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Cap. 1: Crisi economica e produttività 
 
1.1: Crisi economica: quali prospettive per la ripresa 
In questa sede di apertura sul grande capitolo della crisi economica attuale, si intendono 
esaminare gli aspetti finanziari della crisi che stiamo tutti vivendo, chi maggiormente 
rispetto ad altri, dalla tarda primavera del 2007. 
Anziché ricostruire le singole tappe dettagliate della crisi finanziaria in corso, l’analisi 
verterà a due particolari provocazioni emerse da diversi economisti; le prime due domande, 
che riprendono una nota espressione di Hyman Minsky
1
, sono: 
 basta introdurre una regolamentazione più severa dei mercati finanziari per evitare 
che una crisi quale quella attuale “possa ripetersi” negli anni futuri? 
 nel caso in cui una maggiore regolamentazione non fosse sufficiente a riequilibrare 
la situazione, la sola alternativa consiste, allora, nel ritorno ad uno “Stato 
produttore”, ossia ad uno “Stato banchiere” che nazionalizzi quote importanti del 
settore bancario e si intrometta nella gestione dei servizi finanziari, riproponendo, 
per esempio, la struttura proprietaria e l'organizzazione vigenti in Italia fino alla 
fine degli anno Ottanta? 
 
Partendo da qualche cenno sull'evoluzione della crisi finanziaria per ricostruire 
gradualmente lo scenario di riferimento, va innanzi tutto ribadito che si tratta della più 
grave crisi economica degli ultimi settantacinque anni. Secondo alcuni indicatori 
finanziari, è addirittura più grave di quella vissuta all'inizio del lungo periodo di 
depressione 1929 – 1933. Rimane il fatto che l'attuale crisi può essere suddivisa in quattro 
fasi. 
Prima fase: è quella più studiata, è stata innescata dall'aumento nelle insolvenze dei mutui 
subprime nel mercato statunitense di inizio 2007. A sua volta, tale incremento delle 
insolvenze è imputabile all'aumento nei tassi di interesse e al conseguente rallentamento 
nella crescita del settore immobiliare avvenuti, negli Stati Uniti, fra il 2005 e il 2006. E' 
però evidente che questi fenomeni non possono essere stati la causa ultima di una crisi 
finanziaria internazionale di portata così vasta come quella attuale. Per spiegare i repentini 
                                                      
1
 Hyman Philip Minsky (Chicago, 23 settembre 1919 – 24 ottobre 1996) è stato un economista statunitense, 
collocabile vicino al filone dei post-keynesiani, noto per la sua teoria dell'instabilità finanziaria e sulle cause 
delle crisi dei mercati.
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rivolgimenti nelle scelte e nei comportamenti dei vari attori di mercato, bisognerebbe fare 
anche riferimento alla politica monetaria molto permissiva della FED nel corso degli anni 
Novanta e, soprattutto, dopo il 2001, al riprodursi di gravi squilibri negli scambi 
internazionali (specie fra Stati Uniti e Cina), alle bolle speculative nei mercati azionari e, 
più in generale, nei mercati finanziari e in quelli delle materie prime. 
Fatto è che gli andamenti macroeconomici degli anni precedenti lo scoppio della crisi 
finanziaria hanno sicuramente contribuito a fare si che gli attori economici sottovalutassero 
varie tipologie di rischi finanziari (in primo luogo, i rischi di liquidità e di controparte). 
Allo scoppiare della crisi vi è stato quindi una reazione di segno contrario che ha portato a 
sopravvalutare tali rischi dando luogo, così facendo, a problemi di liquidità e di insolvenza 
per una quota consistente di intermediari finanziari. 
Per individuare le cause specifiche di questa crisi finanziaria in corso e per comprenderne 
le specificità, occorre far riferimento ad un insieme di variabili finanziarie (meglio 
analizzate nella terza fase): i problemi di liquidità e di insolvenza precedentemente 
menzionati hanno, ben presto, fatto emergere la pessima qualità di molte poste dell'attivo 
dei bilanci bancari e degli altri intermediari e hanno indotto una significativa restrizione 
nell'offerta di prestiti e di altri servizi finanziari (deleveraging). Ciò ha propagato la crisi 
nei segmenti regolamentati dei mercati finanziari e, poi, nell'economia “reale”. 
Nella seconda metà del 2007, i responsabili di politica economica dei paesi 
economicamente avanzati hanno sottovalutato la portata della crisi finanziaria. La reazione 
di policy è stata, quindi, affidata alle sole banche centrali che hanno iniziato ad immettere 
nel sistema massicce dosi di liquidità. La banca centrale statunitense (FED) (più tardi 
anche la banca centrale europea BCE) ha subito intrapreso una politica permissiva sui tassi 
di interesse. 
