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INDICE 
 
I. IL CONTESTO   
1.1 L’allestimento della Città morta: D’Annunzio precursore 
      della regia teatrale moderna in Italia 
 
1.2 La genesi della tragedia e le circostanze della composizione  
1.3 L’edizione del testo  
II. IL TESTO   
2.1 Le fonti della Città morta
2.2 Il contenuto dell’opera  
2.3 L’analisi tematica della tragedia  
2.4 Il sistema dei personaggi  
2.5 La dimensione spazio-temporale  
2.6 Le voci, i suoni e i rumori nella Città morta
2.7 La struttura del testo  
2.8 La rilevanza delle didascalie  
2.9 L’azione scenica dei personaggi  
III. LO SPETTACOLO E LA FORTUNA SCENICA  
3.1 Il debutto francese della Ville Morte
3.2 La prima messinscena della Città morta in Italia  
BIBLIOGRAFIA
  
APPENDICE ICONOGRAFICA  
 
NOTA REDAZIONALE 
La presente tesi si compone di 70 pagine 
 
 
 
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I. IL CONTESTO 
 
1.1 L’allestimento della Città morta: D’Annunzio precursore della regia 
teatrale moderna in Italia 
 
La Città morta è un’opera che segna una svolta nel panorama teatrale italiano, 
non tanto per l’aspetto drammaturgico, quanto per quello concernente la sua 
messa in scena: da questo momento in poi, infatti, Gabriele D’Annunzio inizia a 
concepire i propri testi in vista di una modalità di allestimento contraddistinta da 
“uno scrupolo professionale e un impegno creativo”
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 non ancora noti sulle 
nostre scene. 
Il teatro di prosa italiano, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del 
Novecento, registra un forte ritardo rispetto al coevo teatro europeo: manca, ad 
esempio, l’esistenza di strutture stabili sovvenzionate dallo Stato – all’estero già 
presenti, persino da secoli se si pensa alla Comédie Française; lo spettacolo è 
incentrato perlopiù sul “Grande Attore”, che nella maggior parte dei casi è 
“figlio d’arte”, quindi ha acquisito il mestiere vivendo a stretto contatto con le 
compagnie girovaghe ma, non avendo mai studiato per esercitare questa 
professione, è privo di una vera cultura teatrale; spesso – ma non 
necessariamente – egli assume altresì la funzione del capocomico, occupandosi 
dunque anche delle problematiche amministrative della compagnia, come la 
sottoscrizione dei contratti con gli attori e i teatri o l’incasso del botteghino; pure 
il direttore, che gestisce l’operatività della compagnia, generalmente coincide 
con un membro della stessa; non esiste una distribuzione delle parti come 
attualmente concepita, è la compagnia che si adatta allo spettacolo di turno; le 
prove sono scarsissime, di solito eseguite in qualche sala d’albergo, snobbate dal 
Grande Attore – a cui è lasciato sul palco un certo margine d’improvvisazione, 
con il rischio di creare difficoltà agli altri attori – e mai prive del suggeritore; la 
                                                 
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 PAOLO BOSISIO, Gabriele D’Annunzio e la nascita della regia teatrale in Italia, in 
“Otto/Novecento”, XII, pp. 57-96. 
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scenografia è costituita da scene di repertorio recuperate nei magazzini dei teatri, 
risolta in tre o quattro modelli adattati allo spettacolo; i costumi fanno parte del 
corredo personale dell’attore – caratterizzato dal gusto e soprattutto dalle 
disponibilità economiche individuali, tanto è vero che i protagonisti entrano in 
scena con abiti ben più sontuosi rispetto agli interpreti secondari; l’arredo 
scenico e gli oggetti di scena fanno parte di un repertorio stantio oppure, non di 
rado, sono racimolati all’ultimo momento dal trovarobe; i testi drammatici sono 
oggetto di rielaborazioni, modifiche e tagli spregiudicati da parte dei mattatori, 
esclusivamente allo scopo di porre in risalto il talento personale. 
Questa è, sommariamente, la situazione del teatro italiano all’epoca di 
D’Annunzio e non deve sorprendere che il raffinato poeta risulti poco propenso 
nel volgersi all’allestimento dei suoi primi drammi – quelli composti tra il 1896 
e il 1899, a cui si può ascrivere la stessa versione francese della Città morta, La 
Ville morte, la cui mise en scène fu di fatto delegata a Sarah Bernhardt
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. In 
questa fase iniziale, egli ritiene che la trasposizione scenica dei suoi drammi sia 
destinata, inevitabilmente, a smorzarne l’intenzione originale, a travisarne i 
contenuti. D’altronde, un simile atteggiamento di sfiducia e rifiuto è piuttosto 
diffuso fra gli intellettuali italiani di fine Ottocento, molti dei quali considerano 
il teatro come una forma d’arte inferiore. 
In realtà, ciò che manca alle scene del nostro Paese, è l’affermarsi di una figura 
che elevi il teatro a un prodotto d’arte autonomo; ma mentre, al concludersi 
dell’Ottocento, nel resto dell’Europa si comincia seriamente ad attribuire valore, 
nello spettacolo teatrale, alla figura del regista, coordinatore dei diversi codici 
                                                 
