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Introduzione 
 
A partire dalle riforme di Deng Xiaoping del 1978, la Cina è stata protagonista di 
una crescita tumultuosa, realizzata a ritmi estremamente sostenuti. Questa 
crescita, tuttavia, ha portato con sé profonde disuguaglianze e squilibri e, 
certamente, non è stata condotta nel rispetto della sostenibilità ambientale. La 
produzione cinese si basa, infatti, sull'utilizzo massiccio di combustibili fossili, in 
particolare il carbone, responsabili dell'aumento vertiginoso delle emissioni di 
biossido di carbonio e causa di gravissimi danni ambientali.  
Per questo motivo, come ho analizzato nella prima sezione della mia tesi, il 
“paese di mezzo” si trova ad affrontare gravissimi deficit ecologici, generati 
dall’inquinamento atmosferico e idrico, e aggravati dai problemi di salute 
pubblica correlati. 
Proprio in risposta a queste difficoltà, ha avuto origine il movimento 
ambientalista cinese, che affonda le sue radici nella crisi ambientale che sta 
attraversando la Cina e le cui proteste costituiscono un forte fattore di instabilità 
per il paese. Parallelamente, si è assistito all’insorgere, intorno alla metà degli anni 
novanta, delle prime ONG cinesi impegnate per la causa ecologica, testimonianza 
che la Cina sta sviluppando una propria coscienza ambientalista, seppure sia 
ancora debole, inesperta e rappresenti un fenomeno di scarsa rilevanza sociale.  
 Sempre per trovare una soluzione alle questioni ambientali, una delle 
maggiori sfide del governo cinese è stata quella di definire un corpus di leggi e 
normative, capaci di porre rimedio ai problemi insorti in seguito alla rapida 
crescita economica, senza tuttavia costituire un freno a tale sviluppo. Per questo 
motivo, si è assistito alla promulgazione di numerose norme in materia
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ambientale, a partire dalla “Legge sulla protezione ambientale” del 1979, fino 
all’ultima presa in analisi, la “Legge sull’energia rinnovabile” del 2006. La 
normativa ambientale cinese, a differenza di quanto si potrebbe pensare, non 
soffre assolutamente di carenze quantitative; nonostante ciò, i problemi principali 
sono legati all’applicazione e al rispetto della normativa in questione, che molto 
spesso si scontra con gli interessi economici particolaristici delle amministrazioni 
locali.  
 In particolare, la “Legge sull’energia rinnovabile” è servita come cornice 
per lo sviluppo di queste fonti energetiche. Ha infatti dato il via ad una grande 
varietà di incentivi finanziari e investimenti, che la Cina ha saputo sfruttare al 
meglio, facendone in breve tempo un vero e proprio business, in particolare nel 
settore idroelettrico, solare ed eolico. Tuttavia, per il paese, l’esplorazione del 
campo delle rinnovabili non deriva tanto dalla preoccupazione per la salute del 
pianeta, ma dall’esigenza di riuscire a soddisfare il bisogno energetico nazionale. 
L’energia rinnovabile è, infatti, per la Cina una fonte addizionale e non alternativa, 
il che significa che il problema ambientale non è certamente la causa scatenante 
della crescita in questo settore, né il rinnovabile così utilizzato ne è la soluzione. 
 Nella seconda sezione della mia tesi, ho invece traslato il discorso dei 
problemi ambientali a livello globale, attraverso l’analisi del ruolo della Cina nelle 
varie conferenze internazionali su clima e ambiente, considerandone inoltre le 
strategie diplomatiche, la posizione nel blocco dei paesi in via di sviluppo e la 
costante contrapposizione con gli Stati Uniti.  
In primo luogo, ho analizzato le origini del dibattito internazionale sui 
problemi ambientali e sullo sviluppo sostenibile. Il punto di partenza coincide con 
la Conferenza sull’Ambiente Umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972, che
9
costituisce un momento importantissimo, perché, per la prima volta, i 
rappresentanti dei governi delle nazioni del mondo si radunarono per esaminare 
le conseguenze del degrado ambientale sul futuro del nostro pianeta. 
Venti anni dopo, a Rio de Janeiro, si tenne un nuovo incontro: il Summit 
Pianeta Terra. Questa conferenza fu estremamente importante per i documenti 
emessi, in particolare, per la promulgazione dell’Agenda 21: la pianificazione 
degli impegni e degli interventi per lo sviluppo sostenibile, da attuare nel XXI 
secolo. Tenendo conto di queste linee guida, ogni paese avrebbe dovuto, poi, 
lavorare all’implementazione di una Agenda 21 Locale, che la Cina approvò nel 
1994. Questo documento sottolineava l’importanza del raggiungimento di uno 
