interessanti; sulla scena internazionale, però, si stanno verificando 
alcuni fenomeni, riuniti nell’ampio spettro semantico del concetto di 
“globalizzazione”, che giustificano la maggiore attenzione posta dagli 
scienziati contemporanei nello studio delle migrazioni internazionali.  
Con il termine “globalizzazione” s’identificano, in sociologia, i 
caratteri dialettici del social and culture change e, proprio all’interno 
di quest’ambito, si collocano e si considerano i processi migratori. Le 
migrazioni sono fonte e, contemporaneamente, prodotto di mutamento 
sociale, innescato dal processo di globalizzazione planetaria che, 
modificando drasticamente le distanze fra i luoghi del nostro pianeta, 
induce cambiamenti nella distribuzione spaziale della popolazione e 
nella divisione internazionale del lavoro. 
Nel nostro paese il problema delle migrazioni internazionali si è posto 
all’attenzione dell’opinione pubblica, della classe dirigente e degli 
studiosi a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e la questione 
è emersa, soprattutto, nell’aspetto di processo immigratorio, in 
concomitanza con l’aumento quantitativo dei flussi immigratori 
provenienti dai paesi del Terzo Mondo e dall’Est europeo, cioè 
quando l’Italia, da paese d’emigrazione, si è trasformato 
progressivamente in paese meta di processi migratori.  
Lo scarso interesse dimostrato per lungo tempo da molti scienziati 
italiani rispetto al fenomeno delle migrazioni internazionali e il fatto 
che la sociologia delle migrazioni non sia ancora una disciplina 
compiutamente strutturata, comportano la necessità di porre 
l’attenzione, in via preliminare, ai contributi scientifici d’autori 
“classici”. Da qui si possono poi definire gli approcci più interessanti, 
che costituiscono un punto di riferimento fondamentale per tutti 
coloro che intendano studiare i fenomeni migratori e le problematiche 
ad essi connesse. 
 LE PRIME ANALISI DEI FENOMENI MIGRATORI 
Le migrazioni interne 
Gli esseri umani, sin dagli albori della loro presenza sul nostro 
pianeta, si sono sempre mossi nello spazio, anche se, dal neolitico in 
poi, la popolazione terrestre ha cominciato ad insediarsi sempre più in 
modo stanziale e sedentario in determinate aree geografiche.  
I primi studi sistematici dei fenomeni migratori, però, risalgono 
all’inizio dell’Ottocento e si concentrano principalmente sull’analisi 
delle migrazioni interne. Sarà particolarmente influente, sin 
dall’inizio, il pensiero di Karl Marx, anche se i suoi studi di matrice 
socio- economica non si riferiscono precisamente al tema delle 
migrazioni. Infatti, Marx non analizzò i fenomeni migratori nel loro 
complesso, ma prese in considerazione il carattere espulsivo e forzato 
dell’emigrazione che denominò, appunto, “emigrazione forzata”. 
Nelle sue analisi si riferì, prevalentemente, alle migrazioni forzate 
interne, che caratterizzavano la società industriale e capitalistica del 
suo tempo e portavano un’ingente massa di persone dalle zone rurali 
ai grandi centri urbani industrializzati. La causa principale di tali 
migrazioni fu individuata nella sfera economica dell’organizzazione 
sociale capitalistica che nella sua dinamica produce 
progressivamente impoverimento e disoccupazione della forza- lavoro 
e relega ampie quote di quest’ultima a costituire esercito industriale 
di riserva disponibile o sovrappopolazione relativa (Pollini- Scidà, 
1998:31). Con queste locuzioni lo scienziato denominò quei lavoratori 
espulsi dai processi di produzione, in genere a causa della progressiva 
meccanizzazione degli impianti industriali, sempre pronti, però, ad 
essere richiamati al lavoro, con l’effetto di contenere i salari ad un 
livello minimo accettabile. 