Questa prima fase della crisi si è idealmente conclusa nel marzo 2008, quando la quarta 
banca di investimenti statunitense Bear Stearns è arrivata sull'orlo del fallimento. Le 
autorità di politica economica statunitense intervennero per procedere al salvataggio: 
secondo molti economisti noti a livello internazionale, la composizione del suo bilancio 
implicava troppe interrelazioni con altri attori finanziari nei mercati internazionali perché 
un fallimento di una banca di questo genere non avesse effetti contagio. Rimane il fatto che 
tale salvataggio è stato fatto nel peggiore dei modi: in particolare, il Dipartimento del 
Tesoro e la FED hanno usato lo schermo di una banca privata (J.P. Morgan) che ha 
acquisito Bear Stearns grazie però ai generosi finanziamenti e garanzie pubbliche. Tale 
salvataggio ha dato inizio, negli U.S.A., ad una serie di interventi pubblici del tutto
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discrezionali, ossia attuati caso per caso e senza alcuna regola predefinita e comunicata al 
mercato. 
La seconda fase della crisi finanziaria è stata, così, caratterizzata dal Tesoro e dalla FED 
che correvano in soccorso di alcune banche e di altri intermediari in serie difficoltà. 
Questa situazione ha portato ad un fatto cruciale: il fallimento di Lehman Brothers, 
un'importante Investment Bank statunitense, nel settembre 2008. 
Nel corso dell'estate 2008, Tesoro e FED avevano dovuto intervenire ripetutamente a 
sostegno di due società a proprietà privata ma “sponsorizzate” dal governo, operanti nel 
settore dei mutui: Fannie e Freddie. Tali interventi non avevano però migliorato le 
condizioni del mercato finanziario statunitense e non avevano, quindi, impedito che alcune 
delle principali banche di investimento si trovassero in grave difficoltà. Spingendo la 
propria arbitraria discrezionalità fino all'estremo limite, Tesoro e FED hanno deciso di 
aiutare il salvataggio di una di queste banche, Merrill Lynch, di evitare attraverso un 
intervento diretto il fallimento della più grande compagnia di assicurazione (AIG) con 
posizioni molto speculative nel mercato delle garanzie private (CDS), ma di spingere  
Lehman Brothers all'uscita dal mercato (con il ricorso al così detto “capitolo 11” della 
normativa statunitense sui fallimenti). 
Il sostanziale fallimento di Lehman, che ha chiuso la seconda fase della crisi, ha reso 
drammatica la situazione. La crisi del mercato finanziario statunitense è precipitata e ha 
investito anche quelle parti dei mercati e degli intermediari europei ed asiatici che, fino a 
quel momento, erano rimasti ai margini del “ciclone”. Questo fallimento scatenò, inoltre, 
una crisi di fiducia e, con il venir meno di quest'ultima, vennero meno anche i prestiti tra 
gli stessi intermediari finanziari creando così “blocchi di mercato”. La crisi dei mutui 
subprime si è presto trasformata in una crisi di liquidità dell'intero sistema. 
Inoltre, tale crisi, si è poi propagata all'economia “reale”: tutti in principali paesi sono 
entrati in recessione o hanno peggiorato i loro andamenti economici già negativi. La 
possibilità di un tracollo del sistema finanziario statunitense e internazionale e lo spettro di 
una lunga depressione si sono fatti così concreti che i governi degli Stati Uniti, dell'area 
dell'Euro e dell'Asia hanno compreso di non poter più intervenire in modo discrezionale, 
senza nessun piano. Ciò ha segnato la terza fase della crisi, incentrata sui programmi di 
intervento pubblico in tutti i paesi economicamente avanzati. 
Questa terza fase si è aperta in un modo un po' “paradossale”: l'ex segretario del tesoro H.  
Paulson si presentò davanti al Congresso presentando una bozza di una linea 
programmatica di intervento pubblico, ossia la richiesta di 700 miliardi di dollari. Tale
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episodio fu emblematico della scarsa preparazione con cui l'Amministrazione Bush ebbe 
fronteggiato il precipitare della crisi finanziaria. Nella prima metà di ottobre, sia gli Stati 
Uniti che i principali paesi europei furono stati in grado di varare progetti sistemici di 
intervento pubblico per ripristinar e il funzionamento del mercato finanziario 
internazionale. 
L'idea statunitense iniziale era quella di pulire i bilanci delle banche in difficoltà mediante 
l'acquisto pubblico delle attività a più alto rischio ed a più bassa liquidità. I paesi europei, 
che hanno mostrato una buona capacità di coordinamento, hanno invece ritenuto che la via 
migliore fosse quella di combinare una ricapitalizzazione pubblica delle banche e una 
garanzia statale sulla parte dell'attivo (oltre che del passivo) dei bilanci bancari. Ben presto 
l'ipotesi europea prevalse quella statunitense. Il Tesoro e la FED hanno, infatti, cambiato il 
loro progetto e hanno proceduto a ricapitalizzare le principali banche ed un elevato numero 
di banche di piccole – medie dimensioni. 
Con la fine dell'anno 2008, è risultato evidente che questi interventi pubblici erano 
insufficienti: risolvevano, se non altro, i casi di media gravità, ma non fornivano una 
risposta adeguata ai casi più gravi. 
All'inizio del 2009 si è così aperta la quarta fase della crisi finanziaria (che è quella che 
oggi stiamo vivendo). In tale fase è tornato alla ribalta il problema di ripulire i bilanci delle 
banche. Ciò sta ponendo una serie di problemi tecnici che hanno grande rilevanza pratica e 
che campeggiano quotidianamente sulle pagine dei giornali. Ciò ha portato , in questi primi 
mesi del 2010, uno stato europeo, la Grecia, in una situazione fortemente in bilico: il 
rischio è che esca dall'Unione Europea, entrata a far parte solo grazie ai bilanci pubblici 
falsificati. Oggi rischia il fallimento: i Paesi aderenti all'UE stanno in questi mesi 
deliberando sui possibili aiuti monetari (si tratta di una manovra finanziaria complessiva di 
circa 130 miliardi di euro); questa situazione ha fatto precipitare il valore della moneta 
contro il dollaro (attualmente il tasso di cambio € - $ è 1,28 contro 1,33 dei primi mesi 
dell'anno 2010 in corso). 
 
Questa sommaria ricostruzioni delle principali 4 fasi che hanno caratterizzato la crisi in 
atto dovrebbe essere sufficiente per mostrare che si sono sommati almeno due tipi di 
fallimenti: quelli del mercato e quelli della regolamentazione. Inoltre, molti interventi 
statali sono stati errati. Per non entrare troppo nel dettaglio dei meccanismi che hanno 
caratterizzato queste quattro fasi sopra delineate, è importante soffermarsi sul “perché” 
l’analisi della crisi finanziaria e delle sue conseguenze debba fondarsi su variabili
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specifiche e non limitarsi a spiegazioni generali e inevitabilmente generiche. 
La prima osservazione riguarda i possibili legami tra l'attuale crisi finanziaria e gli squilibri 
macroeconomici internazionali che si sono accumulati negli ultimi venti anni e che sono 
sfociati nei tre grandi debiti dell'economia statunitense: gli squilibri nella bilancia 
commerciale e il connesso formarsi di un ingente debito estero, il debito pubblico indotto 
dal riprodursi di deficit nel relativi bilancio federale, l'indebitamento delle famiglie dovuto 
alla crescita dei consumi privati in presenza di una stagnazione nei redditi “reali” delle 
famiglie.  
L'economista B. Lapadula ha giustamente ricordato all'interno di suoi articoli pubblicati, 
già alla fine degli anni Novanta, Sylos Labini e alcuni economisti del centro di politica 
economica dell'Università di Cambrige (UK): essi avevano puntato l'attenzione 
sull'insostenibilità di tali squilibri macroeconomici nel lungo periodo; da non dimenticare 
che per la prima volta nella storia del secondo dopoguerra, il deficit nella bilancia 
commerciale e il debito pubblico statunitensi sono stati largamente finanziati dai paesi in 
via di sviluppo ed, in primo luogo, dalla Cina. Tali fenomeni sono di totale importanza per 
inquadrare i dati di fondo che hanno favorito il propagarsi della crisi attuale, anche se non 
spiegano la specificità degli aspetti finanziari. La storia economica ci ha insegnato da 
tempo che le maggiori crisi finanziarie si presentano con un insieme invariante di dati di 
fondo: gravi squilibri macroeconomici accompagnati da una forte espansione del credito e 
dei consumi, accanto anche a sistematiche sottovalutazioni dei rischi da parte di tutti gli 
attori di mercato. Essa ci ha anche insegnato che, a questa situazione di euforia, fanno 
seguito improvvisi episodi di panico e sopravvalutazione dei rischi che innescano strette 
creditizie e drastiche riduzioni degli attivi bancari (è il caso del così detto deleveraging). 
Quanto appena detto sembra proprio la descrizione del manifestarsi e dell'evolversi della 
crisi finanziaria attuale. L'ulteriore insegnamento della storia economica è però il più 
rilevante: se ci si ferma ai soli elementi comuni delle crisi finanziarie, non si capiscono i 
tratti essenziali di ciascuna di esse e non se ne trae il corretto insegnamento per il futuro. Si 
rischia, per altro, di imputare nessi di casualità che non trovano riscontri empirici. 
Nel caso dell'attuale crisi, tale rischio si presenta nel proporre un nesso di casualità fra le 
accresciute sperequazioni nella distribuzione del reddito e della ricchezza, e la crisi 
finanziaria.  
Negli anni passati, molte riviste economiche tendevano a sottolineare che, in gran parte dei 
paesi economicamente avanzati, l'integrazione dei mercati internazionali e l'innovazione 
tecnologica hanno comportato una drastica riduzione del reddito e della ricchezza a favore
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di una minoranza provilegiata di occupati, di molte imprese e di percettori di rendite; tale 
polarizzazione ha sicuramente costituito un fattore di squilibrio dal punto di vista 
dell'equità sociale ma anche da quello dell'efficienza economica perché ha relegato ai 
margini dei processi produttivi una fascia ampia di lavoratori dipendenti. Riconoscere la 
rilevanza negativa di tale fenomeno non significa, però, dimostrare che esso sia la causa o 
una delle principali cause della crisi finanziaria attuale. 
Occorre quindi riflettere sul fatto che è opportuno rendersi conto di quanto le “cose” siano 
più complesse rispetto ad un semplice nesso di casualità. 
Considerando gli squilibri macroeconomici da tempo già denunciati tra Stati Uniti e Cina, 
la domanda sorge spontanea: quale è stata la causa ultima di questi squilibri? Tutti gli 
economisti riconoscono che si è trattato di un eccesso di domanda interna negli Stati Uniti: 
sfruttando una sorta di “signoraggio” internazionale, quel paese ha vissuto al di sopra 
delle sue possibilità. Tale eccesso ha causato disavanzi nella bilancia commerciale degli 
Stati Uniti che, a loro volta, hanno dovuto essere finanziati.  
Quali paesi hanno potuto finanziarli? Sicuramente quei paesi con elevati avanzi nella loro 
bilancia commerciale, che sono derivati da insufficienze di domanda interna e da una 
connessa propensione alle esportazioni: i paesi in via di sviluppo.  
Non è necessario essere degli economisti particolarmente raffinati per rilevare che, se 
nessun'altra variabile macroeconomica cambiasse, una redistribuzione dei redditi a favore 
delle fasce di popolazioni a più basso reddito ed a più bassa ricchezza farebbe aumentare la 
propensione media al consumo. Pertanto, a parità di ogni altra circostanza, un'attenzione 
nella polarizzazione statunitense dei redditi e della ricchezza avrebbe accresciuto i consumi 
interni e avrebbe aggravato gli squilibri nella bilancia commerciale; ovvero avrebbe 
proprio accentuato quegli squilibri macroeconomici ritenuti alla base del nesso di casualità 
fra sperequazioni distributive e crisi finanziaria. 
Seguendo quindi questo filone di ragionamento, la correzione nella distribuzione del 
reddito e della ricchezza avrebbe dovuto avvenire in Cina e negli altri paesi in via di 
sviluppo e con forte avanzo commerciale. In altri termini, i paesi economicamente avanzati 
avrebbero dovuto comprimere i propri consumi  interni ed i paesi sottosviluppati 
aumentare i consumi interni. Ma la crisi finanziaria ha avuto origine nei paesi 
economicamente avanzati (in primo luogo, negli Stati Uniti): detto questo, tale crisi non 
può quindi essere causata da squilibri nella distribuzione del reddito e delle ricchezze. 
I ragionamenti portati avanti in questo ambito dall'economista francese Jean-Paul Fitoussi 
sono utili per mettere in rilievo altri importanti effetti: in particolare lui sostiene che se le
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famiglie statunitensi a reddito medio e medio – basso avessero ottenuto un aumento 
anziché una stagnazione del loro potere di acquisto, non avrebbero solo consumato di più 
ma si sarebbero anche, e forse soprattutto, indebitate di meno. Ma un minor indebitamento 
delle famiglie avrebbe probabilmente attenuato i disavanzi commerciali a avrebbe 
eliminato alcuni di quei fattori di fragilità del sistema finanziario che hanno contribuito alla 
crisi. 
Tale ragionamento di J.P. Fitoussi porta ad una conseguenza: un riequilibrio nella 
distribuzione del reddito e della ricchezza negli Stati Uniti avrebbe probabilmente avuto un 
effetto di stimolo sui consumi interi ma anche un effetto di “freno” sull'indebitamento delle 
famiglie. Anche l'economista è in difficoltà nel fornire una risposta su quale dei due effetti 
sopra citati sarebbe stato prevalente agli squilibri macroeconomici. Questo perchè 
un'analisi del genere non è mai stata approfondita. È sicuramente ragionevole sostenere 
che, se anche fossero provati, i legami fra tutti questi fattori sarebbero assai più complicati 
da quanto non ci venga suggerito da superficiali imputazioni di casualità. 
A mio avviso, non sminuendo la rilevanza sociale ed economica degli attuali differenziali 
di reddito e di ricchezza che reputo inaccettabili, ritengo che una delle condizioni 
essenziali per la ripresa della crisi “reale” sia l'aumento della domanda aggregata nei paesi 
economicamente avanzati; il che richiederà una politica redistributiva a favore delle fasce 
più povere e medie della popolazione e dei lavoratori dipendenti.  
A quanto detto, l'obiettivo è stato quello di sottolineare due aspetti cruciali dell'analisi del 
dopo crisi: imputare nessi di casualità fra disuguaglianze distributive e crisi finanziaria 
equivale a non esaminare le specificità dell'attuale crisi finanziaria; così facendo, si ha una 
visione distorta di cosa sia necessario fare perché una simile crisi non possa ripetersi nel 
futuro.
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1.2: Come minimizzare le possibilità di altre crisi simili all'attuale 
 
Altre considerazioni importanti occorre farle riguardo un altro tema centrale: “che cosa si 
può fare per minimizzare le probabilità che una crisi finanziaria di questa portata si ripeta 
nel prossimo futuro”. 
Occorre premettere che questa crisi segna il passaggio  di cultura: dalla “cultura del 
cambiamento” alla “cultura della discontinuità”: il cambiamento era considerato come un 
processo lento e prevedibile, e soprattutto dava modo e tempo a tutti di adeguarsi; alcuni 
dicevano che il cambiamento era una cultura somigliabile alla “logica dell'orologio”, 
ovvero un processo meccanico, facilmente prevedibile con precisione anche nel lungo 
termine. 
Oggi, nell'era della “discontinuità”, tutto è molto caotico, le regole del gioco cambiamo in 
continuazione, rapidamente, non dando tempo e modo a tutti di potersi adeguare. I migliori 
rientrano nel gioco, quelli invece che non riescono ad adattarsi vengono automaticamente 
esclusi. 
Risulta quindi evidente che in situazioni di discontinuità è praticamente impossibile fare 
previsioni, come invece avveniva nel passato: la discontinuità è infatti paragonata al 
“movimento delle nuvole”,  impossibile da prevedere con precisione. 
Il passaggio da una cultura legata al cambiamento ad una fondata sulla discontinuità fa 
cambiare tutto: il modo di pensare, di fare, di prevedere... 
Chi avrebbe mai pensato che nel 2010 l'intero sistema internazionale fosse ancora invaso 
da una crisi nata nel 2008? Prevedere un fallimento del mercato e soprattutto della 
regolamentazione era impossibile. È evidente che la crisi si è accompagnata al ripetuto 
fallimento della parte più sofisticata dei sistemi di mercato: i meccanismi finanziari. I 
fallimenti più sistematici vanno, però,  riferiti alla regolamentazione.  
Il fatto che alcuni segmenti di mercato fossero regolati in modo severo e mentre altri erano 
del tutto deregolamentati, ha spinto gli intermediari finanziari ad effettuare arbitraggi, ossia 
a concentrare le proprie attività nei segmenti non regolamentati e ad assumere incongrui 
rischi al fine di massimizzare i guadagni di breve periodo. A tutto ciò occorre aggiungere 
gli interventi poco prudenti dello Stato: l'intervento pubblico è stato discrezionale e come 
hanno mostrato le scelte compiute dal Tesoro e dalla FED riguardo l'Investment Bankin 
Lehman e gli altri intermediari sull’orlo del fallimento, è stato la causa del precipitare della 
crisi.
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A livello internazionale vi è il consenso di responsabili di politica economica ed 
economisti che gli interventi di breve periodo nei confronti degli intermediari finanziari 
devono essere ricapitalizzati medianti interventi misti, ossia mediante l'apporto sia di 
risorse pubbliche che private. Essi concordano anche sul fatto che tali ricapitalizzazioni 
avrebbero effetti molto limitati se fossero accompagnate dalle sole garanzie pubbliche sulle 
attività finanziarie problematiche (ossia poco liquide e molto rischiose); in altre parole si 
tratta di “pulire” i bilanci delle banche e degli altri intermediari mediante interventi 
pubblici e privati. Queste operazioni di ingenti trasferimenti non devono limitarsi a 
socializzare perdite private ma devono anche prevedere punizioni e disincentivi per i 
manager e per gli azionisti che hanno la responsabilità dei disastri. 
Naturalmente la combinazione pubblico – privata per le ricapitalizzazione  della pulizia dei 
bilanci delle banche può avvenire in diverse forme; e la scelta delle forme tecniche degli 
interventi può avere conseguenze rilevantissime anche sotto il profilo dei costi sociali e 
dell'equità di sistema. Non è quindi sorprendete che i responsabili statunitensi ed europei di 
politica economica siano  sottoposti a continue pressioni per spostare i confini fra costi 
pubblici e costi privati. 
I responsabili di policy sono assolutamente consapevoli del fatto che, per risollevarsi, 
occorre introdurre nel sistema parametri più severi rispetto ai coefficienti minimi di 
capitalizzazione ed ai coefficienti massimi di indebitamento delle banche: in altre parole, 
più capitale e meno leverage. 
Si è anche raggiunto un ampio consenso circa il fatto che non è più sufficiente una micro 
regolamentazione, ossia non è più possibile prevedere interventi pubblici di ultima istanza 
volti a evitare il fallimento di una banca; oltre a questa micro regolamentazione, è 
necessario una macro-regolamentazione prudenziale in grado di rafforzare la stabilità del 
sistema mediante due particolari strumenti: la puntuale previsione delle tensioni finanziarie 
che potrebbero avere impatto sistemico; la definizione di alcune regole ex ante in grado di 
limitare la probabilità che tali tensioni si verifichino. 
Molti economisti, sui quotidiani nazionali e internazionali, vengono sottoposti a quesiti del 
tipo: è opportuno ritornare ad una separazione tra le diverse attività bancarie, quali le 
attività di finanziamento e quelle di investment banking? 
Negli ultimi venti anni, non soltanto in Europa, si è impostato il modello della banca 
universale accanto a quella della banca specializzata in attività a elevato valore aggiunto. 
La crisi suggerisce forse di tornare al Glass Steagall Act negli Stati Uniti (ossia alle norme 
introdotte dopo la crisi del 1929-1933) e ai modelli vigenti in Italia fino ai tardi anni
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Ottanta: sono meglio le banche specializzate nell'erogazione del credito a breve termine, 
altre specializzate in quella di credito a lungo termine, poche altre ancora concentrate 
nell'offerta?  
Stigliz
2
, in  un'intervista pubblicata sul Sole 24 Ore, richiamò un altro tema importante: 
posto che la crisi finanziaria è stata aggravata dalle dimensioni eccessive assunte dai vari 
gruppi bancari, è lecito imporre tetti quantitativi a tali dimensioni; e questi eventuali tetti 
devono essere riferiti all'importanza del paese di origine della banca, così da evitare che i 
maggiori gruppi bancari di piccoli paesi raggiungano una dimensione dell'attivo che superi 
largamente il prodotto interno lordo nazionale? 
Ragionando attorno a queste provocazioni, convengo nel ritenere che la soluzione alla crisi 
finanziaria non possa essere trovata in un ritorno al passato o nell'ingerenza pubblica 
rispetto alla gestione degli intermediari finanziari. Non si può quindi affermare con 
fermezza che, se nell'Europa continentale le attività di investimento fossero state 
indipendenti dalle attività dei gruppi bancari commerciali, la crisi finanziaria sarebbe stata 
meno intensa; e non vi è alcuna evidenza che lo Stato abbia una migliore informazione 
rispetto alle attività da finanziare. L'idea quindi di separare le banche commerciali e quelle 
di investimento oltre a prevedere una direzione pubblica nell'allocazione dei prestiti e/o 
della ricchezza finanziaria risulta essere poco condivisibile. 
Diversamente, sono propenso all'idea sottolineata e confermata negli ultimi articoli, 
conferenze di molti economisti italiani e internazionali: risulta inevitabile imporre vincoli 
quantitativi alle dimensioni dei singoli gruppi bancari, oltre alla necessità di ricorrere a 
forme rigorose di regolamentazione. I vincoli dimensionali degli intermediari vanno, 
tuttavia, subordinati ad un'accurata determinazione del loro specifico mercato di 
riferimento; si tratta cioè di un problema di concorrenza, e quindi di antitrust. Risulta 
logico ribadire che l'introduzione di forme severe di regolamentazione deve fare in modo 
di evitare il ritorno a interventi discrezionali e puramente arbitrari: staremo a vedere le 
novità che Basile 3 introdurrà in sostituzione a Basilea 2. 
 
In conclusione, poiché la crisi finanziaria ha messo in luce i gravi fallimenti della 
regolamentazione, come sostengono anche P. Barucci
3
 e V. Messori
4
, una risoluzione a 
                                                      
2
 Joseph Eugene Stiglitz (Gary, 9 febbraio 1943) è un economista e scrittore statunitense.  
3
 Piero Barucci (Firenze, 29 giugno 1933) è un economista e politico italiano.  
4
 Vittorio Messori (Sassuolo, 16 aprile 1941) è un giornalista e scrittore italiano.
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prima vista sembra non essere altro che il ritorno ad uno Stato che svolge la funzione di 
regolatore. 
Gli economisti italiani sopra citati convengono all'idea che, non essendo il mercato più in 
grado di offrire assicurazioni contro i rischi (la crisi ha, se non altro, mostrato la rilevanza 
dei rischi sistemici), risulta quindi inevitabile un intervento pubblico: nel limite del 
possibile si tratta di fissare ex ante regole ben chiare a tutti, così da evitare che questo 
intervento sia utilizzato per socializzare le perdite e privatizzare i guadagni. Se fosse posto 
in condizione di svolgere efficacemente una funzione di assicuratore di ultima istanza, lo 
Stato assumerebbe un ruolo che andrebbe al di là di una mera funzione di 
regolamentazione senza cadere in vizi passati.
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1.3: La crisi vista da altri punti di vista 
 
Dopo lo svolgimento del G20 di Londra
5
, il giornalista economico R. Franzè pubblico un 
articolo su Ecolcity all'interno del quale descrive la crisi economica attuale sotto tre 
principali teorie maggiormente sopportate e sentite. 
Da qui ne fuoriesce la sua visione riguardo l'andamento futuro della crisi economico – 
finanziaria dei nostri giorni riassunta in queste poche parole: “...prepariamoci a diventare 
più poveri...”. 
 
1° teoria – Crisi economica difficile ma superabile 
Riguarda essenzialmente quella dell'informazione ufficiale, dei governi e degli economisti 
vicini alla finanza mondiale che, dopo aver cercato di negare per anni l'arrivo di una crisi 
economica, dal 2008 ne ammettono l'esistenza di fronte ad un evidenza innegabile. 
A loro avviso, la “colpa” è di una finanza speculativa che ha portato alla creazione di 
prodotti finanziari di dubbio valore in misura di 4.000 miliardi di dollari (nel 2008 il PIL 
mondiale è stato circa di 56.000 miliardi di dollari) i quali rischiano di bloccare l'intero 
sistema bancario e finanziario e, di conseguenza, l'intero sistema economico. 
Le soluzioni emerse dal G20 furono: 
1. per evitare il blocco del sistema, gli asset passivi (definiti tossici) devono essere 
acquistati dagli stati o dai privati (attraverso finanziamenti statali) al fine di liberare 
il sistema bancario e finanziario che, una volta liberato da questi titoli tossici, potrà 
a sua volta rifinanziare l'economia; 
2. le banche centrali abbassano i tassi di interesse ed immettono nel circuito bancario 
molto denaro a basso costo che, a loro avviso, sarà assorbito dal circuito economico 
con conseguente ripresa dei consumi e dell'economia. Inoltre, secondo loro, questa 
manovra non comporterà a breve rischi di inflazione (aumento dei prezzi) poiché 
ritengono che in questo momento siamo in una situazione di piena deflazione; 
3. investimenti importanti di lungo corso da parte degli Stati, per rilanciare 
l'occupazione e l'economia nel suo complesso. 
                                                      
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 l Summit dei Leader dei G-20 sui mercati finanziari e l'economia mondiale si è tenuto a Londra, 
(Regno Unito), il 2 aprile 2009 presso l'ExCeL Centre. È seguito, cronologicamente, all'omonimo 
summit tenutosi a Washington (Usa) tra il 14 ed il 15 novembre 2008.
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Sempre da quanto emerso dal G20, una ripresa lenta inizierà a partire dal 2010 per poi 
aumentare già nel 2011: in altre parole questa crisi è si più dura di quelle degli ultimi anni, 
ma la ripresa è assicurata. 
 
2° teoria – Crisi economica e sistemica di lunga durata 
È la teoria sostenuta dalla maggior parte dell'informazione alternativa (definita anche 
libera, controinformazione, ecc...) che ha, in moltissimi casi, anticipato l'arrivo della crisi: 
alcuni economisti liberi, a partire dal 2005, sono stati in grado di prevedere eventi della 
crisi che, a partire dal 2007, si sono puntualmente verificati. 
Questa teoria parte sicuramente da una visione più pessimistica, all'interno del quale si 
ritiene che la così detta “economia di carta di dubbio valore” possa arrivare a 150.000 
miliardi di dollari (esattamente 2,67 volte il PIL mondiale, essendo pari a 56.000 miliardi 
di dollari): una visione catastrofica ritiene che questa possa arrivare a 700.000 miliardi di 
dollari, ovvero esattamente 12,5 volte il PIL mondiale. 
Occorre chiarire che i “titoli tossici” non sono esattamente la stessa cosa della “carta di 
dubbio valore” nel quale vengono compresi altri asset determinanti da sofisticati strumenti 
finanziari che, per i più pessimisti, rappresentano un'economia che non ha una copertura 
reale. 
Le soluzioni proposte da questa seconda teoria non sono molte poiché risulta veramente 
difficile agire su un problema insormontabile; Franzè, nel suo articolo, ne cita una tra le 
più interessanti: 
1. nazionalizzazione delle sole banche commerciali al fine di assicurare la copertura 
dei conti correnti e i finanziamenti delle imprese strategiche, produttive e di 
interesse sociale, congelando gli asset tossici, lasciando al mercato il resto della 
sorte ed investendo in opere con un’ottica temporale di lungo termine per riavviare 
gradualmente la ripresa economica. 
Secondo coloro che appoggiano questa teoria, si andrà verso una crisi economica e 
sistemica che potrà durare da 5 a 10 anni per i più ottimisti, arrivando a conseguenze molto 
gravi (come crisi geopolitica, guerre, carestie, ecc...) per i più pessimisti. 
 
3° teoria – complotto per il nuovo ordine mondiale 
È la teoria sostenuta dai così detti “complottisti” i quali affermano che questa crisi è 
pilotata da poteri occulti al di sopra della politica. Questi poteri starebbero causando una 
crisi globale fornendo come soluzione un “governo mondiale”.
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Secondo questa teoria, questo governo “supremo” non sarà espressione dei popoli, ma sarà 
controllato da pochi potenti (per molti che sostengono questa teoria, questi coincidono con 
le persone ai vertici della piramide massonica e delle banche). 
Questa teoria pone come soluzione quella di combattere contro il sistema bancario, 
finanziario e le multinazionali che, controllando la politica degli stati, tengono i poli in una 
sorta di dittatura – schiavitù mascherata da false forme di governo democratiche. 
Risulta quindi che se non si riuscirà a fermare l'istituzione di questo governo mondiale, si 
arriverà ad una dittatura globale mediante un controllo totale del denaro e del potere da 
parte di poche strutture sovrannazionali governate da pochi potenti. 
 
Definite queste principali teorie dominanti sulla crisi economica, all'interno del quale tutte 
spiegano che gli eccessi nel nostro sistema capitalistico hanno rischiato (per alcuni) o 
rischiano (per altri) di far crollare l'economia mondiale, Franzè sostiene che la 1° teoria 
potrebbe essere non completa del tutto e che le soluzioni messe in campo riusciranno solo 
a rimandare la crisi, ma non ad innescare una nuova e reale ripresa economica. 
Per quanto riguarda la 2° teoria, il giornalista è convinto che si configura come la più 
attendibile e coerente, ma non è ancora completa, anche se già da sole le problematiche 
messe in evidenza potrebbero innescare un crollo economico – sistemico nel mondo o 
quanto meno nei paesi occidentali. 
Infine, il redattore dell'articolo considera la 3° teoria la più interessante sottolineando che 
gli spunti descritti debbano essere tenuti in seria considerazione. 
Da questi spunti R.F. arriva a formulare una sua teoria attraverso una “formula 
matematica”: la capacità del capitalismo di distribuire ricchezza è inversamente 
proporzionale allo sviluppo tecnologico ed alla diversità dei mercati (diversità della 
ricchezza dei popoli e dei diritto dei lavoratori). 
Analizzando nel dettaglio tale formula, è interessante capire come la tecnologia 
contribuisce, nel lungo periodo, ad indebolire il capitalismo. 
Gli imprenditori, in concorrenza tra di loro, utilizzano la tecnologia e la creatività 
manageriale per essere più competitivi, all'interno del quale la tecnologia aumenta le 
capacità di produzioni a parità di lavoratori; di conseguenza si possono individuare due 
scelte da fare: 
 si riducono i dipendenti: questa è una soluzione non proponibile, considerato che i 
dipendenti sono anche i consumatori; se questi non comprano, la produzione si 
contrae con la conseguente riduzione del personale, attuando in questo modo una
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spirale negativa 
 si aumenta la produzione: in effetti questa è una strada auspicabile poiché 
aumentano i beni prodotti, oltre al fatto che, gradualmente, anche gli stipendi 
dovranno aumentare per permettere al consumatore di acquistare i maggiori 
prodotti a lui disponibili. 
Con un capitalismo “perfetto”, si riesce a generare ricchezza. 
 
Se la tecnologia aumenta, anche la capacità di produzione si incrementa: si arriva poi ad 
una situazione di saturità del mercato all'interno del quale la capacità di consumare diventa 
costante; in questo caso le scelte sono multiple: 
 si riduce la produzione: come abbiamo visto, questa è una soluzione poco probabile 
poiché si andrebbe ad innescare un circolo vizioso attraverso una riduzione dei 
dipendenti – consumatori 
 si fanno durare meno tempo le merci (attraverso, per esempio, le mode 
dell'obsolescenza programmata) e/o si riducono i costi utilizzando materiali di 
scarsa qualità: in questo modo se da un lato si guadagna tempo, dall'altro c'è il 
rischio di arrivare comunque a saturare il mercato; in più se i prodotti vengono 
acquistati e non utilizzati, si arriverebbe a creare un'inefficienza nel sistema 
 si fanno spostare i lavoratori dalla produzione di beni ai servizi gestiti dallo Stato 
(si ricorre alle assunzioni pubbliche): questo comporterebbe che, a fronte di minori 
lavoratori che procudono, aumenterebbero coloro che forniscono un servizio 
(pubblico); fino ad una certa misura questo concorrerebbe alla creazione di una 
maggiore ricchezza e benessere, ma oltre ad una certa soglia si verrebbe a 
determinarsi una sorta di inefficienza del sistema che porta lo Stato ad indebitarsi 
 si importano nuovi consumatori attraverso l'immigrazione: l'inserimento di stranieri 
con un reddito pro capite inferiore alla media, determina una nuova richiesta di beni 
per far fronte alle loro esigenze di “convenienza”, oltre che a generare un aumento 
della domanda di lavoro; una conseguenza implicita potrebbe essere (come in 
effetti lo è stata) un incremento del lavoro nero, con annessa riduzione del livello 
medio dei redditi nazionali e quindi minor capacità di spesa per il consumatore 
 si cercano altri consumatori in altri Paesi (globalizzazione): se ci si rivolge a paesi 
avanzati con mercati già saturi, si assisterà ad uno scambio di merci, ma la 
situazione generale non porta cambiamenti eccessivi; se invece ci si rivolge a paesi 
dove i mercati non sono saturi, occorre avere a che fare con milioni di persone in