, sono ragioni 
valide per richiedere un intervento pubblicistico nell'attività 
di un imprenditore privato. Proprio perché la finalità delle 
varie procedere concorsuali, nel complesso, è quella di 
salvaguardare taluni beni ed interessi, il R. D. n. 267/42 
(c.d. legge fallimentare) prevede altre procedure, in alcuni 
casi alternative al fallimento, con dei meccanismi tali da 
consentire il prosieguo, a determinate condizioni, 
dell’impresa per favorire il superamento dello stato di 
insolvenza.  
 10
Stato di insolvenza che spesso può essere di dimensioni tali 
da non richiedere sempre e necessariamente il fallimento 
dell'imprenditore. 
Se l’insolvenza si “manifesta con inadempimenti od altri 
fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in 
grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” 
(art. 5 R.D. 267/42), è pur vero che tale stato di insolvenza 
può rappresentare semplicemente una fase transitoria della 
vita dell'impresa e che una gestione più oculata 
consentirebbe di superarlo. Per questo ordine di motivi la 
Legge Fallimentare (R.D. 267/42) prefigura il fallimento 
quasi fosse una procedura da applicare come extrema ratio, 
quando il dissesto è irreversibile.  
Se da un lato la vicenda dell’imprenditore commerciale può 
apparire una vicenda privata, anche se non lo è, la stessa 
normativa fallimentare opera un richiamo all’esigenza di 
tutela interessi pubblici e della collettività.                        
Ciò avviene mediante la previsione del fallimento dichiarato 
 11
d’ufficio, quindi senza richieste specifiche da parte dei 
privati. Nel complesso di norme attuali, una previsione del 
genere, con un intervento diretto di un organo pubblico nella 
sfera imprenditoriale, potrebbe apparire come un retaggio 
del passato. 
Anche per queste ragioni la dichiarazione d’ufficio del 
fallimento ha subito una evoluzione, per effetto dei 
mutamenti interventi nella giurisprudenza, grazie pure alle 
sollecitazioni della dottrina. Si è giunti, in conclusione, ad 
una visione di tale istituto più conforme alle esigenze del 
mercato e dell’impresa, anche se la sua applicazione 
continua a generare clamori.  
Questa ricerca tende ad individuare i contorni dell’iniziativa 
d’ufficio per la dichiarazione del fallimento, indicando allo 
stesso tempo i cambiamenti verificatisi in giurisprudenza ed 
in dottrina.  
  
 12
CAPITOLO I 
 
L’INIZIATIVA PER LA DICHIARAZIONE DEL 
FALLIMENTO 
 
 
1. L’ART. 6 DELLA LEGGE FALLIMENTARE 
 
L’iniziativa per la dichiarazione del fallimento, secondo 
quanto previsto dall’art. 6 della L. Fall., compete al 
debitore, che può richiedere dunque il suo fallimento.                              
Allo stesso tempo, il tribunale competente può emettere 
sentenza dichiarativa di fallimento “su ricorso di uno o più 
creditori, su istanza del pubblico ministero oppure 
d'ufficio” (Art. 6 R. D. 267/42). 
Quindi la legge fallimentare (R. D. 267/42) fornisce un 
ventaglio abbastanza ampio di soluzioni per giungere alla 
sentenza che dichiara il fallimento. Soprattutto, in tale 
 13
ottica, legittima diversi soggetti a richiedere il fallimento. 
Competente ad esprimersi sulla domanda di fallimento è “il 
tribunale del luogo dove l'imprenditore ha la sede 
principale dell'impresa” (art. 9 R.D. 267/42).                              
Nel caso in cui l’imprenditore ha all’estero la sua sede 
principale, il fallimento può essere dichiarato pure nel 
nostro paese se è già intervenuto all’estero.                     
Logicamente la competenza in questi casi è disciplinata 
anche da convenzioni internazionali. Lo stato di insolvenza 
può risultare sia in sede penale sia nel corso di un giudizio 
civile. Nel primo caso l’art. 7 della L. Fall. stabilisce che: 
“Quando l’insolvenza risulta dalla fuga o dalla latitanza 
dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, 
dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione 
fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore, il 
procuratore della Repubblica che procede contro 
l’imprenditore deve richiedere il tribunale competente per 
la dichiarazione di fallimento”. L’altra ipotesi è sancita 
 14
dall’art. 8 della L. Fall. che dispone: “Se nel corso di un 
giudizio civile risulta l’insolvenza di un imprenditore che 
sia parte del giudizio, il giudice ne riferisce al tribunale 
competente per la dichiarazione di fallimento”.           
Presentata la richiesta di fallimento, il tribunale competente 
deve effettuare tutti gli accertamenti necessari, per stabilire 
la sussistenza o meno dello stato di insolvenza.                            
Nel caso in cui ricorrano gli estremi per la dichiarazione di 
fallimento, il tribunale nella sentenza dichiarativa, ai sensi 
dell’art. 16 L. Fall., nominerà il giudice delegato della 
procedura ed il curatore, ordinerà al fallito il deposito dei 
bilanci e delle scritture contabili, qualora questi non li ha già 
consegnati (caso che ricorre quando è lo stesso imprenditore 
a richiedere il fallimento), assegnerà ai creditori e ai terzi, 
che vantano diritti reali mobiliari su cose in possesso del 
fallito, un termine non maggiore di giorni trenta dalla data 
dell’affissione della sentenza per la presentazione in 
cancelleria delle domande per l’ammissione al passivo. 
 15
Inoltre stabilirà il luogo, il giorno e l’ora dell’adunanza per 
l’esame dello stato passivo. Infatti, il tribunale dovrà tenere 
presente quello che è il quadro dello stato di insolvenza e 
conoscere gli elementi che compongono le attività del 
fallito, per eseguire la liquidazione.                                     
Il fallimento, proprio per garantire la par condicio 
creditorium, produce degli effetti di tipo personale per il 
fallito, per i creditori di questi, sugli atti pregiudizievoli ai 
creditori e sui rapporti giuridici preesistenti.  
 16
2. IL FALLIMENTO D’UFFICIO 
 
L’art. 6 della L. Fall. prevede la possibilità di dichiarare il 
fallimento d’ufficio. 
Questa ipotesi rappresenta uno strumento a disposizione dei 
giudici per intervenire su imprese che versano in uno stato 
di insolvenza, quando non vi sono domande di parte.        
Per questo alcuni autori parlano di “giurisdizione senza 
azione”
1
. La dichiarazione d’ufficio potrebbe apparire, nel 
complesso sistema del libero mercato, una scomoda eredità 
di una normativa condizionata da un sistema in cui lo Stato 
effettuava un controllo sulle imprese, al fine di garantire un 
corretto svolgimento dell’attività commerciale.                  
Le origini di questo istituto, che trova spazio in una legge 
emanata nel 1942, quando cioè sussisteva una concezione  
                                                           
1
Azzolina U., Il fallimento e le altre procedure concorsuali, pag. 596, 1961;Cuneo 
V.L., Le procedure concorsuali, pag. 249; Cristofolini G., La dichiarazione del 
proprio dissesto nel processo di fallimento, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1931, I, 321; 
Provinciali R., Trattato di diritto fallimentare, pag. 444; Ragusa Maggiore G., 
Istituzioni di diritto fallimentare, pag. 81. 
 17
del mercato e dell’impresa particolare, va indagata per 
capire poi lo sforzo interpretativo a cui è stato sottoposto, 
per adeguarlo ad una visione, quella attuale, diversa 
dell’impresa e del mercato.  
Ad ogni modo si può affermare che il fallimento non è più 
attuato soltanto per quelle che erano le finalità originarie. 
L’aspetto pubblicistico, in origine prevalente, era quello di 
garantire l’interesse di tutti i creditori ed allo stesso tempo 
di tutelare la massa degli imprenditori, con la soppressione 
di determinati soggetti del mondo imprenditoriale, affinché 
non ci fossero entità deboli, per una tutela di classe, per via 
del regime tipicamente corporativo dell’epoca.                                 
Oggi queste finalità non sono più attuate con il fallimento, 
sempre più spesso considerato, dagli stessi creditori, uno 
strumento di pressione nei confronti dei debitori, per indurli 
a pagare.  
 18
3. IL FALLIMENTO D’UFFICIO NEL CODICE DEL 
COMMERCIO DEL 1882 
 