 Oggigiorno questa tesi potrebbe applicarsi al più attuale fenomeno 
delle migrazioni internazionali. Infatti, i migranti, ossia coloro che 
Cohen definisce come “nuovi Iloti”, costituirebbero quell’esercito 
industriale di riserva necessario al consolidamento della posizione 
politica ed economica della classe dirigente, con l’effetto di 
stabilizzare sia i mercati del lavoro dei paesi di provenienza sia quelli 
delle nazioni d’arrivo. 
Per lo sviluppo della sociologia delle migrazioni furono importanti 
anche gli studi di stampo geografico- sociale condotti da Ernst G. 
Ravenstein. 
L’approccio di Ravenstein, infatti, può essere considerato a pieno 
titolo come uno dei primi ambiziosi tentativi, nell’ambito delle scienze 
sociali, di spiegazione sistematica dei fenomeni migratori. Enunciando 
alcune leggi della migrazione, pubblicate nel saggio “The Laws of 
Migrations” del 1885, lo studioso intendeva sistematizzare una serie 
di comportamenti tendenziali, incentrati sulla variabile “distanza”, 
riscontrabili nei processi migratori interni. Riassumendo, nelle 
generalizzazioni proposte da Ravenstein si affermava che: 1) le 
correnti migratorie di breve raggio si muovono verso i grandi centri 
urbani ed industriali; 2) ogni corrente migratoria produce una 
controcorrente compensatoria; 3) la popolazione dei grandi centri 
urbani è meno incline alla migrazione rispetto alla popolazione delle 
aree rurali; 4) le donne sono più propense degli uomini a migrare. 
Nonostante queste asserzioni presentino molti limiti interpretativi, 
testimoniano, in ogni caso, un tentativo esplicativo dei fenomeni 
migratori interni. Le conclusioni cui giunse Ravenstein, però, 
mostrano la loro inadeguata capacità euristica se si tenta di applicarle 
ai fenomeni migratori internazionali attuali. Oggigiorno, infatti, i 
flussi migratori non si dirigono solo verso i grandi centri urbani ed 
 industriali ma, anzi, nello specifico caso italiano si possono notare 
notevoli incrementi della popolazione immigrata nelle piccole e medie 
città (Bologna, Treviso, Vicenza, Bergamo, Brescia…), spesso 
preferite alle città di maggiori dimensioni perché dotate di servizi 
sociali più efficienti e caratterizzate da maggiori opportunità 
d’inserimento nel mercato del lavoro. Pare, inoltre, poco applicabile 
alla realtà odierna la terza tesi proposta da Ravenstein: i migranti di 
oggi, infatti, provengono da ambienti sia urbani che rurali e tale 
tendenza pare maggiormente evidente per i flussi migratori da paesi 
“abbastanza” sviluppati economicamente, nei quali la 
contrapposizione città- campagna non è così forte. Infine, la quarta 
“legge” è valida solo parzialmente. Per quanto riguarda l’Italia, difatti, 
si possono riscontrare alcune correnti migratorie a maggioranza 
femminile (filippine, ecuadoriane, nigeriane, polacche…), così come 
si può notare la presenza di flussi “prettamente” maschili (senegalesi, 
marocchini, indiani, pakistani…), almeno nelle prime fasi del 
processo migratorio. Credo sia piuttosto difficile fornire una 
spiegazione sufficientemente convincente di questo fenomeno anche 
se, leggendo alcune ricerche condotte recentemente in Italia mi è parsa 
abbastanza condivisa l’idea che tale differenziazione di gender sia 
imputabile alle diverse opportunità d’inserimento nei mercati del 
lavoro locali. I flussi migratori a prevalenza femminile, infatti, si 
concentrerebbero maggiormente nei centri urbani e nelle aree del 
paese, come Genova per esempio, in cui è elevata la richiesta di 
manodopera da inserire nei cosiddetti “servizi alla persona” (colf, 
baby- sitter, assistenza anziani). Sembra, invece, che gli uomini si 
dirigano verso le aree del paese dove sono maggiori le possibilità 
d’inserirsi nella piccola e media industria o verso le zone turistiche in 
 cui il commercio ambulante, specialmente nei mesi estivi, può essere 
un’attività sufficientemente redditizia. 
