5 
Non nego che ci sia una punta di narcisismo nel voler fare a tutti i costi la 
giornalista: si tratta pur sempre di voler esprimere un proprio punto di vista, 
di catturare l’attenzione su di sé, su quello che si ha da dire. Ma non potrei 
descrivere meglio la spinta che sento se non sposando le parole della 
prefazione di David Randall nel saggio “Il giornalista quasi perfetto”. E’ un 
discorso sull’essenza del giornalismo, che faccio mio in questa occasione:  
 
“Bisogna soprattutto fare domande, e in questa maniera riuscire a: 
 
- scoprire e pubblicare informazioni che vadano a sostituire voci e illazioni; 
- resistere ai controlli governativi o eluderli; 
- informare l’elettore dandogli così maggiore potere; 
- rovesciare coloro la cui autorità dipende dalla mancanza di informazione 
del pubblico; 
- analizzare quello che fanno e non fanno i governi, i rappresentanti eletti e 
i servizi pubblici; 
- analizzare l’attività imprenditoriale, il trattamento che riserva a lavoratori 
e consumatori e la qualità dei prodotti;  
- confortare gli afflitti e affliggere chi vive nel comfort, dando voce a quelli 
che di solito non possono far sentire la loro; 
- mettere la società davanti a uno specchio, che rifletta le sue virtù e i suoi 
vizi, ma sfati anche i suoi miti più cari;  
- assicurarsi che giustizia sia fatta, che lo si sappia in giro e che in caso 
contrario si indaghi; 
- promuovere il libero scambio di idee, dando soprattutto spazio a coloro la 
cui filosofia è diversa da quelle dominanti. 
 
Se riuscite a leggere questa lista senza sentire un brivido lungo la schiena, 
forse il giornalismo non fa per voi”.  
 
 
 
 
 
    
 6 
 
 “Su tutto aleggiavano cupi presentimenti e la                    
diffusa sensazione che un intero mondo, polveroso e 
tecnologicamente vetusto, fosse ormai destinato alla 
scomparsa.” (Alberto Marinelli 12005) 
 
 
I Capitolo 
 
Internet: come è cambiato il giornalismo dopo il suo arrivo 
 
 
 
 
1. La transizione verso il digitale. L’iniziale diffidenza 
 
 
      E‟ intorno alla metà dello scorso decennio che la parola “Internet” ha fatto 
la sua prima apparizione nel linguaggio comune, quando ancora non se ne 
conoscevano in pieno le potenzialità rivoluzionarie. Contemporaneamente la 
generazione nata agli inizi degli anni Ottanta muoveva i suoi primi passi verso 
l‟era digitale, mandando gli appena nati sms sul cellulare, scoprendo l‟uso dei 
sistemi di file-sharing come Napster, sorprendendosi ancora di fronte agli 
antenati degli odierni schermi piatti dei pc portatili che oggi, a oltre un 
decennio di distanza, sembrano preistorici.          
E‟ in questo contesto che Internet, nato per scopi militari durante la Guerra 
fredda e diffuso per l‟uso civile agli inizi degli anni Novanta, fece irruzione nelle 
redazioni italiane, impreparate alla novità, e dove ancora si accatastavano i 
cumuli di carta degli articoli stampati per precauzione (era presto per fidarsi 
del solo monitor) o dei quotidiani cartacei, strumento essenziale fino ad allora 
ma destinato a vedersi ridurre poco a poco il suo ruolo di centralità.  
La rivoluzione innescata dalla diffusione del web era pronta a uguagliare se 
non addirittura superare quella segnata dall‟invenzione della stampa a 
caratteri mobili di Gutenberg nel 1456: nato da un‟agenzia indipendente della 
Difesa americana come progetto “Arpa net”, finalizzato a creare una rete di 
computer connessi tra loro, fu solo alla fine della Guerra fredda che il sistema 
                                                 
1
 Professore ordinario di Teorie e Tecniche dei nuovi media alla Facoltà di Scienze della Comunicazione 
presso l‟università “La Sapienza”. 
L’avvento di 
Internet 
negli anni 
Novanta 
 7 
fu messo a disposizione degli impieghi civili, prima universitari e aziendali, e 
infine domestici. La svolta si ebbe nel 1991, quando il ricercatore Tim Bernes-
Lee del Cern definì il protocollo HTTP, che permetteva la lettura “ipertestuale” 
di documenti, e il 30 aprile del 1993  -con decisione di portata storica- un 
comunicato del centro di ricerca più importante d‟Europa annunciava che il 
World Wide Web sarebbe stato reso pubblico, consentendo collegamenti 
unidirezionali verso pagine create da altri senza bisogno dell‟intervento dei 
proprietari.  
 
