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Introduzione 
 
 
La ricerca qui presentata rientra in un progetto più ampio, condotto 
dal Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica 
dell’Università di Roma “Sapienza”, indirizzato alla valutazione della 
capacità di prestare un adeguato consenso informato in diverse categorie 
di pazienti psichiatrici. Come dimostrato da diversi studi sul tema, le 
capacità decisionali riscontrabili in pazienti affetti da patologie 
psichiatriche possono risultare molto variabili, potendosi presentare 
pienamente valide anche in pazienti affetti da gravi forme di psicosi, qual è 
la schizofrenia, in cui la consapevolezza di malattia è sovente alterata. 
Tale evidenza rende ingiustificato l’atteggiamento, spesso riscontrabile 
nella pratica clinica, che vede il medico psichiatra rinunciare a priori, sulla 
base di fuorvianti preconcetti, al tentativo di instaurare una relazione 
medico-paziente basata sulla collaborativa condivisione delle decisioni e 
delle prospettive implicate nell’iter diagnostico-terapeutico, in favore di 
un’obsoleta interazione di tipo paternalistico. 
Lo studio proposto è indirizzato alla valutazione delle capacità decisionali 
in pazienti affetti da schizofrenia farmaco-resistente, generalmente 
considerata, per l’insoddisfacente risposta alle terapie di prima linea 
implicata nella sua stessa definizione, una delle fattispecie più gravi di 
psicosi.
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Il consenso informato: la cornice normativa 
 
Il principio del consenso informato rispecchia, nella sua progressiva 
affermazione e continuo perfezionamento, l’evoluzione dimostrata, sia 
sotto il profilo etico-culturale che su quello giuridico-deontologico e pratico, 
dal rapporto medico-paziente. L’affermazione di tale principio ha infatti, da 
un lato, marcato il passaggio da una concezione paternalistica dei doveri 
del medico ad una più moderna concezione personalistica dei diritti del 
paziente; dall’altro, indica che il fondamento primo della legittimità degli 
interventi terapeutici è costituito dal consenso del paziente, che oggi 
rappresenta l’imprescindibile limite soggettivo di pratiche mediche 
comunque vincolate al limite oggettivo della loro liceità
1
. L’attuale cornice 
normativa e culturale che connota l’incontro tra il medico ed il paziente 
privilegia la tutela della libertà e dell’autodeterminazione di quest’ultimo, in 
funzione della salvaguardia della sua integrità psico-fisica. La libertà di 
scelta e l’autodeterminazione appaiono potersi esprimere compiutamente 
solo a fronte di una comunicazione che si articoli in un complesso 
percorso informativo e decisionale condiviso da medico e paziente: la 
comunicazione viene così a costituire, nella relazione, il momento 
fondativo di una valida alleanza terapeutica
2
.  
Il consenso informato si articola nelle due fasi di informazione e di 
consenso, che meritano una chiarificazione ulteriore. L’informazione al 
paziente è un messaggio verbale unidirezionale, un intervento atto al
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semplice ragguaglio circa i fatti (la diagnosi), gli sviluppi attesi (la prognosi) 
e le prospettive d’azione (le alternative terapeutiche); la comunicazione 
implica, invece, uno scambio reciproco di informazioni che avviene, 
secondo canali verbali e paraverbali, in un contesto di empatia e 
condivisione che configura una relazione tra i due protagonisti dell’atto 
medico. Seppure sia impossibile informare senza comunicare, è 
comunque necessario, da parte del medico, verificare la correttezza e la 
completezza di questo processo, quale condizione indispensabile affinché 
il paziente possa esercitare pienamente il suo diritto di consentire o 
dissentire alle proposte del terapeuta
3
. Come si è detto, il secondo 
momento dell’interazione è quello del consenso. Il consenso prevede 
partecipazione e consapevolezza, e deve essere perciò distinto dal 
semplice assenso, che esprime un’accettazione passiva o, nel migliore dei 
casi, una partecipazione parziale. In talune situazioni specifiche tuttavia, 
come ad esempio in ambito psichiatrico, l’assenso può costituire un primo 
livello d’intesa da cui, con il progressivo strutturarsi di una valida alleanza 
terapeutica, potranno successivamente scaturire una maggiore 
partecipazione ed un autentico consenso. 