I fenomeni migratori non sfuggirono all’attenzione del sociologo 
francese Emile Durkheim, che ne propose una lettura di tipo 
morfologico- sociale. Durkheim considerò i movimenti migratori 
come oggetto d’indagine della morfologia sociale, ossia di quel settore 
della sociologia che indaga il “sostrato” sul quale si basa la “vita 
sociale”. Il “sostrato” rappresenta le peculiarità territoriali di una 
determinata area geografica, tra cui, ad esempio, il volume, la densità 
e la distribuzione spaziale della popolazione residente, la qualità dei 
mezzi di trasporto e di comunicazione, l’ampiezza e la struttura degli 
insediamenti umani (…) (Durkheim, 1899:520- 521). 
Le migrazioni, secondo Durkheim, possono essere oggetto delle 
indagini sociologiche in virtù degli effetti, più o meno diretti, generati 
nella maggioranza dei fenomeni sociali collettivi. L’effetto sociale più 
lampante individuato dallo studioso è costituito dall’indebolimento di 
tutte le tradizioni, provocato dal mescolarsi di diversi popoli, che 
elimina buona parte delle differenze di partenza.  
 
I primi studi sulla figura del migrante 
Lo scienziato che pose le premesse per un’originale lettura delle 
migrazioni fu Georg Simmel, il quale, in un saggio
1
 pubblicato 
all’inizio del Novecento, concentrò la sua attenzione sulla forma 
sociologica dello straniero, figura particolare che riunisce in sé sia il 
carattere della mobilità sia quello della stanzialità. Caratteristica 
principale di questo “attore sociale” è il fatto di non condividere e non 
conoscere, almeno all’inizio, la maggioranza delle qualità e dei valori 
dell’ambiente sociale in cui intende inserirsi. Sarebbe, perciò, 
portatore di una nuova e differente mentalità rispetto a quella del 
 senso comune dominante e, nel tempo, rimarrebbe comunque 
caratterizzato da ciò che Simmel definì come duplicità 
dell’appartenenza sociale: quella della propria cerchia originaria, da 
un lato, e quella della cerchia sociale d’arrivo, dall’altro.  
L’autore propose, quindi, un approccio formale allo studio del 
migrante, evidenziando la duplicità e la contemporaneità degli 
elementi della lontananza e della vicinanza, di appartenenza e non- 
appartenenza che possono anche generare atteggiamenti conflittuali 
tra la popolazione autoctona e lo straniero. 
Un altro studioso che concentrò i propri sforzi sulla figura del 
migrante, con particolare attenzione all’inserimento dell’immigrato 
nella vita economica del paese ospitante, fu Werner Sombart. 
Sombart identificò nell’immigrato, nell’esule e nello straniero il fulcro 
del mutamento sociale ed economico proprio perché, non 
appartenendo alla maggioranza conformista e tradizionalista, sarebbe 
in grado d’innescare i cambiamenti necessari alla nascita di un nuovo 
sistema. Infatti, secondo lo scienziato, nel portare a compimento ciò 
che noi oggigiorno definiamo come personale progetto migratorio, lo 
straniero può fare affidamento su una mentalità che lo predispone a 
partecipare attivamente ai mutamenti economici e ad intraprendere 
una carriera di tipo “imprenditoriale”. Secondo Sombart 
quest’atteggiamento è possibile perché lo straniero, liberato dal peso 
della rete dei legami primari e senza eccessivi scrupoli morali, può 
convogliare nell’iniziativa economica tutte le sue energie. Le 
conclusioni cui giunse Sombart, però, attualmente non sembrano 
molto convincenti poiché molti studi recenti hanno dimostrato quanto 
siano forti e durevoli nel tempo i legami esistenti tra migranti ed il 
loro paese d’origine o la loro comunità d’appartenenza. Per citare 
qualche esempio si possono ricordare gli studi, che analizzerò con 
 maggiore attenzione nel seguente capitolo, che hanno evidenziato la 
continuità nell’invio di rimesse economiche dei migranti alle famiglie 
rimaste nel paese d’origine, oppure quelli che hanno focalizzato 
l’attenzione sul fondamentale ruolo svolto dalle reti etniche e sociali, 
sia durante la fase di preparazione dell’esperienza migratoria sia nel 
paese meta del progetto migratorio.  