      L‟ingresso di Internet nel mondo del giornalismo fu guardato con 
diffidenza e sospetto: per redazioni abituate a interagire con rassicuranti fogli 
di carta, qualcosa di totalmente immateriale e privo di possibilità di riscontri e 
di conferme come Internet non preannunciava nulla di buono. Il problema che 
si prospettava, oltre che di attendibilità delle fonti, era anche e soprattutto 
economico, perché se da una parte si conosceva benissimo l‟elenco delle voci 
di spesa necessarie alla realizzazione di un sito web, quello delle possibili 
entrate era ancora un elemento del tutto “nebuloso” 2.  
      Qualcosa si mosse quando gli investitori di Wall Street cominciarono a 
puntare capitali su società appena nate su iniziativa di esperti di informatica 
come Bill Gates: fu allora che gli editori videro crescere i loro budget grazie a 
quella ricchezza che si riversava anche all‟interno delle redazioni sotto forma di 
introiti pubblicitari. Ma l‟euforia della cosiddetta New Economy finì presto, non 
appena la bolla speculativa iniziò a sgonfiarsi e insieme con essa  le entrate 
derivanti dalla pubblicità, lasciando quotidiani come il “New York Times” in 
situazioni di esubero, con organici eccessivi e decine di giornalisti impiegati 
nelle redazioni on-line, ancora incapaci di prevedere come sarebbero tornati 
indietro tutti i soldi investiti nel web. Tutto ciò servì a rincarare la dose di 
diffidenza in quanti non vedevano di buon occhio l‟avvento delle nuove 
tecnologie ai fini della conservazione del ruolo di centralità della carta 
stampata nel giornalismo. Processi simili, fatti di alti e bassi e con investimenti 
arrivati nel momento sbagliato e con costi eccessivi, si sono ripetuti anche nel 
corso degli ultimi anni. 3  
 
                                                 
2
  Vittorio Sabadin, L’ultima copia del New York Times, Donzelli, Roma 2007, p.59 
3
 Ibidem  
Il 
progetto 
Arpa net 
La 
diffidenza 
nelle 
redazioni 
 
La  bolla 
speculativa 
della New 
Economy 
 8 
      Giornalisti ed editori si sentirono fondamentalmente spiazzati di fronte a 
un mezzo ancora misterioso come Internet, con la paura che il mondo 
conosciuto fino a quel momento potesse scomparire, cedendo il passo alla 
rivoluzione che l‟avvento delle nuove tecnologie prefigurava. I professionisti 
dell‟informazione si sentirono attaccati sia sul piano del prodotto che erano 
abituati a fornire fino a quel momento, sia sul piano della professione. Per 
quanto riguarda il primo aspetto, era evidente che l‟avvento della Rete 
scardinava i presupposti stessi dei tradizionali metodi di diffusione della 
notizia, che sarebbe stata confezionata attraverso una diversa catena 
distributiva e fruita su un mezzo diverso come il computer, di per sé ostico a 
certi tipi di contenuti; ma sarebbero anche comparsi nuovi concorrenti sul 
mercato delle notizie (come i siti di informazione o le news emesse dalle 
stesse agenzie di stampa che non davano più l‟esclusiva ai giornali di carta), e 
si sarebbe verificata un‟ibridazione dei formati, adeguati a un pubblico sempre 
più predisposto alla multimedialità. Per quanto riguarda il secondo elemento, 
quello della professione, giornalisti ed editori si sentirono esposti a una 
minaccia senza precedenti che metteva a rischio i capisaldi del mestiere: i 
giornalisti dell‟era digitale non avrebbero più avuto un accesso privilegiato alle 
fonti e al loro controllo, la funzione stessa del giornalismo vecchia maniera 
avrebbe perso la sua centralità, laddove la mediazione del professionista non 
sarebbe più stata fondamentale come prima quando le notizie andavano 
scovate e documentate personalmente. E ancora, l‟avvento di Internet 
metteva in gioco la necessità di sperimentare nuovi linguaggi e strumenti 
comunicativi che implicavano l‟acquisizione di competenze tecnologiche, e –
questo forse uno dei tasti più dolenti- obbligava ad abbandonare un certo tipo 
di scrittura colta, quasi letteraria (piuttosto cara al giornalismo italiano) per 
orientarsi invece verso forme più stringate che meglio si addicessero al web4. 
Di questo clima di dubbio e incertezza verso la novità -quando non proprio di 
diffidenza si trattasse- risentì anche la copertina della rivista della scuola di 
giornalismo della Columbia University,  la “Columbia Journalism Review”, che 
nel 1997 titolò a proposito del giornalismo online: “Cuccagna o buco nero?”.  
 