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 Sarah Bernhardt (Parigi 1844 – 1923), nome d’arte di Henriette Rosine Bernard, è la più 
grande attrice di teatro francese dell’Ottocento. Si diploma al conservatorio di Parigi e debutta 
nel 1862 alla Comédie-Française come Ifigenia nell’omonima tragedia di Racine (La Ferté-
Milon 1639 – Parigi 1699). Dal 1869 recita al Théatre de l’Odéon, ma dal 1872 è richiamata 
alla Comédie-Française dove rimane fino al 1880, anno in cui forma una propria compagnia 
con la quale calca le scene dei maggiori teatri europei e newyorkesi. Ristabilitasi in Francia, 
affianca all’attività di attrice anche quella di impresaria e direttrice di teatri. Continua a 
recitare fino alla morte, sebbene all’età di settant’anni le venga amputata una gamba. È 
ricordata soprattutto per la sua eccezionale tecnica vocale, oltre che per il suo talento di 
interprete. 
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come la scenografia, la musica, i costumi, la coreografia, l’illuminotecnica, in 
Italia bisogna attendere il 1932 perché un neologismo stabilisca finalmente 
l’integrazione della regia fra i mestieri dello spettacolo. 
In sostanza, agli albori del Ventesimo secolo, le nostre scene esigono uno 
svecchiamento, necessitano di una figura che concepisca lo spettacolo in quanto 
arte e che sia in grado di guidare e correggere gli attori, di ideare e coordinare 
l’allestimento, di valutare e anelare la qualità globale del risultato. 
È proprio D’Annunzio ad inaugurare questa tendenza e la messa in scena della 
Città morta – nell’edizione originale in lingua italiana, con la compagnia Duse-
Zacconi – coincide con un momento cruciale: segna la assunzione di 
responsabilità da parte dell’autore nella direzione dell’allestimento che, pur nella 
incoerenza tipica dell’innovazione, si manifesta di volta in volta crescente e 
autorizza a proclamare D’Annunzio precursore della regia teatrale moderna in 
Italia. 
Egli è al corrente delle novità che elettrizzano il clima teatrale internazionale e si 
rende conto che per porre l’Italia nelle condizioni di avanzare verso la 
modernità, non basta migliorare la situazione: è d’obbligo soppiantarla, dando 
vita ad un radicale modo di fare teatro e generando un pubblico capace di fruire 
in maniera nuova lo spettacolo. 
Da questo momento in poi, D’Annunzio comincia a mostrarsi sempre più attento 
– nonché appassionato – nella realizzazione delle scenografie dei suoi drammi: 
concepisce il progetto scenografico, dopo essersi documentato storicamente 
riguardo all’ambientazione, e sceglie abili tecnici ed artisti rinomati per 
l’esecuzione degli impianti, talora collaborandovi di persona. Meticolosissimo, 
talvolta fino all’eccesso, diviene il suo interesse nei confronti dell’arredo 
scenico: egli, infatti, crede fermamente nel potere evocativo e propiziatorio degli 
oggetti, essenziali per immergere gli attori nel clima celebrativo del rito 
drammatico. Parimenti, per i costumi e gli accessori d’abbigliamento l’autore 
dedica il proprio impegno, non solo adattandoli filologicamente alla realtà 
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storica in cui è ambientato il dramma, ma anche intonandone nuances e fattezze 
al quadro scenografico e all’arredamento. Un altro elemento ritenuto 
fondamentale è la musica, indispensabile nell’evocare il clima drammatico o 
diversamente utilizzata come mezzo di contrasto, per enfatizzare il silenzio. 
Inoltre – ma non da ultimo – D’Annunzio coglie l’incisività dell’illuminazione 
della scena ed intuisce la molteplicità di effetti derivabili da un uso non banale 
dei riflettori. 
Per quanto riguarda il suo rapporto con gli attori, bisogna sottolineare che 
D’Annunzio si trova di fronte ad un ostacolo non aggirabile, considerando le 
abitudini degli interpreti italiani e la modesta qualità delle seconde parti, rispetto 
alle intenzioni drammaturgiche e sceniche dell’autore. Utopisticamente, egli 
aspira alla possibilità di istruire ad hoc nuovi, giovani attori che nulla abbiano 
ereditato fra le carenze teatrali e culturali dei loro predecessori. Nella scelta dei 
protagonisti, egli valuta di volta in volta le attitudini e le potenzialità degli 
artisti, esaminandone specialmente il talento e il grado di affinità con il testo e il 
personaggio da interpretare. Spesso, come nel caso della Città morta, egli 
ipotizza già in fase di elaborazione l’attore o l’attrice a cui assegnare la parte di 
un determinato personaggio, immaginandone la gestualità, il timbro di voce, e 
arrivando a trarne ispirazione, ad esempio, per imprimere la giusta musicalità al 
verso. 
Da evidenziare è, infine, il prolungamento considerevole del periodo delle 
prove, alle quali è auspicata la partecipazione di tutta la compagnia, compreso il 
Grande Attore.