 
Le migrazioni internazionali 
Gli studiosi che per primi si occuparono di questa tematica sono 
William I. Thomas e Florian W. Znaniecki, autori di un’opera, The 
Polish Peasant in Europe and America, ormai considerata un classico 
della sociologia delle migrazioni. Ricorrendo ad una metodologia 
investigativa, Thomas e Znaniecki, studiarono le condizioni di vita dei 
contadini polacchi emigrati in America e in Europa, comparando il 
contesto di partenza, ossia l’ambiente rurale, caratterizzato da un certo 
tradizionalismo e dalla presenza di valori stabili condivisi dalla 
comunità, con il contesto di arrivo, cioè l’ambiente urbano 
contrassegnato, al contrario, da forte mobilità ed individualismo. I loro 
studi erano tesi all’individuazione di mutamenti significativi negli 
atteggiamenti, nei valori e nei modelli culturali di riferimento degli 
individui che sperimentavano l’esperienza migratoria.  Focalizzando 
la loro attenzione su alcune variabili ritenute rilevanti, giunsero 
all’identificazione di diverse tipologie di comportamento e di 
atteggiamenti, tipici di coloro che vivono una doppia appartenenza 
culturale. Si può riscontrare un atteggiamento molto conservatore e 
tradizionalista, che provoca chiusura e rifiuto nei confronti dei modelli 
culturali proposti dalla società di “arrivo”; oppure si può verificare un 
totale rifiuto, con conseguente abbandono, dei modelli culturali con 
cui si è stati socializzati; o, ancora, ci può essere il tentativo di 
 sintetizzare i modelli culturali della propria comunità d’appartenenza 
con quelli della società in generale, atteggiamento che permette lo 
sviluppo di una personalità autonoma ed indipendente. Gli studi 
condotti da Thomas e Znaniecki, oltre ad essere originali sotto il 
profilo metodologico, rappresentano uno dei primi tentativi di 
interpretazione tipologica dei fenomeni migratori, che costituisce uno 
dei primi passi per la sistematizzazione scientifica di ogni disciplina. 
Un altro sociologo particolarmente importante per lo sviluppo 
scientifico della sociologia delle migrazioni fu Robert E. Park, che 
propose un approccio ecologico- sociale, tipico di quel gruppo di 
sociologi urbani appartenenti alla cosiddetta “Scuola di Chicago”. 
L’autore propone un’ipotesi molto interessante ed attuale nel saggio 
“Human Migrations and the Marginal Man” del 1928: ripose, infatti, 
l’attenzione sulle relazioni fra migrazione e mutamento sociale, 
concludendo che i fenomeni migratori sono il motore del 
cambiamento sociale: La civiltà medesima fiorirebbe alimentandosi 
delle differenze delle razze e delle culture, piuttosto che essere il frutto 
o il prodotto o il risultato di processi evolutivi endogeni (…). La 
migrazione in questa prospettiva diventa una delle condizioni dello 
sviluppo della civiltà… (Pollini- Scidà, 1998:43). Una delle tematiche 
indagate con maggiore attenzione da Park fu quella dell’integrazione, 
ossia quel processo che permette di mantenere l’equilibrio e l’ordine 
in una comunità che non possiede una base culturale comune. 