                                                 
4
 Mario Morcellini, Multigiornalismi, Guerini e Associati, Milano 2005, p.43-47 
La minaccia 
del nuovo: 
nuovi 
presupposti 
professionali  
e nuovi 
concorrenti 
La mediazione 
giornalistica 
perde la sua 
centralità  
 9 
    Tutto lo scetticismo dell‟epoca si evinceva anche da una serie di espressioni 
che circolavano come possibile nuova definizione da attribuire ai futuri 
professionisti dell‟informazione, adesso alle prese con la Rete. Come si 
sarebbero chiamati i giornalisti del futuro? Semplicemente “giornalisti digitali”, 
“cibergiornalisti”, “netinformers”, “infomediari” o “onlineisti”? O peggio 
sarebbero stati solo dei “costruttori di connessioni”? 
 
      Uno studio del Censis del 2001, quando Internet era ormai diventato una 
realtà, dal titolo “Primo rapporto sulla comunicazione in Italia”, dava l‟idea di 
come la categoria dei giornalisti si ponesse di fronte alla prospettiva di un 
nuovo modo di esercitare il loro mestiere, che facesse affidamento in larga 
parte sul web.  Se per il 48,8% Internet e i new media erano “un inevitabile 
cambiamento”, per il 44,6% era “un‟opportunità‟”, per il 19,8% si trattava di 
una “vera rivoluzione”, mentre per il 9.9% sarebbero stati uno “strumento di 
democrazia”. Alcuni tuttavia non ne erano così convinti e ancora mostravano 
scetticismo di fronte all‟avvento di Internet: per il 13,2% si trattava di una 
“scommessa”, mentre per il 12,4% era una “incognita rischiosa” o addirittura 
“la fine dell‟informazione approfondita” secondo un 18,7% degli intervistati, 
peraltro tutti appartenenti a settori tradizionali del giornalismo5. Gli stessi si 
mostravano però anche consapevoli del cambiamento in atto, e –interpellati su 
come sarebbe stato il futuro della loro professione- rispondevano che sarebbe 
accresciuto il ricorso a service e fornitori di servizi completi (54,8%), a free 
lance e liberi professionisti (51,6%), che ci sarebbe stata una figura più ampia 
di comunicatore (43%), e per un pessimista 3,3% non ci sarebbero più stati 
giornalisti6. 
 
      A testimonianza di questo atteggiamento di chiusura nei confronti del 
nuovo, un giornalista di prestigio quale è Ferruccio De Bortoli (da aprile 2009 
direttore del “Corriere della Sera”) ha dichiarato in un‟intervista come il lavoro 
dei giornalisti della Rete sia forse tuttora considerato come accessorio a quello 
della carta stampata, se non di serie B. “E‟ un atteggiamento storico 
difensivo”, ha spiegato, “all‟inizio di questo processo, nelle redazioni del web 
finivano giornalisti a fine carriera, oppure che non trovavano collocazione 
                                                 
5
 Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas, 2005, p.236 
6
 Ibidem  
Rapporto 
Censis 
2001: per il 
12,4% 
Internet è 
una 
“incognita” 
De Bortoli: 
“nel 
giornalismo 
atteggiamento 
di chiusura 
verso il web” 
 10 
all‟interno di altre redazioni”7. Si tratta di un comportamento duro a morire e 
che fa sì che molti colleghi, aggiunge De Bortoli, “siano ancora vittime della 
pericolosa sindrome dell‟accerchiamento tecnologico e non sappiano guardare 
alle novità con atteggiamento diverso e attivo”.8 Mentre all‟estero la 
rivoluzione sul web è già avviata e queste resistenze sono state superate, da 
noi persiste in parte questa chiusura, tale da spingere i giornalisti in alcuni casi 
a non pubblicare subito sul web la notizia in esclusiva di cui sono venuti a 
conoscenza, ma a tenersela pronta per il giorno dopo, da annunciare sulla 
tradizionale carta del quotidiano, con i dovuti approfondimenti. Secondo De 
Bortoli però questa forma di chiusura non potrà durare a lungo: il futuro sarà 
quello in cui la notizia viene prima anticipata sul web, e l‟approfondimento 
viene lasciato alle pagine del quotidiano dell‟edizione dell‟indomani9.  
 
 
 
2. Le pagine dei quotidiani vanno on-line. La trasformazione 
delle redazioni 
 
      Passato il turbamento iniziale, il mondo del giornalismo non ha potuto che 
fare i conti con l‟avanzata del web e cominciare ad adeguarsi al nuovo 
fenomeno. