5
Sarà la pratica sociale del dire la verità il centro delle nostre 
indagini. Sarà Michel Foucault
1
 ad aiutarci, in questo cammino. Le 
sue opere degli anni Ottanta hanno decretato la fine di un modo di 
pensare il soggetto, la verità e la loro relazione. A Foucault è stato 
concesso uno strano destino: complessivamente, i suoi ultimi lavori 
possono costituire una delle critiche più spietate di certe sue opere 
precedenti.  
È stato il più grande nemico di se stesso, probabilmente.  Ciò non 
stupirebbe, considerate le numerose volte in cui è ritornato sul senso 
dello scrivere, del lavoro intellettuale: diventare altro da ciò che si è. 
Intervistato da Rux Martin, chiarì il senso della sua avventura 
intellettuale: 
 
Non mi pare davvero necessario sapere esattamente che 
cosa sono. La cosa più importante nella vita e nel lavoro è 
diventare qualcosa di diverso da quello che si era all’inizio. 
Se, cominciando un libro, si sapesse fin dall’inizio che cosa 
si arriverà a dire alla fine, chi troverebbe il coraggio di 
scriverlo? E ciò che vale per la scrittura e per i rapporti 
amorosi vale anche per la vita. Vale la pena di giocare nella 
misura in cui non sappiamo che cosa succederà alla fine. 
(Martin [1988] 1992: 3-4) 
 
Sarà egli stesso, infine, a disperdere il vasto favore e l’entusiasmo 
creatisi attorno alla propria opera, a rifiutare la vicinanza dei vari 
“movimenti di liberazione” che avevano proceduto di pari passo 
all’elaborazione del suo pensiero, nei decenni precedenti. 
Il nome di Foucault viene spesso recitato, a mo’ di cantilena, 
assieme a quello di almeno altri due filosofi francesi, attivi negli stessi 
anni: Jacques Derrida e Gilles Deleuze.  
                                                 
1
 Sulla sua importanza per l’indagine sociologica, si veda Szakolczai (1998b). 
  6
Con il primo, i punti di contatto sono pressoché inesistenti (in attesa 
di riconsiderare il reale valore della sua opera): del secondo è stato 
amico
2
.  
Tutti e tre, comunque, sono associati al “postmoderno”: niente di 
più sbagliato, nel caso di Foucault
3
.  
Se è mai esistito, il postmoderno, come tendenza e come categoria, 
non è certamente applicabile al lavoro che il filosofo
4
 francese ha 
compiuto dal finire degli anni Settanta alla sua morte, nel 1984.  
Se si va a studiare ciò che rimane largamente inedito, cioè gli ultimi 
cicli di lezioni che Foucault ha tenuto al Collège de France, vi si trova 
una preoccupazione quasi antimoderna, quella della verità e della 
soggettivazione della stessa, del suo farsi attraverso i soggetti e dei 
modi in cui essi entrano in relazione con gli altri e con se stessi, 
avendola come strumento di conoscenza e di riconoscimento. 
Ragionare sulla verità come atto comunicativo porta a vedere le 
cosiddette “scienze della comunicazione” da un punto di vista un po’ 
diverso, rispetto a quello iniziale e consueto. Da buoni foucaultiani, ci 
chiediamo quale sarebbe, in assenza di tali modificazioni, il senso di 
un percorso intellettuale, di una curiosità. 
Il pensare altrimenti alcuni elementi della realtà che non erano stati 
sfiorati da operazioni di problematizzazione è seguito allo studio della 
questione: che cosa significa comunicare la verità? Quali sono gli stili 
di codesto particolare (e superiore, forse) modo della comunicazione? 
Quali conseguenze sociali ha il dire la verità? 
                                                 