La dichiarazione di fallimento d’ufficio, prima del 
legislatore del ’42, era stata già prevista dall’art. 688 
dell’abrogato codice del commercio del 1882
2
.                       
La pronuncia del tribunale era sottoposta alle stesse 
condizioni previste per la dichiarazione su istanza, in pratica 
la cessazione dei pagamenti da parte di un commerciante 
per le obbligazioni commerciali
3
.  
La “sicura notizia” da parte del tribunale della cessazione 
dei pagamenti era data dalla “notorietà”.                            
Un esempio di questa poteva essere la chiusura degli 
sportelli o dei negozi, la fuga dell’imprenditore, oppure 
indicazioni potevano essere date da “altri mezzi”, i quali, 
                                                           
2
Calusi E.V., In tema di dichiarazione di fallimento d’ufficio, in Dir. fall., 1951, II,75  
3
 idem come supra. 
 19
però, dovevano concretizzarsi in elementi di certezza 
intrinseca ed obiettiva
4
.  
L’intervento del collegio, infatti, non doveva essere troppo 
affrettato né troppo zelante, per evitare una inopportuna 
intromissione in rapporti commerciali privati, i quali 
potevano sistemarsi in maniera autonoma, ma doveva 
servire solo ad evitare maggiori danni
5
.    
 
 
                                                           
4
 idem come supra. 
5
 idem come supra. 
 20
4. RARITA’ DEI POTERI D’UFFICIO 
 
Nel complesso ordinamento giuridico italiano sono rare le 
ipotesi in cui è attribuita la possibilità d’ufficio di avviare un 
procedimento.  
Che si tratti di una eccezione, ciò trova conferma nelle 
norme e nei principi che regolano il processo civile.           
La dottrina processual civilistica considera fondamentale la 
regola secondo cui nemo judex sine actore
6
, vale a dire che 
il processo non può essere iniziato senza una domanda di 
parte e che lo stesso non può essere avviato su impulso del 
giudice.  
Questo discorso vale per il giudizio civile, nell’ambito del 
quale il giudice è considerato, come sempre avviene, terzo 
rispetto alla controversia e sono apprestate una serie di 
regole per garantire l’effettiva sussistenza, la concreta 
applicazione di questa regola.  
                                                           
6
 Verde G, Profili del processo civile, vol. 1, pag. 3. 
 21
L’art. 99 del codice di procedura civile (c.p.c.) stabilisce che 
“chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre 
domanda” e finisce con l’attuare il precetto contenuto 
nell’art. 24 della Costituzione secondo cui “tutti possono 
agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi 
legittimi”.  
Se si analizzano con attenzione le ragioni che hanno indotto 
il legislatore ad affermare e ribadire il c. d. “principio della 
domanda” si comprende che due sono le motivazioni: 1) in 
quanto il principio della domanda è lo strumento migliore 
per garantire che il giudice sia terzo di fronte all’affare 
giudiziario; 2) perché se l’azione è il mezzo per far valere 
determinate situazioni giuridiche riconosciute e tutelate 
dall’ordinamento, di conseguenza deve essere riconosciuta 
ai soggetti privati il potere di tutelarle, attribuendo una 
posizione monopolistica, in ordine a questo potere.            
La dottrina processual civilistica insegna che per queste 
ragioni, le quali sono poi alla base del principio di cui 
 22
stiamo discorrendo, “ci si rende conto che eccezioni al 
principio sono in genere altamente sconsigliabili perché 
possono attentare all’imparzialità del giudice”
7
.                
Se l’ordinamento giuridico, per quanto attiene il processo 
civile, opta per l’esclusione di un potere d’ufficio del 
giudice nell’avviare un processo, automaticamente apre ad 
altri soggetti le porte del processo. Nel senso, dunque, di 
ampliare le possibilità, per i soggetti privati, di ricorrere al 
giudice e richiedere il suo intervento per la definizione di 
controversie. Per trovare un equo contemperamento fra le 
opposte esigenze, da un lato si esclude il potere del giudice, 
dall’altro si allarga, come si accennava, la sfera dei soggetti 
legittimati a proporre la domanda.                                     
Le eccezioni nel nostro ordinamento però vi sono.       
Esistono ipotesi in cui il giudice ha il potere di avviare il 
procedimento d’ufficio ed una di questa è proprio 
rappresentata dall’art. 6 della Legge Fallimentare. 
                                                           
7
 Verde G, op. cit., pag. 99.