Individuò diversi livelli d’integrazione tra cui, ad esempio: 
l’amalgama, che riguarda l’incrocio tra diverse etnie attraverso il 
matrimonio; l’accomodamento, cioè quel processo d’aggiustamento 
finalizzato alla prevenzione e alla riduzione dei conflitti; 
l’assimilazione che è il procedimento secondo il quale la cultura di 
una comunità è trasmessa ad un cittadino “adottivo”, favorendone 
 l’inserimento sociale e culturale; e, infine, l’acculturazione, nella 
quale si pone enfasi sul linguaggio, inteso come medium di 
trasmissione culturale. 
Come ricordavo precedentemente, l’approccio proposto da Park trovò 
continuità negli studi condotti dagli studiosi appartenenti alla “Scuola 
di Chicago”, che posero particolare attenzione allo studio della 
segregazione residenziale dei gruppi d’immigrati residenti nelle 
metropoli nordamericane e al problema delle relazioni tra diversi 
gruppi etnici.  
 
 
GLI SVILUPPI DELLA SOCIOLOGIA 
DELL’IMMIGRAZIONE 
La “Scuola di Chicago” 
Questa già citata scuola sociologica nacque nei primi anni Venti e 
riunì in sé ricercatori orientati ad una proiezione spaziale dei fenomeni 
sociali, che elaborarono una teoria sociologica molto influenzata dalle 
istanze presentate dalla nascente ecologia biologica, anche se 
all’essere umano fu sempre riconosciuta la capacità d’intervenire 
sull’ambiente vitale per modificarlo. 
La maggior parte delle indagini condotte dagli studiosi appartenenti a 
questa scuola riguardano l’ambiente urbano, in particolare le sue 
patologie e le sue contraddizioni. Chicago, sotto questo punto di vista, 
costituiva all’inizio del XX secolo un valido laboratorio 
d’osservazione: infatti, essendo una città caratterizzata da una 
massiccia industrializzazione, era al centro di forti pressioni 
immigratorie, interne ed internazionali. Con l’intento di riscontrare 
una certa regolarità nei fenomeni che si verificavano in questo 
peculiare contesto urbano, i ricercatori di Chicago elaborarono uno 
 specifico approccio: si considera la città come un organismo sociale, 
organizzato territorialmente in “aree naturali”, in cui spazi e risorse 
sono costantemente contesi da gruppi sociali diversi per provenienza, 
cultura e funzioni.  
Altrettanto tipica di questa scuola fu l’esigenza di formulare una teoria 
sociologica fondata empiricamente e supportata da adeguati metodi e 
strumenti di ricerca. 
Le molte indagini ed osservazioni sul campo erano finalizzate 
all’identificazione di fasi cronologiche, il più possibile oggettive, da 
applicare ai processi d’integrazione riscontrabili nell’ambiente urbano. 
Molte ricerche, ad esempio, concludevano che i frequenti contatti tra 
differenti minoranze etniche avrebbero portato alla rottura 
dell’isolamento delle varie comunità, che, gradualmente, si sarebbero 
conformate allo stile di vita della maggioranza “White Anglo- Saxon 
Protestant”, pur mantenendo alcune lievi differenze. 
Fra le ricerche più interessanti dobbiamo ricordare quella condotta 
dallo svedese Gunnar Myrdal
2
 nel 1944, intitolata “An American 
Dilemma- The Negro Problem and Modern Democracy”. In questa 
survey, concentrata prevalentemente su tematiche normative e su 
prospettive di riforma sociale, lo studioso verificò un’interessante 
ipotesi di partenza: le affermazioni di principio relative alla 
democrazia e all’uguaglianza sociale, contenute nella Costituzione 
americana e in altri documenti ufficiali, contrastano con 
l’atteggiamento discriminatorio che i bianchi adottano nei confronti 
dei neri. Nei rapporti tra i diversi gruppi sarebbe riscontrabile ciò che 
Myrdal definì come “circolo vizioso”, ossia una situazione di blocco 
in cui il pregiudizio dei bianchi e il minore tenore di vita della 
popolazione nera si determinano e si condizionano a vicenda.  
 Oggigiorno si può ipotizzare l’esistenza delle contraddizioni, 
riscontrate da Myrdal più di mezzo secolo fa negli Stati Uniti, nelle 
metropoli europee. Infatti in Europa si possono verificare alcune 
forme di diseguaglianza sociale tra diversi gruppi etnici, nettamente 
contrastanti con quanto si afferma, in materia di solidarietà e 
responsabilità sociale e civile, nei documenti ufficiali che fondano la 
neonata Unione Europea. 
In tempi più recenti l’antropologo Frederik Barth, seguendo 
l’approccio ecologico di Park, ha dimostrato che, sebbene il processo 
di modernizzazione possa facilitare e stimolare l’interazione tra 
diversi gruppi sociali, ciò non si traduce automaticamente in maggiore 
integrazione. Quindi, secondo Barth, i confini possono persistere 
nonostante quella che può essere metaforicamente chiamata l’osmosi 
di persone attraverso essi (Barth, 1969:21). Di fatto coesistono gruppi 
che aspirano ad una completa assimilazione nella società di “arrivo” 
con altri che, invece, rifiutano qualsiasi forma di “contaminazione”, al 
fine di mantenere integra la propria identità etnica e culturale. Spesso i 
gruppi d’immigrati più intransigenti rispetto a qualsivoglia processo 
d’integrazione sono paradossalmente coloro che s’inseriscono 
adeguatamente nel panorama economico e sociale del paese. 
Ovviamente questo diverso atteggiamento può essere influenzato da 
alcuni fattori, come per esempio la lingua, la religione, il sentimento 
d’orgoglio nazionale e la storia del paese d’origine. 
Riassumendo, gli studi cui ho fatto brevemente riferimento 
s’interessano alle problematiche correlate al fenomeno delle 
migrazioni internazionali e alle dinamiche dei processi d’integrazione 
sociale e culturale, verificabili, prevalentemente, nelle aree urbane 
industrializzate, sottoposte ad ingenti pressioni migratorie nel corso 
del XX secolo. 
 Labour Migrations 
La mobilità umana è motivata da molteplici fattori che possono 
stimolare l’abbandono del proprio paese d’origine o attrarre 
l’individuo altrove. I primi fattori motivazionali sono generalmente 
denominati push factors, o fattori espulsivi; i secondi sono 
riconosciuti come pull factors, o fattori attrattivi. Molte ricerche si 
sono concentrate sull’analisi di questi elementi, con l’intento di 
giungere all’individuazione di un sostrato motivazionale comune, 
capace di descrivere quali caratteri influiscano maggiormente sulla 
decision making dei migranti. Secondo Cohen, ad esempio, la 
decisione di migrare è correlata a (…) factors as rural emiseration, 
employment and housing prospects, transport costs, international law, 
immigration policies (…), the need for documents like passports, visas 
and work certificates. In short, the individual’s resolve to migrate 
cannot be separeted from the institutional context in which this 
decision was reached 
3
(Cohen, 1987:36). Portes e Walton riprendono 
il tema delle motivazioni che sottostanno alla base del progetto 
migratorio in modo molto critico: (…) individuals migrate for a 
number of different causes- desire to escape oppresion and famine, 
financial ambition, family reunification, or education of children. 
Nothing is easier to compile lists of such “push” and “pull” factors 
and present them as a theory of migration. (…) in no way, however, 
does it explain the structural factors leading to a patterned movement, 
of known size and direction, over an extensive period of 
time”
4
(Portes- Walton, 1981:25). 
Le analisi condotte in quest’ambito fanno capo a molte discipline che 
naturalmente giungono spesso a conclusioni tra loro contrastanti. 