2
 Fornari (2006a: 28) racconta della rottura personale avvenuta tra Foucault e René Girard, 
pensatore che affronteremo nel corso del nostro lavoro: il primo reagì duramente alla 
“stroncatura”, compiuta da Girard, di un’opera dell’amico Deleuze. 
3
 Anche per quanto riguarda Deleuze, in realtà, non è così corretto parlarne. Per Derrida, 
invece, l’etichetta può essere appropriata. Oggi, tuttavia, nessuno sembra più accettarla, 
soprattutto nei propri confronti, dopo un periodo in cui, al contrario, è stata di moda. 
4
 Foucault non si riteneva un filosofo, come risulta da più interviste: si veda, per esempio, 
Foucault ([1980] 2001: 861). Tuttavia, per semplicità, non ci tratterremo dall’impiegare il 
termine. 
  7
Il concetto che fa da chiave di volta dell’intero nostro ragionare è 
quello di parresia
5
 (παρρησία). Ma non è un concetto: è una pratica. 
E quella “qualità morale che è richiesta, in fondo, a ogni soggetto che 
parla” (Foucault [2001] 2003: 327). Riscoperta dall’ultimo Foucault, 
la parresia è stata praticata da molti pensatori, in varie epoche 
storiche, anche nell’inconsapevolezza dell’esistenza e dell’origine di 
questa forma di comunicazione. Ma il pubblico, la comunità che lo 
circondava sentiva che quel parresiastes (παρρησιαστής), colui che 
realizza la parresia, che la pratica, era diverso, che metteva in gioco 
qualcosa in più degli altri: se stesso.  
L’altro strumento che ci permetterà di creare una cornice 
interpretativa adeguata ai nostri scopi è quello, tratto dagli studi del 
pensatore René Girard, di capro espiatorio: costituirà il centro del 
nostro secondo capitolo e ci porterà a delineare ciò che ci serve, l’idea 
del “parresiastes espiatorio”.  
Sarà più facile, quindi, capire alcuni fenomeni storici, come quello 
della dissidenza contro il totalitarismo, il maggiore problema politico 
del secolo scorso, fino al grande sogno totalitario della scomparsa 
della realtà, della confusione relativistica in cui tutto è vero e tutto è 
falso, al contempo.  
La figura di Pasolini occuperà l’ultima parte della nostra ricerca, 
che arriverà a sfiorare l’attualità, nell’analisi di una delle tendenza più 
evidenti dei nostri tempi, l’accentuarsi della distanza ironica del 
soggetto dal mondo. 
  Nella comunicazione parresiastica abbiamo rinvenuto il ponte che 
possa collegare lo studio della comunicazione umana a quello della 
società e una grande possibilità etica: in ciò, un coronamento 
                                                 
5
 Abbiamo optato per la traslitterazione italiana più comunemente accettata. Quella 
anglosassone, adottata anche dall’italiano Scarpat (2001), prevede la presenza della lettera 
“h”: “parrhesia”. Inoltre, per facilitare la lettura anche da parte di chi non abbia conoscenze 
di lingua greca, abbiamo deciso di eliminare, lungo tutto il corso della nostra trattazione, gli 
accenti e i segni di durata dalle vocali. In questo, seguiamo la scelta dell’editore Donzelli, 
che ha curato la pubblicazione di una serie di seminari californiani di Foucault ([1985] 
1996). Feltrinelli, invece, che ha l’esclusiva per i corsi del Collège de France, non esclude 
l’indicazione della durata, riportando “parrēsia” (Foucault [2001] 2003). 
  8
dell’intero percorso che i nostri studi hanno compiuto. Una possibilità 
etica non è un obbligo e non è una necessità: è un tentativo di libertà.  
 
La verità può essere taciuta, oltraggiata, derisa: sempre, però, 
rimarrà la coscienza di qualcosa di vero che è andato perduto, che non 
è stato accettato, che è stato condannato. Inizieremo dalle parole di 
Foucault, dalla sua amata antichità e finiremo con le lotte discorsive 
della nostra contemporaneità, alla ricerca delle verità quotidiane: 
ciascuna, a suo modo e prima o poi, trova una via per venire alla luce, 
ai nostri tempi, ancora. 
  9
1. LA VERITÀ CHE CREA LA VITTIMA 
 
Michel Foucault subì un periodo di crisi: era il 1980. Aveva già da 
tempo iniziato a riflettere sulla propria opera, che era anche un’oper-
azione, su ciò che aveva contribuito a farlo essere un “personaggio” in 
tutto il mondo, a rendere ascoltati i suoi interventi, note le sue prese di 
posizione. Il suo interesse per la rivoluzione teocratica dell’Iran di 
Khomeini era durato per pochi mesi
6
. Da anni, aveva promesso la 
pubblicazione del secondo e del terzo volume della sua Storia della 
sessualità: il primo volume risaliva al 1976
7
. Però, il filosofo sentiva 
che qualcosa era cambiato: in lui, in primis. Vedeva i problemi da 
punti di vista radicalmente diversi, rispetto a quelli tradizionali: cioè, 
ai suoi punti di vista tradizionali. 
Forse, si stava rendendo conto che aveva permesso che si creasse 
quasi un mito della sua figura: il Foucault politicizzato, quasi 
“rivoluzionario di professione”
8
, dei tanti gruppetti che riducevano le 
sue opere a vademecum delle ribellioni promesse e promosse: da 
quella del movimento omosessuale e femminista all’altra riguardante i 
carcerati, fino alla mobilitazione a favore degli internati nelle strutture 
psichiatriche. “Forse stanco della traduzione del suo pensiero in 
termini troppo ideologizzati” (Bodei 1996: xiii), si guardò indietro e 
capì che sarebbe cambiato tutto: la sua scrittura, il centro delle sue 
ricerche, il suo modo di rapportarsi con il presente, il suo impegno 
politico, che, peraltro, nella sua forma più diretta, era stato 
abbandonato da Foucault ben presto, 
 
                                                 
6
 Non è da escludere un ruolo del khomeinismo (quale epifania del rischio totalitario) nella 
revisione del pensiero dell’autore in senso etico e critico nei confronti di qualsivoglia 
ideologia. Sulla rivoluzione iraniana e i riflessi religiosi del pensiero di Foucault, si veda 
McCall (2004). 
7
 Sulla difficoltà di licenziare gli altri capitoli di quel progetto, ci sembra significativa 
questa sua annotazione: “Per alcuni, scrivere un libro significa sempre rischiare qualcosa. 
Per esempio, di non riuscire a scriverli. Quando si sa prima dove si vuole arrivare, viene a 
mancare una dimensione dell’esperienza, che consiste esattamente nello scrivere un libro 
rischiando di non venirne a capo” (Foucault [1994] 2001b: 207). 
8
 Plamper (2002) racconta del Foucault che scopre il Gulag e descrive il suo travaglio 
interiore degli anni Settanta, il passaggio dal suo marxismo, per quanto eretico, 
all’antimarxismo. 
  10
nel periodo in cui – ancora molto giovane – militava nel 
Partito comunista francese […]. Quando nella cellula 
universitaria gli si volle far seriamente credere alla favola 
che sarebbe esistito un complotto dei medici ebrei per 
uccidere Stalin, Foucault – avendo percepito tutta la 
potenza repulsiva della non verità – uscì dal partito. 
(Ivi: xii)
9
 
 
 Si mise, dunque, a studiare l’antichità, la filosofia classica, i Greci. 
Molto è stato scritto sul cambio radicale di prospettiva che Foucault 
assume, a partire da quell’anno fondamentale per la sua vita, il 1980. 
Una ricostruzione estremamente dettagliata e lucida è quella di 
Szakolczai (1998a), che accosta l’opera del filosofo francese a quella 
di Max Weber
10
, autore a prima vista a lui lontano, in realtà 
vicinissimo, seguendo la comune fascinazione per Friedrich 
Nietzsche, che fa di entrambi dei genealogisti, almeno a partire da una 
certa fase della loro opera, cioè della loro vita
11
.  
Tutto cambiò, nell’opera foucaultiana, nel corso della lavorazione 
de L’uso dei piaceri e de La cura di sé, negli otto anni che separano 
l’uscita del primo volume della Storia della sessualità dalla 
pubblicazione dei suddetti due libri, prosecuzione di quell’indagine, 
ma in forma assolutamente nuova, ormai: escono nel 1984, nell’anno 
della sua morte
12
. Della ricerca, del lavoro, il filosofo pensava che, se 
“non è anche, al contempo, un tentativo di modificare quel che si 
pensa, e persino quel che si è, non risulta molto divertente” (Foucault 
[1994] 2001a: 333). Foucault non smetterà di avere l’esperienza come 
nozione fondamentale e modalità di relazione che il soggetto instaura 
con il mondo, con gli eventi:  
                                                 
9
 L’episodio viene raccontato dallo stesso Foucault ([1980] 2001: 869-70). 
10
 Per Szakolczai, come “sociologi storici riflessivi”, entrambi hanno praticato la parresia 
(Szakolczai 2000: 97). 
11
 Un altro tentativo di avvicinare le due esperienze intellettuali è di Goldman (2000). 
12
 Foucault muore il 25 giugno del 1984, dopo una lunga malattia, avendo tenuto fino 
all’ultimo il tradizionale, annuale corso al Collège de France, incarico che aveva assunto fin 
dal 1970. 
  11
 
Mes livres sont pour moi des expériences, dans un sens que 
je voudrais le plus plein possible. Une expérience est 
quelque chose dont on sort soi-même transformé. Si je 
devais écrire un livre pour communiquer ce que je pense 
déjà, avant d’avoir commencé à écrire, je n’aurais jamais le 
courage de l’entreprendre. Je ne l’écris que parce que je ne 
sais pas ancore exactement quoi penser de cette chose que 
je voudrais tant penser. De sorte que le livre me transforme 
et transforme ce que je pense. Chaque livre transforme ce 
que je pensais quand je terminais le livre précédent.  
(Foucault [1980] 2001: 860-1) 
 
E, ancora: “je suis un expérimentateur en ce sens que j’écris pour me 
changer moi-même et ne plus penser la même chose qu’auparavant” 
(Foucault [1980] 2001: 861). Ciò che aveva sempre caratterizzato il 
procedere di Foucault, d’altronde, era stato il “cercare di pensare 
diversamente rispetto a come si pensava in precedenza” (Foucault 
[1994] 2001a: 333). L’autore, negli anni che intercorsero tra l’inizio di 
quella ricerca e la pubblicazione del secondo e del terzo volume, ai 
quali sarebbe dovuto seguire almeno un altro libro
13
, aveva subìto una 
radicale trasformazione del proprio modo di pensare: non erano più le 
costrizioni che il soggetto moderno si trovava ad affrontare il punto 
centrale del progetto foucaultiano. Aveva acquisito sempre più 
importanza, man mano che la sua ricerca andava avanti (meglio: giù, 
in profondità), la storia dei modi in cui il soggetto occidentale si era 
posto nei confronti della verità, la genealogia di quei rapporti, in 
Occidente. A chi, all’epoca, era solito accomunarlo alle varie tendenze 
del decostruzionismo e del relativismo postmoderno, riservò queste 
parole:  
 
                                                 
13
 Si tratta di Les Aveux de la Chair: il titolo era già stato stabilito dall’autore. 
  12
Io cerco di fare la storia dei rapporti che il pensiero 
intrattiene con la verità; la storia del pensiero proprio in 
quanto è pensiero della verità. Pertanto, tutti quelli che 
affermano che per me la verità non esiste, sono degli spiriti 
che semplificano decisamente troppo.  
(Ivi: 335) 
 
Certo, la considerava “strumento di autotrasformazione, risposta a 
sfide lanciate da situazioni concrete, gesto creativo di rottura rispetto 
alle condizioni di partenza, lavorìo che il pensiero esercita 
costantemente su se stesso” (Bodei: viii). Ma coloro che 
“semplificavano” non potevano che mostrare la propria interdizione, 
allora, quando assistettero al suo cosiddetto “ritorno ai Greci”. 
 
1.1 Ritorno alla verità: la parresia foucaultiana 
 
Non che il distacco fosse così sconvolgente da far pensare a un 
completo ripudio, da parte di Foucault, delle tesi già sostenute. Ma 
furono i suoi stessi allievi, esegeti, anche “adoratori”, ad accorgersi 
della modificazione profonda che aveva riguardato il procedere 
dell’autore. Alcuni di loro, dunque, si rifiuteranno di seguire i suoi 
ultimi corsi al Collège de France, trovandoli inutili, persino dannosi, 
nel loro apparente disinteresse per l’attualità politica
14
 e la discussione 
pubblica francese. Avevano amato il Foucault che da altri era stato 
giudicato “estremista”
15
: quello del decennio precedente. 
In realtà, è dimostrabile che l’ultimo Foucault, quello che si dedica 
ai temi dell’etica, se non estremista, è fuor di dubbio “estremo” (e, 
dicendo ciò, ci sentiamo fedeli al suo coevo rifiuto delle ideologie e 
degli “ismi”), si pone al di fuori delle mode intellettuali del momento, 
ai margini delle discussioni accademiche più in voga, a quel tempo. Il 
                                                 
14
 Sulla “politicità” dell’ultimo Foucault, si veda Bevir (1999). 
15
 Walzer accusa Foucault di “estremismo infantile”. E di non saper riconoscere le vittime. 
Per il filosofo francese, secondo Walzer, “obviously, the prisoner cannot be an innocent 
victim, for he has denied the distinction between guilt and innocence” (Walzer 1986: 62). 
Ci sembra un’accusa particolarmente errata. 
  13
percorso intellettuale del filosofo si snoda lungo una serie di 
opposizioni: dalla politica all’etica, dal potere alla verità, dalla 
liberazione alla libertà. Nel primo polo delle coppie oppositive, c’è il 
Foucault precedente alla svolta del 1980; nel secondo, troviamo i temi 
affrontati negli ultimi, intensissimi anni della sua vita. Nel mezzo, era 
esploso il postmoderno. Che cos’era? In generale, un movimento di 
pensiero senza un centro propulsore, ma diffusosi rapidamente negli 
Stati Uniti e nei paesi europei, in particolare nella Francia degli anni 
Settanta. A partire da una parziale e ingenua interpretazione del 
pensiero di Nietzsche
16
, i profeti del verbo della postmodernità hanno 
provato a demolire il concetto di natura e quello di verità, insieme ad 
altri, inutili, residui del sapere occidentale (questo, almeno, il loro 
giudizio). Finite le “grandi narrazioni”, a parere di Lyotard e di Rorty, 
non ci sarebbe rimasta che la creazione di “discorsi” più o meno 
interessanti ed esteticamente godibili, interpretabili a proprio 
piacimento, nel quadro della “melassa” contemporanea in cui ogni 
distinzione e giudizio porta con sé qualcosa di violento e 
discriminatorio, non al passo con i tempi. Che cosa c’entra Foucault? 
Da molti, ingiustamente, è stato considerato pienamente ascrivibile 
a quella genìa. Anzi, a quella generazione. Ma sappiamo che, rispetto 
a filosofi come Derrida e Rorty, ad esempio, l’avere qualche anno in 
più è stata una differenza qualitativa, rispetto alle esperienze compiute 
negli anni “liminali”
17
, di passaggio alla vita adulta. In che misura è 
possibile considerare Foucault un pensatore postmoderno? Forse, 
unicamente per quanto riguarda alcune opere precedenti al 1980. Ma 
non sarà più corretto considerare la sua traiettoria nella totalità, 
interpretando il suo pensiero nel suo farsi, nel suo divenire? 
                                                 
16
 È la tesi di Williams ([2002] 2005), che ci sembra corretta e capace di restituire al 
filosofo tedesco ciò che gli è stato tolto. 
17
 Sul concetto di liminalità e sulle modalità interpretative che ne fanno uso, si vedano i 
lavori di Szakolczai (in particolare, 1998: cap. 2), che adotta l’impostazione di Victor 
Turner. Foucault nacque nel 1926, Derrida e Rorty rispettivamente nel 1930 e nel 1931. Il 
primo ebbe come “rito di passaggio” all’età adulta la fine del secondo conflitto mondiale, 
che gli altri videro ancora adolescenti. 
  14
Giudicare, infine, la sua ricerca come una globale problematizzazione 
della modernità? 
 
1.1.1 Critica di se stessi 
Intendendo il moderno come una sofferta riflessione sul problema 
dell’Illuminismo, sulla natura del presente, Finkielkraut ne compone 
una brillante genealogia, che esordisce con il racconto dell’attimo in 
cui un noto semiologo si rese conto di qualcosa di molto strano: “Il 13 
agosto 1977, Roland Barthes annota nel suo diario: ‘D’improvviso, il 
fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente’” (Finkielkraut 
[2005] 2006: 11). Era come la fine di un ricatto: perché “essere 
moderni era fortemente raccomandato, se non addirittura vitale, e nel 
campo estetico era lo stesso Barthes a distribuire la preziosa etichetta” 
(Ibidem). L’inconsapevole ricattatore scopre il ricatto che egli stesso 
aveva posto in essere, reagisce, si sottrae, scappa. 
 
Ed ecco che all’improvviso, solo con se stesso, riconosceva 
che la linea di divisione passava attraverso il proprio cuore. 
Era il giudice e al tempo stesso l’imputato. Esercitava a 
proprie spese un diritto di vita e di morte sulle cose dello 
spirito. Escludeva ciò che egli stesso amava; i suoi valori 
proclamati condannavano alcune delle sue inclinazioni 
profonde. Il suo gusto soffriva per i suoi verdetti, ma lui 
non osava confessarlo per paura di non essere moderno. 
Uno strano, tenace timore lo trasformava nel dissidente 
clandestino della sua stessa dottrina. D’un tratto, 
l’intimidazione cade. Barthes smette di avere paura.  
(Ibidem) 
 
Il Barthes che si ribella a se stesso, a ciò che altri avevano continuato 
e realizzato grazie alle sue intuizioni, fa esperienza della libertà, 
ritrova il gusto dell’andare contro il pensiero dominante, si fa beffe di 
  15
ciò che era nato anch’esso come istanza di liberazione da arcaiche 
chiusure dogmatiche. “Eppure, un giorno gli è risultato indifferente 
non essere moderno. Il terrore si è dissipato. L’ingiunzione ha perso 
potere. Il Barthes ufficioso ha smesso di genuflettersi di fronte al 
Barthes ufficiale” (Ivi: 24). In Foucault, il movimento che si nota, la 
presa di distanza da se stesso (la déprise de soi), la liberazione da 
qualcosa che sente come imposto o, meglio, auto-imposto, a partire 
dalla seconda metà degli anni Settanta, è qualcosa di molto simile. 
Nell’opera che meglio ha chiarito i termini dell’attuale questione 
postmoderna, Williams ([2005] 2006), purtroppo, dà mostra di non 
conoscere l’ultimo sviluppo del pensiero foucaultiano: non si rende 
conto che è stato proprio Foucault a riscoprire quel modo di procedere 
genealogico che lo stesso autore adotta e a permettere un’inversione di 
marcia nella discussione attorno alla verità. Il filosofo francese, a 
torto, viene inserito tra i “nemici”, i postmodernisti che hanno 
distrutto qualsiasi riferimento all’idea di verità, quelli che Williams 
definisce “i negatori”: Foucault, quindi, si ritrova accanto ai soliti 
Derrida e Rorty, pensatori a lui incomparabili perché 
drammaticamente pacificati, adagiati sul mondo. 
“Se si perde il senso del valore della verità, di certo si perde 
qualcosa ed è possibile che si perda tutto” (Ivi: 12): già fatto, verrebbe 
da dire. La preoccupazione di Williams è relativa al valore sociale 
positivo che rivestono la discussione attorno all’esistenza della verità 
e la ricerca della stessa. “Nessuna società può sussistere […] con una 
concezione puramente strumentale dei valori della verità” (Ivi: 59), 
mentre il ragionamento contemporaneo su questo tema, qualora si 
trovi ad affrontarlo, si limita a ciò che, a prima vista, sembrerebbe 
paradossale (e nichilistico): alla domanda sull’utilità della verità 
stessa, come in queste parole del filosofo Gianni Vattimo: “A me della 
verità non importa nulla se non in vista di qualche scopo” (Girard e 
Vattimo 2006: 19). In seguito al lavoro di Williams, che rappresenta la 
più brillante e potente confutazione dell’idea relativistica che ha 
  16
dominato gli ultimi decenni delle scienze umane e che possiamo 
considerare il testamento intellettuale del filosofo, dato alle stampe 
pochi mesi prima della sua morte, il dibattito si è acceso e altri lavori 
degni di nota sono stati pubblicati
18
. 
 Williams, che sente a sé vicino Nietzsche, ha successo nel 
mostrare del filosofo tedesco la vera, sincera preoccupazione per la 
verità, a dispetto di passi dell’opera in cui, contraddittoriamente e 
provocatoriamente (nel suo più puro stile), egli stesso sembra farsene 
beffe: “La verità! Follia esaltata di un dio! Che importa agli uomini 
della verità?” (Nietzsche [1873] 1998: 73). L’ascendenza nietzschiana 
di Foucault è sempre stata manifesta: e, se la passione per la verità
19
 
del filosofo tedesco è stata oscillante e combattuta, in Foucault, 
invece, essa sembra rappresentare il compimento del suo intero 
percorso. Le critiche all’ultimo Foucault, tuttavia, non sono mancate. 
Assieme a quelle più argomentate e circostanziate di alcuni autori
20
, si 
sono fatte numerose le critiche di coloro che sembrano esprimere un 
astio tipico di chi potrebbe essersi sentito tradito dalla “conversione” 
del filosofo: quelle di Butler ([2005] 2006: 149-80) sono significative 
perché rabbiose e non facilmente comprensibili. Secondo lei, “quando 
Foucault inizia a rilasciare dichiarazioni circostanziate e determinate 
su di sé, su ciò che ha sempre pensato e su ciò che in fondo è, 
abbiamo tutte le ragioni per diffidare” (Ivi: 161). Perché? Non risulta 
chiaro. Forse, secondo l’autrice, proprio per la manifesta distanza 
della sua ultima riflessione da ciò che la aveva preceduta, perché 
“nonostante e contro tutto ciò che abbiamo potuto leggere nei suoi 
                                                 
18
 Ad esempio, la “difesa” della verità di Lynch ([2004] 2007). 
19
 “La filosofia di Nietzsche, amava ripetere Foucault, si presenta come una filosofia non 
della verità ma del dire il vero (dire-vrai)” (Veyne [1986] 1998: 70): lo stesso, 
conseguentemente, si può dire dell’ultimo Foucault. 
20
 Si veda, ad esempio, Stroumsa, secondo il quale Foucault “considerava il passaggio dal 
pensiero antico a quello cristiano dimenticando, o mettendo in sordina, la natura ebraica dei 
grandi concetti cristiani. Senza questa dimensione ebraica, è impossibile spiegare la grande 
mutazione dei concetti antropologici della tarda antichità” (Stroumsa [2005] 2006: 17): 
questo rilievo ci sembra particolarmente condivisibile. Il filosofo francese, nelle parole di 
Stroumsa, aveva operato le proprie riflessioni “basando le sue analisi su un insieme di testi 
troppo limitato. Aveva scoperto, con un fiuto notevole, alcune delle differenze profonde tra 
i due fenomeni, ma non ha avuto il tempo di analizzarle” (Ibidem). Critico è anche Poster 
(1986). E non manca chi parla di  possibili “fraintendimenti nell’interpretazione delle fonti” 
(Bodei 1996: x). 
  17
libri o ascoltare direttamente da lui […], adesso, in un momento di 
auto-revisionismo che coinvolge retroattivamente il suo intero lavoro” 
(Ibidem), Foucault rivede e rimette in discussione tutto, cioè se stesso. 
La conclusione della Butler appare paradossale: 
 
Quando Foucault ci dice la verità su di sé – e cioè che “dire 
il vero” è sempre stata la sua preoccupazione, il suo vero 
“problema”, e che si è sempre posto in primo luogo il 
problema della riflessività del sé – dobbiamo chiederci se 
non abbia, per un momento, sospeso la propria capacità 
critica, per potersi conformare all’esigenza di dire-vrai, ai 
requisiti in base ai quali un soggetto può e deve dire la 
verità. 
(Ivi: 162) 
 