La dottrina del consenso fa riferimento a contributi giuridici 
(Costituzione, Codice Penale, Codice Civile) e deontologici (Codice di 
deontologia medica), oltre che bioetici (Comitato Nazionale di Bioetica, 
Consiglio d’Europa). Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono 
disciplinati, innanzitutto, dall’art. 32 della Costituzione, che stabilisce che
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«Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario 
se non per disposizione di legge». Sul tema della salute come diritto, più 
che come dovere, si è espresso nel 1992 il Comitato Nazionale di 
Bioetica: «Al centro dell’attività medico-chirurgica si colloca il principio del 
consenso il quale esprime una scelta di valore nel concepire il rapporto tra 
medico e paziente (...). Sicché sono da ritenere illegittimi i trattamenti 
sanitari extraconsensuali, non sussistendo un dovere di curarsi»
4
.  E 
ancora, nella Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla 
biomedicina
5
, ratificata dal Parlamento italiano nel 2001: «Un intervento 
nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la 
persona interessata abbia dato consenso libero e informato (...)». Le 
disposizioni di legge in merito ai trattamenti obbligatori, ove al principio del 
contratto bilaterale succede quello del beneficio valutato unilateralmente 
dal sanitario, sono esplicate negli artt. 33 (Norme per gli accertamenti ed i 
trattamenti sanitari volontari ed obbligatori), 34 (Accertamenti e trattamenti 
volontari ed obbligatori per malattia mentale) e 35 (Procedimento relativo 
agli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza 
ospedaliera per malattia mentale e tutela giurisdizionale) della legge 
833/78. Come è noto, un’importante eccezione all’ineludibilità del 
consenso è rappresentata dai casi urgenti, disciplinati dagli artt. 51 
(Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) e 54 (Stato di 
necessità) del codice penale, ove, seppure con molte limitazioni, al 
principio del consenso dell’avente diritto è anteposta la salvaguardia della
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vita e della salute del paziente. È da ricordare, infine, che l’atto medico si 
colloca tra due poli che ne delimitano la portata: l’art. 50 del codice penale 
(Consenso dell’avente diritto), in cui è affermato che «Non è punibile chi 
lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può 
validamente disporne», e l’art. 5 del codice civile (Atti di disposizione del 
proprio corpo), che dispone che «Gli atti di disposizione del proprio corpo 
sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità 
fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al 
buon costume». 
La norma giuridica sul consenso trova un perfezionato riverbero nel codice 
di deontologia medica
6
, che dedica ampio spazio al tema sia per quanto 
concerne l’attività terapeutica che per quella di sperimentazione clinica.  In 
particolare, gli aspetti salienti possono ritrovarsi nell’art. 33 (Informazione 
al cittadino), ove si specificano le caratteristiche dell’informazione 
proposta dal sanitario e quelle riguardo alla sua completezza e 
personalizzazione, e negli artt. 35 (Acquisizione del consenso), 37 
(Consenso del legale rappresentante) e 48 (Ricerca biomedica e 
sperimentazione sull’uomo), ove è sancita la necessità del consenso 
dell’interessato, o del legale rappresentante, per ogni attività terapeutica e 
sperimentale. Nell’art. 35 viene, inoltre, ribadito il diritto del paziente a 
rifiutare le cure: «In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di 
persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici
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e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la 
volontà della persona». 
Per rendere una suggestiva testimonianza dell’evoluzione del rapporto 
medico-paziente e della rapidità dei suoi mutamenti, appare utile ricordare 
come, ancora nella versione del 1989, nel codice di deontologia medica 
fosse ammesso un consenso «sostanzialmente implicito nel rapporto di 
fiducia», tranne nei casi che avessero comportato rischi o permanente 
diminuzione dell’integrità fisica. 
La natura del rapporto che si instaura tra il medico ed il paziente è il 
contratto d’opera intellettuale (art. 2230 c.c.), che si specifica come 
contratto di prestazione medica e che trova il suo necessario presupposto 
di validità nel possesso della capacità di agire (art. 2 c.c.) da parte dei 
contraenti. I requisiti del consenso prestato da un individuo capace o, nel 
caso di minore, interdetto o incapace naturale, dal suo legale 
rappresentante, non sono dati per legge, ma ne sono state da più parti 
proposte alcune specificazioni
1,2,3,7
 secondo le quali il consenso deve 
essere: 
a) Personale e reale. Solo il soggetto direttamente interessato dall’intervento 
medico può effettivamente esprimere il proprio consenso. Nel caso di minori 
o incapaci (soggetti interdetti, incapaci naturali) il consenso deve essere 
prestato dal legale rappresentante (genitore, tutore).  
b) Legittimo. Il consenso deve avere per oggetto atti di disposizione del proprio 
corpo che siano leciti ai sensi dell’art. 5 c.c., fatta eccezione per i casi in cui il