L’approccio economico neoclassico, ad esempio, tendeva ad 
analizzare i fenomeni migratori utilizzando le categorie concettuali ed 
 euristiche applicate allo studio dei flussi di capitali e di merci, 
imputandoli ad una sola causa principale: il differenziale salariale 
esistente tra i diversi mercati del lavoro. In altre parole si riteneva che 
gli squilibri nella distribuzione geografica dei fattori produttivi 
determinassero la direzione e l’entità delle correnti migratorie. Da 
quest’assunto di base si traeva una visione molto riduttiva dei 
fenomeni migratori prefigurante l’esistenza di flussi continui dalle 
aree con salari più bassi a quelle con condizioni salariali più 
favorevoli, sino a giungere ad una condizione d’equilibrio.  
All’inizio degli anni Ottanta quest’orientamento è stato drasticamente 
ridimensionato, anche dagli economisti, e ciò ha condotto a 
considerare il differenziale salariale come una, e non l’unica, delle 
condizioni essenziali degli spostamenti internazionali. Questa 
spiegazione, inoltre, pare maggiormente adeguata a spiegare le 
migrazioni dal sud verso il nord del mondo; non dobbiamo 
dimenticare, però, la consistenza delle correnti migratorie sud - sud, 
ossia all’interno dell’Africa sub - sahariana, verso il Medio Oriente o 
il Sudest asiatico, che difficilmente può essere giustificata ricorrendo 
unicamente alla teoria del differenziale salariale. 
Questo cambiamento di tendenza non è solo imputabile agli sviluppi 
della ricerca ma è anche correlato alla particolare condizione 
economica mondiale in atto nel decennio precedente.  
Fino agli anni Sessanta le economie occidentali più consolidate ma 
anche quelle di paesi “emergenti”, come ad esempio l’Italia, godevano 
di condizioni congiunturali favorevoli che facevano auspicare una 
costante crescita dell’economia mondiale. Un simile sviluppo rendeva 
necessario il reclutamento di manodopera dai paesi del Terzo Mondo 
da impiegare nei floridi mercati locali. I lavoratori reclutati dovevano, 
preferibilmente, essere giovani maschi, nel pieno della loro vita attiva, 
 non accompagnati né dalle mogli né dalle famiglie. In quest’ottica il 
ricorso alla manodopera immigrata si presenta perfettamente 
funzionale allo sviluppo economico dei paesi occidentali, anche 
perché i lavoratori immigrati percepiscono salari inferiori, sono più 
disponibili, rispetto ai lavoratori autoctoni, a svolgere mansioni ai 
limiti delle norme di sicurezza e nocive per la salute e, spesso, 
sostituiscono la forza lavoro locale “latitante” in alcuni settori.  
Per quanto riguarda la realtà italiana degli anni ’50 e ’60 è necessario 
fare alcune precisazioni. In Italia, infatti, a differenza di quanto 
avveniva in molti altri paesi europei (Francia, Gran Bretagna, 
Germania, Belgio…), negli anni del boom economico erano molto 
consistenti le migrazioni interne, ossia dal sud verso i centri urbani 
industrializzati del nord, mentre le migrazioni da altri paesi erano un 
fenomeno molto limitato e numericamente marginale. Lo sviluppo 
industriale e la crescita economica di quegli anni, quindi, non possono 
essere messi in relazione con l’impiego funzionale di manodopera 
straniera, anche se, sicuramente, i lavoratori meridionali erano più 
propensi in quel periodo ad accettare i cosiddetti “bad jobs”, offerti 
dai mercati del lavoro settentrionali, per allontanarsi da una situazione 
economica caratterizzata da un elevato tasso di disoccupazione e dalla 
prevalenza del “sommerso”.  
La profonda crisi economica, che colpì i mercati internazionali nel 
corso degli anni Settanta, modificò profondamente la situazione e 
l’impiego di forza lavoro straniera cominciò a non essere più 
considerato vantaggioso per le economie occidentali. Infatti 
aumentava, mediante il ricorso al “ricongiungimento familiare”, il 
peso quantitativo della popolazione immigrata e ciò rendeva 
necessario l’investimento di capitali da destinare ai servizi sociali.