1.1.2 Il “dire tutto” del cittadino 
A questo punto, è necessario introdurre la pratica che, studiata e 
riscoperta da Foucault, ci sembra poter tenere in un unico disegno le 
contemporanee esigenze dell’etica, della comunicazione e della 
politica: farsi comunicazione etico-politica del sé. È la parresia la 
pietra nuova su cui Foucault può costruire la propria filosofia, il 
culmine dei propri studi
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, che sembrano tornare a qualcosa di 
dimenticato e di molto semplice: al dire la verità. In realtà, nella 
lingua greca, le radici di cui si compone il termine, pan (πᾶν), “tutto” 
e rhema (ῥῆμα), “ciò che viene detto”, significano qualcosa di 
leggermente diverso: la parresia consiste nel dire tutto quello che si 
ha in mente, nel non nasconderlo, nel non tacerne nulla. E non 
esaurisce se stessa, quindi, nella franchezza che è richiesta al parlante, 
a chi ne fa uso: egli dovrà certamente essere sincero in ciò che dice, 
                                                 
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 Di McGushin (2007) è lo studio più aggiornato, che traccia un interessante itinerario à 
rebours: con l’ausilio degli ultimi strumenti di Foucault, arriva a “scardinare” il pensiero 
del filosofo degli anni Sessanta e Settanta. 
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ma dovrà anche esprimere tutto ciò che pensa sull’argomento, senza 
inibizioni, remore, paure. Dovrà trasferire completamente tutto ciò che 
pensa nelle proprie parole. Sarebbe interessante ragionare su come 
l’interesse di Foucault, il quale, da qualche anno, si stava soffermando 
sugli esiti dell’Illuminismo, si sia spostato da quel “sapere aude!” a 
quello che potremmo definire un “dicere aude!”. È la sua intera e 
spiazzante parabola filosofica finale a configurarsi come 
schiettamente parresiastica. 
L’analisi della parresia viene affrontata nei due ultimi cicli di 
lezioni
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 che Foucault tenne al Collège de France, aventi come titolo 
Le gouvernement de soi et des autres (1982-83
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) e Le courage de la 
vérité (1983-84). Inoltre, in una serie di sei seminari organizzati 
dall’Università di California a Berkeley nell’autunno del 1983, il 
filosofo riassunse il tema e cercò di delinearne i contorni in maniera 
accurata, analizzando “il problema del sorgere dell’attitudine critica 
nelle filosofie dell’Occidente” (Bodei 1996: vii). L’interesse nei 
confronti della parresia, in realtà, era già nato nell’anno precedente: 
ad essa è dedicata un’intera lezione del suo corso, quella del 10 marzo 
del 1982: nella prima ora, viene compiuta l’analisi della parresia nei 
circoli epicurei; nella seconda, riveste una particolare importanza lo 
studio della lettera 75 delle Lettere a Lucilio di Seneca. Gli studi 
sull’opera di Foucault che la tematizzano e la collocano nella giusta 
posizione, cioè al centro della sue ultime ricerche, non sono numerosi, 
anche se in crescita, parallelamente alla sempre più ampia conoscenza 
del materiale ancora inedito
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. 
                                                 
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 La pubblicazione dei due corsi è prevista, secondo le indicazioni dei curatori, nel giro di 
qualche anno. Le relative registrazioni audiofoniche sono attualmente conservate presso 
l’IMEC (Institut mémoires de l’édition contemporaine) di Parigi, disponibili per la 
consultazione. 
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 Le lezioni di Foucault coprivano un arco temporale che andava dall’inizio di gennaio alla 
fine di marzo: poco meno di due mesi. Pertanto, si può anche nominare il solo anno in cui 
effettivamente si svolsero: il 1983, in questo caso; il 1984, per il suo ultimo corso. 
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 Szakolczai (2003), Luxon (2004) e Franěk (2006), per esempio, hanno lavorato sul 
Foucault inedito. Per un approfondimento, si può vedere anche Szakolczai (1998: 179-86, 
2001: 380). Esistono addirittura dei riverberi delle ricerche foucaultiane sulla teoria 
organizzativa (Chan and Garrick 2002).