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Introduzione 
 
Questo elaborato propone un’analisi dettagliata di come alcune imprese produttrici di 
macchinari nel settore alimentare (in particolare relative al settore della gelateria, 
panificazione e pasticceria), svolgono un’intensa attività sia di produzione che di 
vendita all’estero. In dettaglio, lo scopo del mio lavoro è ricercare nelle aziende prese 
in esame il rapporto che intercorre tra internazionalizzazione e innovazione, andando 
a illustrare tutte le varie modalità secondo cui queste aziende operano sia in Italia che 
all’estero. Dunque, nel primo capitolo vengono date alcune definizioni di base: ad 
esempio vengono classificate le imprese in categorie definite in base al numero di 
dipendenti che vi lavorano all’interno, mirando al loro processo produttivo; inoltre 
vengono spiegate le caratteristiche del Made in Italy. Successivamente viene descritto 
il processo di creazione di un’impresa, con annesso il passaggio da un’industria 1.0 
all’ultima arrivata, ovvero quella 4.0. Infine, nell’ultimo paragrafo mi soffermo sui 
distretti industriali italiani e sulla cosiddetta “Terza Italia”. Nel secondo capitolo 
invece, viene definita l’internazionalizzazione e il suo processo di diffusione in Italia, 
in particolare analizzando le varie aree geografiche in cui si è sviluppata maggiormente 
e i rapporti esistenti tra l’internazionalizzazione e l’innovazione, con alcuni esempi 
relativi ad alcune delle aziende più conosciute del settore alimentare. 
Nel terzo vengono invece le intere interviste realizzate nel corso della tesi con tre 
imprese molto dinamiche del settore alimentare. In ognuna di esse sono state poste 
delle domande riguardanti tre macro-argomenti: innovazione, internazionalizzazione e 
fonti delle conoscenze innovativi. All’interno di questi argomenti sono stati poi 
approfonditi i vari fattori ritenuti importanti per lo sviluppo aziendale sia all’estero che 
in Italia, andando a ripercorrere le loro storie, le loro modalità di produzione e di 
internazionalizzazione. Infine, nel quarto e ultimo capitolo verranno le conclusioni del 
mio lavoro di tesi.
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1. Le imprese italiane: alcune definizioni preliminari 
 
1.1 Il Made in Italy  
 
Con l’espressione Made in Italy viene indicato un bene totalmente progettato, prodotto 
e confezionato in Italia; viene tutt’ora usata per dissociarsi dalla falsificazione della 
produzione artigianale e industriale italiana. Per far conoscere e sostenere il Made in 
Italy, su tutto il territorio nazionale vengono sempre più incentivati incontri, fiere 
workshop all’insegna di qualità, ricerca e innovazione. Si tratta di iniziative diffuse nei 
Paesi esteri che molto spesso concentrano eventi culturali e occasioni per conoscere da 
vicino aziende ed imprenditori. Nel 2009, è stata emanata una legge proprio per tutelare 
il Made in Italy, difendendo dai vari prodotti contraffatti i prodotti interamente italiani. 
Diventato oggi un vero e proprio marchio, il Made in Italy è soprattutto noto per le 
esportazioni a livello mondiale, considerato come categoria commerciale a sé stante. 
Basandoci ora su dati sviluppati da una multinazionale che fornisce servizi per le 
imprese (KPMG), constatiamo che oggi il Made in Italy attira sempre più investitori 
dall’estero. In particolare, circa il 68% degli investimenti provenienti da Asia, Russia, 
Stati Uniti e Francia, si concentra su tre settori principali: il commercio (25,3 %), quello 
dei servizi finanziari (21,8%) e attività industriali (20,5%). Tuttavia, l’evoluzione dei 
mercati con la sempre più marcata globalizzazione, fanno si che vengano riscontrati 
dei vantaggi del marchio Made in Italy (detto anche Marchio Unico Nazionale). Essi 
riguardano per lo più il consumatore, l’azienda e il mercato. Per quanto riguarda il 
consumatore, egli attraverso il marchio conosce il prodotto, sa che vi è la garanzia di 
una provenienza certificata e dunque una totale inibizione di una eventuale 
contraffazione. Per conto dell’azienda invece, il marchio offre il vantaggio di 
un’apertura di nuovi mercati, quindi un aumento del fatturato, connesso ad una 
collaborazione con altre aziende. Infine per il mercato, il Made in Italy offre un
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aumento della produzione interna, dei posti di lavoro, promuovendo così l’intero 
territorio nazionale. 
Ma quali sono i settori in cui è più diffuso il Made in Italy, e quali i prodotti più ricercati 
sui mercati mondiali? Principalmente quelli che vanno dalla moda alla calzatura, dalle 
automobili alla costruzione di navi, ma non meno importante degli altri il settore 
enogastronomico, che offre un’incredibile varietà di prodotti diversi per regioni, 
province e comuni. Basti pensare ai principali prodotti e cibi italiani esportati nel 
mondo, come il Parmigiano Reggiano o il pesto ligure, il tartufo di Alba.  
Un altro esempio di settore che vede i suoi prodotti proiettati sul mercato estero è 
sicuramente quello della moda, sottolineando così il fatto di creare una tendenza che 
da sempre contraddistingue lo stile italiano dagli altri. I marchi italiani di questo settore 
fanno aumentare sempre più la domanda soprattutto a livello internazionale; ed è qui 
infatti che nell’ultimo decennio si è registrato un aumento di investimenti stranieri per 
acquisire note aziende operanti nel settore della moda. 
Facendo un passo indietro, il prodotto Made in Italy sorge da la cosiddetta 
Certificazione di Prodotto. Essa, come già accennato, è una comunicazione diretta ai 
consumatori che trasmette sicurezza, affidabilità e qualità dei prodotti che vengono 
diffusi in un mercato sempre più globale e competitivo. Quindi qualsiasi prodotto può 
essere oggetto di certificazione di prodotto Made in Italy, tuttavia ci devono essere e 
soprattutto devono essere verificabili quei requisiti che vanno garantiti al consumatore 
finale; tutto ciò porta ad una valorizzazione del prodotto, il quale dovrà essere in grado 
di rispettare le varie leggi e normative internazionali. 
Per concludere, il processo di Certificazione del prodotto è disciplinato da un 
regolamento generale, in cui vi sono tutte quelle operazioni e procedure che servono 
per la verifica dei requisiti che il prodotto deve avere affinché ottenga la Certificazione. 
Dopodiché, al termine di tutte le varie verifiche, viene emessa una relazione che 
consente all’organismo preposto di emettere al prodotto l’attestato di Certificazione. 
Quindi l’autorizzazione all’uso del marchio solitamente ogni anno deve essere 
rinnovata, sempre dopo le obbligatorie e opportune verifiche.
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Di queste certificazioni si possono avvalere sia le imprese italiane di piccole e medie 
dimensioni sia quelle grandi. Vediamo, quindi, come vengono differenziate queste 
imprese dal punto di vista dei criteri di classificazione utilizzati dalle organizzazioni 
internazionali. 
 
1.1.1 Le piccole e medie imprese (PMI) 
 
Le PMI sono quelle aziende le cui dimensioni rientrano in alcuni limiti, sia riguardante 
i dipendenti in cui vi lavorano all’interno, che riguardo finanziamenti prefissati. Per il 
fatto che la maggior parte delle volte queste imprese incontrano difficoltà ad attrarre 
capitali, sia Stati che Regioni si muovono per aiutare le imprese, sostenendole tramite 
aiuti, agevolandole attraverso l’emissione di finanziamenti, importanti per mandare 
avanti l’operato dell’azienda. La dicitura PMI è principalmente diffusa all’interno 
dell’Unione Europea e nelle Organizzazioni Internazionali; inizialmente ogni Stato 
membro utilizzava una propria definizione per PMI, mentre oggi l’Unione Europea ha 
reso uniforme il concetto di PMI classificandola in: 
• Micro impresa: il numero di dipendenti è inferiore a 10, mentre il fatturato e il 
patrimonio non superano i 2 milioni di Euro;  
• Piccola impresa: il numero di occupati è inferiore a 50, mentre il fatturato e il 
patrimonio non superano i 10 milioni di Euro; 
• Media impresa: il numero di lavoratori all’interno non supera i 250, mentre il 
fatturato è inferiore o uguale a 50 milioni di Euro; qui invece il patrimonio 
aziendale non deve superare i 43 milioni di Euro. 
 
Dagli anni Novanta del secolo scorso fino ad oggi, in Italia si è verificato un grande 
cambiamento del tessuto produttivo, basato ora su aziende che hanno una media di 3,7 
addetti (Istat). Le Micro imprese sono circa 1,4 milioni, con il 47,4 % di addetti e il 
30,6 % del valore aggiunto. Le PMI impiegano il 32,9 % degli addetti, con un valore 
aggiunto del 38,4 % (Istat). Da ciò si può constatare che sotto il profilo della quantità
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di servizi di mercato, l’industria italiana può rilevarsi come la seconda manifattura 
europea, dopo la Germania; tuttavia la nostra industria rappresenta il 10 % delle 
imprese, il 25,5 % di addetti e il 35,6 % del valore aggiunto (Istat). Nel settore 
manifatturiero, le imprese che esportano realizzano l’81,7 % del valore aggiunto, con 
dei margini di profitto lordo intorno al 31,8 % (Istat). La propensione all’esportazione 
del settore manifatturiero (rapporto tra fatturato all’export e quello totale), è pari al 
35,8 % (Istat). Ciò è dimostrabile dal fatto che ci sono alcune differenze, di settori e 
dimensioni: infatti imprese di certi settori vendono all’estero più della metà del proprio 
fatturato (esempi come prodotti farmaceutici, macchinari, mezzi di trasporto). Quindi, 
il discorso delle differenze dimensionali va a rappresentare l’elemento principale 
dell’internazionalizzazione, poiché l’esportazione aumenta all’aumentare dell’azienda.  
 