sviluppo più sostenibile per il proprio paese, ribadendo, tuttavia, il fatto che la 
priorità della Cina dovesse essere, comunque, lo sviluppo economico. 
Nella Conferenza di Rio de Janeiro, il ruolo della Cina è ancora marginale e 
le sue emissioni non sono ancora al centro dell’attenzione internazionale.  
Tuttavia, tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, il paese 
avrebbe confermato la sua ascesa come potenza economica mondiale. Il suo 
“passaggio di ruolo”, come interlocutore su scala globale, fu il risultato di una 
commistione di eventi: in primis, la crisi finanziaria asiatica (1997 – 1999), della 
quale la Cina riuscì a evitare il pieno impatto, assumendo un ruolo geopolitico 
fortissimo nell’area; poi, nel 2001, l’ingresso della Cina nel WTO (World Trade 
Organization), che fece in modo che il paese si aprisse maggiormente al 
commercio internazionale, accelerandone notevolmente la crescita economica.    
 Comunque, già a Kyoto, nel 1997, l’entità delle sue emissioni non riuscì più 
a passare inosservata di fronte alla comunità internazionale. La conferenza portò 
all’adozione di un protocollo, che entrò in vigore il 16 febbraio 2005. Il documento
10
stabiliva tagli vincolanti per i paesi industrializzati, obblighi che non venivano 
previsti, invece, per quelli in via di sviluppo e, quindi, anche per la Cina, che ne 
faceva parte.  
L’esclusione dai vincoli delle economie emergenti, tra cui spiccavano Cina 
e India, venne fortemente criticata dagli Stati Uniti, che, proprio in considerazione 
dell’alto tasso di emissioni di questi due paesi, rifiutarono di ratificare il 
documento.  
Queste contrapposizioni si sarebbero poi riproposte anche nelle successive 
conferenze sul clima, a Bali (2007), Poznan (2008) e Copenhagen (2009), rendendo 
ancora più difficile il raggiungimento di un accordo globale e fattivo. Gli Stati 
Uniti non accettavano il fatto che la Cina non venisse inclusa negli obblighi di 
riduzione, mentre il “paese di mezzo” difendeva il proprio diritto prioritario allo 
crescita economica. Rivendicava, infatti, la propria appartenenza al gruppo dei 
paesi in via di sviluppo, con il quale, tuttavia, ha sempre meno a che spartire, e 
ribadiva che si sarebbe unita agli obblighi del protocollo, solo a condizione che 
anche gli Stati Uniti facessero la propria parte.  
Proprio nella capitale danese, si sperava di poter finalmente raggiungere 
impegni concreti, prima della scadenza della prima fase del protocollo di Kyoto, 
fissata al 2012. L’anno della conferenza, infatti, coincideva con il cambio di 
amministrazione statunitense, che avrebbe visto affacciarsi alla presidenza Barack 
Obama, sul quale si concentravano grandi aspettative per il raggiungimento di un 
accordo soddisfacente.  
Il percorso con destinazione Copenhagen era già stato stabilito a Bali, due 
anni prima, attraverso la formulazione di una road map programmatica, che 
avrebbe dovuto porre le basi per il raggiungimento di un accordo vincolante nel
11
2009. Tuttavia, anche la tanto attesa conferenza danese si sarebbe rivelata un 
insuccesso, in quanto non si riuscì a mettere d’accordo i vari paesi partecipanti 
sugli impegni da prendere, a causa dei loro interessi particolaristici: gli Stati Uniti 
sollecitavano affinché venissero coinvolte anche le economie emergenti negli 
obblighi di riduzione, mentre le nazioni del BASIC (Brasile, India, Sud Africa e 
Cina) sottolineavano che, in quanto paesi in via di sviluppo, la loro priorità era 
rappresentata dalla crescita economica. I paesi più poveri, invece, poiché 
maggiormente minacciati dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, 
premevano per il raggiungimento di un accordo per contenere l’innalzamento 
delle temperature globali, in quanto fondamentale per la propria sopravvivenza. 
La loro posizione era, inoltre, sostenuta dagli attivisti dell’ambiente e dalle 
iniziative delle varie ONG, che, insieme agli abitanti delle piccole isole e 
dell’Africa, si scontrarono fortemente con le decisioni dei paesi più 
industrializzati, i quali rifiutavano un accordo fattivo, inseguendo i propri 
desideri di crescita economica sfrenata, anche a costo di compromettere 
l’ambiente. 
Da questo panorama emerge che la collaborazione tra i vari paesi del 
mondo per l’abbassamento del livello di CO2 nell’atmosfera e la salvaguardia del 
pianeta sono ancora obiettivi molto lontani, principalmente perché, a livello 
globale, i problemi ambientali passano troppo spesso in secondo piano rispetto 
alle questioni economiche: business as usual.
25
1.4. Il caso della Cina: i costi economici dei deficit ecologici 
 
Con la crescita demografica ed il benessere economico, il peso di molte economie 
sui sistemi naturali è diventato eccessivo. Tutto ciò ha creato una situazione di 
deficit ecologico, i cui effetti si manifestano in particolare a livello locale: ad 
esempio, il disboscamento induce una carenza di legna da ardere, l’eccessivo 
sfruttamento dei terreni agricoli porta al calo dei raccolti, il pascolo troppo intenso 
ha portato il bestiame alla denutrizione e il sovrasfruttamento delle falde freatiche 
ha provocato il loro abbassamento e il prosciugamento dei pozzi.  
Ad un certo punto, però, questi deficit crescenti, palesati a livello locale, 
hanno innescato un processo che ha portato a disastri ecologici di proporzioni 
nazionali. Questo è il caso della Cina, dove la scomparsa delle foreste, il 
deterioramento dei pascoli, l’erosione delle terre coltivate e l’abbassamento delle 
falde acquifere hanno contribuito alla formazione di dust bowl (tempeste di sabbia) 
di dimensioni storiche. La Cina infatti, a causa dell’immensa estensione geografica, 
dell’impatto sul territorio degli oltre 1,3 miliardi di abitanti e del ritmo vertiginoso 
della sua crescita economica, è un caso all’avanguardia nel deteriorato rapporto 
fra economia globale ed economia terrestre.
15
  
Lester Brown, ambientalista americano e fondatore del Worldwatch 
Institute, nel suo libro Bilancio Terra: gli effetti ambientali dell’economia globalizzata, 
descrive così la situazione del paese:  
 
la Cina, senza esserne assolutamente preparata, è ora in guerra: a volerle 
sottrarre il territorio non sono eserciti invasori ma i deserti in via di 
                                                   
15
 Lester BROWN con Janet LARSEN, Bernie FISHLOWITZ-ROBERTS, Bilancio terra: gli effetti ambientali 
dell’economia globalizzata, Milano: Ambiente, 2003, p. 15
26
espansione; i deserti esistenti infatti avanzano mentre se ne formano di nuovi, 
come cellule di guerriglieri che, attaccando in modo inaspettato, costringono 
Pechino a combattere su fronti diversi. Ed il governo cinese questa guerra la 
sta perdendo, dal momento che i  deserti non solo avanzano, ma si allargano 
ad un ritmo incalzante, reclamando ogni anno sempre  più spazio.
16
  
 
Data questa situazione, in Cina si parla ormai di “quinta stagione”, cioè la 
stagione delle tempeste di polvere, che si protrae tra la fine dell’inverno e l’inizio 
della primavera. Ma le tempeste di polvere della Cina colpiscono anche il 
Giappone e la Corea del Sud, fenomeno che ha portato alla necessità di una 
consultazione ministeriale trilaterale nel 1999.
17
 In Corea del Sud, in particolare, 
quando il paese è soffocato da tali fenomeni, gli ospedali sono invasi da pazienti 
afflitti da problemi respiratori, si registra un forte aumento dell’assenteismo sul 
lavoro, si può verificare il danneggiamento delle produzioni industriali che 
necessitano di assoluta assenza di polvere, si rilevano cali nei viaggi d’affari e in 
quelli turistici. Quindi, questi fenomeni atmosferici non sono solo più una 
semplice seccatura, ma sono oggi ritenuti una minaccia economica.
18
   
Le tempeste di polvere hanno conseguenze ancora più drammatiche per gli 
abitanti delle province orientali della Cina, che ne sono direttamente interessati. 
All’inizio di ogni anno, infatti, gli abitanti delle città dell’est, come Pechino e 
Tianjin, si preparano all’arrivo della quinta stagione: la ridotta visibilità obbliga 
infatti a guidare con i fari accesi anche durante il giorno e gli abitanti girano 
proteggendosi il viso con mascherine chirurgiche, scialli e fazzoletti. La situazione 
è poi particolarmente grave per chi soffre di malattie respiratorie e per i pastori e 
                                                   
16
 BROWN, op. cit., p. 17 
17
 BROWN, op. cit., p. 18 
18
 BROWN, op. cit., p. 17
27
gli agricoltori che vivono nelle zone di formazione delle tempeste. La causa di 
questi fenomeni meteorologici è da ricercarsi nella desertificazione del territorio 
cinese, causata dalle eccessive pressioni a cui gli uomini e gli animali 
sottopongono la terra, in un paese in cui la popolazione è in continua crescita.  
Sotto la spinta di queste dinamiche demografiche, la Cina sta collezionando 
deficit ecologici su diversi fronti: dall’eccessivo sfruttamento dei pascoli a quello 
dei terreni agricoli, dal disboscamento incontrollato allo sfruttamento delle falde 
acquifere. Con la poca vegetazione rimasta nelle zone settentrionali della Cina, i 
forti venti della fine dell’inverno e dell’inizio della primavera possono provocare 
tempeste di polvere in grado di rimuovere ogni giorno milioni di tonnellate di 
particelle di suolo, una quantità che impiegherà secoli per essere ripristinata. Il 
fenomeno della desertificazione interessa di solito le fasce marginali dei deserti 
esistenti, proprio perché si tratta di zone con scarsa vegetazione e bassa piovosità. 
Ma ciò che adesso solleva grandi preoccupazioni è il fatto che i nuovi deserti, in 
cui si formano dune sabbiose vere e proprie, compaiono in numerose località della 
Cina settentrionale e nord occidentale. La formazione di dune di sabbia a soli 80 
km da Pechino non può che allarmare i funzionari governativi.
19
 
Le conseguenze delle tempeste di sabbia sono sia sociali che economiche. 
Milioni di cinesi che abitano nelle campagne potrebbero essere sradicati dalle loro 
terre e costretti a spostarsi a est a causa del fenomeno. I deficit ecologici che 
attanagliano la Cina suggeriscono che questa nazione non solo continuerà a 
perdere terra a causa della desertificazione, ma che queste perdite cresceranno di 
anno in anno. L’espansione dei deserti ha ripercussioni su ogni aspetto della vita 
cinese: dalla produzione alimentare ai trasporti, alla struttura demografica. Inoltre, 
                                                   
19
 BROWN, op. cit., p. 18
28
se i pascoli diventano deserto, cala anche la possibilità di sfamare il bestiame. 
L’economia pastorale della Cina e l’allevamento potrebbero diminuire 
drasticamente nei prossimi anni sull’onda delle politiche per il controllo della 
desertificazione e anche perché i pascoli vengono inghiottiti dal deserto.
20
  
In conclusione, la desertificazione della Cina sta provocando la 
diminuzione della produzione alimentare interna. La conversione e l’abbandono 
sistematico delle aree agricole marginali, unita alla perdita di pascoli e terreni 
produttivi, causata dalla desertificazione, stanno restringendo la superficie 
agricola, con un conseguente calo di 
 
produttività del terreno stesso.
21
 Infatti, a 
causa dell’erosione del suolo e della perdita dell’orizzonte superiore (topsoil), ricco 
di sostanze nutrienti, diminuisce fortemente la capacità dei terreni di 
immagazzinare queste sostanze, nonché l’acqua necessaria a favorire la crescita 
delle piante.
 22
    