1.1.2 Le grandi imprese 
 
Le grandi imprese sono quelle il cui numero di dipendenti è maggiore di 250, mentre 
il fatturato supera di gran lunga i 50 milioni di Euro delle Medie imprese e infine, per 
quanto riguarda il patrimonio, deve essere più alto di 43 milioni di Euro.  
Come già accennato in precedenza con le PMI, anche in questo caso dagli anni Novanta 
si è visto un cambiamento del capitalismo italiano, segnando anche con la recessione 
del 2008 un periodo negativo per l’espansione della grande impresa. Recentemente è 
stata compiuta un’analisi da una società di consulenza, analizzando le imprese con oltre 
un miliardo di fatturato: l’indagine era composta da 164 aziende italiane, contro 1.450 
società di altri 14 Paesi europei (P. Bricco, Il Sole 24 Ore). Da essa risulta che 
calcolando i bilanci del 2014, il valore medio della produzione per le aziende italiane 
è pari a 3 miliardi di Euro circa, contro 3,5 miliardi del resto del campione; facendo 
vari esempi, nel settore manifatturiero il patrimonio netto attivo è pari al 30 % per 
l’Italia, a fronte del 35 % degli altri Paesi europei. Prendendo come riferimento la 
proprietà intellettuale invece, il numero medio di brevetti per impresa italiana è di 53, 
contro la media di 132 degli altri Paesi (P. Bricco, Il Sole 24 Ore).
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Dunque, ritornando al discorso del cambiamento del capitalismo italiano nel tempo, si 
prendano in esame quelle aziende con oltre mille addetti: nel 1991 se ne contano 241 
(778 mila addetti); nel 2001 invece, le stesse scendono a 223, con 558 mila addetti; nel 
2011 sono 176, con 430 mila addetti, per poi ad arrivare nel 2014 a 167 imprese, con 
408 mila addetti (P. Bricco, Il Sole 24 Ore). 
Tutto ciò che è stato rilevato dalla precedente analisi è che il numero di imprese con 
più di mille addetti, dagli anni Novanta è sceso di un terzo, mentre per quanto riguarda 
il numero totale degli addetti per azienda si è ridotto di quasi la metà. Il fulcro centrale 
del cambiamento si può decisamente notare con il calo del numero di addetti, sul totale 
del manifatturiero, riferibile a tutte quelle imprese che hanno più di mille dipendenti: 
questa quota nel 1991 era pari al 14,7 %, nel 2001 dell’11,4 %, mentre sia nel 2011 che 
nel 2014 la quota si stabilizzò all’11 % (P. Bricco, Il Sole 24 Ore). 
Tuttavia, come dimostrato nelle indagini precedenti, la recessione in un confronto 
europeo ha messo e sta mettendo tutt’ora sotto pressione le grandi imprese, con il 
rischio che alcuni fenomeni possano sempre più scindere questa situazione. Uno tra 
tutti riguarda la complessità dei passaggi generazionali (un esempio chiaro è il caso 
Esselunga, con le varie vicende fra i membri della famiglia Capriotti); qui il problema 
è delineato dalla identificazione tra il gruppo e l’imprenditore dell’azienda (scomparso 
lo scorso settembre). In particolare si vedrà, in caso di vendita del gruppo, l’entrata in 
scena o meno di investitori italiani, capaci di gestire l’azienda al meglio. 
Un ulteriore fenomeno che sta trasformando il capitalismo italiano (l’ultimo preso in 
esame), è quello del cosiddetto “nomadismo societario”, caso in cui l’Italia sembra 
essere terra di abbandono da parte delle grandi imprese. Ad esempio, nel caso di Fca, 
Chn, Ferrari ed Exor (società che gestisce i loro capitali), hanno sede legale in Olanda 
e fiscale in Italia. Dall’ inizio del 2017 Exor avrà sede legale e fiscale in Olanda, mentre 
in Italia restano poche società della proprietà Agnelli – Elkann. Questa “premessa” era 
per spiegare come alcuni Paesi europei presentino vantaggi nell’accogliere grandi 
aziende nei propri Paesi (in questo caso l’ Olanda): grazie ad un accordo fra Stati Uniti 
e Olanda, le società olandesi presentano dei vantaggi nella quotazione a Wall Street,