Ancora più preoccupante del deficit a carico del suolo è quello idrico, che 
sta crescendo con incredibile rapidità. Legato all’eccessivo sfruttamento delle 
falde acquifere e al loro conseguente abbassamento, il deficit idrico mondiale 
potrebbe rivelarsi il fenomeno più trascurato del pianeta. In 18 nazioni la crescita 
demografica ha ridotto la disponibilità di acqua dolce pro capite a meno di 1.000 
metri cubi l’anno, la quantità minima necessaria a soddisfare bisogni basilari quali 
il bere, l’igiene e la produzione alimentare. Le proiezioni demografiche delle 
Nazioni Unite per il 2050 indicano che 39 paesi, per un totale di 1,7 miliardi di 
persone, si troveranno in questa situazione.
23
 Per quanto riguarda il caso della 
                                                   
20
 BROWN, op. cit., p. 29 
21
 BROWN, op. cit., p. 30 
22
 BROWN, op. cit., p. 35 
23
  Popolazione e disponibilità di acqua da Tom Gardner-Outlaw e Robert Engelman, Sustaining Water, 
Easing Scarcity: A second Update, Washington (DC), Population Action International, 1997,
29
Cina nello specifico, il problema della scarsità idrica è intensificato da quello 
dell’inquinamento, che riduce ulteriormente la quantità d’acqua effettivamente 
utilizzabile. Proprio a causa di questo fattore, il 21% delle acque superficiali 
nazionali non sono utilizzabili neanche per la produzione agricola.
24
 La carenza 
d’acqua porta danni economici a carico del settore agricolo non trascurabili. Infatti, 
poiché la domanda idrica del paese continuerà a salire e la quantità di acqua a 
disposizione dell’agricoltura sarà sempre inferiore,  
 
la Cina si troverà ad affrontare un deficit alimentare del 5-10% - un risultato 
disastroso per un paese si 1 miliardo e 300.000 abitanti - a meno che non vengano 
prese della misure efficaci e tempestive […]
25
 
 
 dice Lin Erda,
26
 uno dei principali esperti cinesi del cambiamento climatico.
27
 Le 
previsioni per il futuro sono ancora meno confortanti, come si evince dal grafico 
sottostante. Infatti, al 2030, si prevede che la domanda idrica raggiungerà 
addirittura gli 818 milioni di m³ (di cui il 50% servirà per la produzione agricola, il 
32% per la produzione industriale tramite energia geotermica, mentre il restante 
sarà destinato ad uso domestico), con un aumento percentuale dell’1,6% rispetto 
                                                                                                                                                         
(segue nota) 
http://www.populationaction.org/Publications/Reports/Sustaining_Water_Easing_Scarcity/http://www.popul
ationaction.org/Publications/Reports/Sustaining_Water_Easing_Scarcity/Sustaining_Water_Easing_Scarcity
_-_Full_Report.pdf, 4 dicembre 2010 
24
 Water supply and demand gap, in “The Asia Water Project: China”, 
http://www.asiawaterproject.org/water-crises/why-water/water-gap/, 30 novembre 2010 
25
 Water supply and demand gap, op. cit., rif nota 24, cap. 1 
26
 Lin Erda è inoltre leader del progetto congiunto tra Cina e Gran Bretagna “Impacts of Climate Change on 
Chinese Agricolture”, www.mtnforum.org/rs/ol/counter_docdown.cfm?fID=1868.pdf  
27
 LIN Shujuan,  Shuiziyuan quefa jiang weixie zhongguo de liangshe anquan 水 资 源 缺 乏 将 威 胁 中 国 的 粮
食 安 全, in “Science and Development Network”, 23 febbraio 2009, http://www.scidev.net/zh/news/zh-
133699.html, 30 novembre 2010
30
al 2005 e, conseguentemente, si amplierà sempre più il gap tra domanda e offerta 
idrica.
28
   
 
 
 
 
 
 
Figura 1. Gap tra domanda e offerta idrica in Cina
29
 
                                                   
28
 Water supply and demand gap, op. cit., rif. nota 24, cap. 1 
29
 “Charting Our Common Future”, 2030 Water Resources Group, dicembre 2009, 
http://www.mckinsey.com/App_Media/Reports/Water/Charting_Our_Water_Future_Full_Report_001.pdf, 
17 gennaio 2011, p. 57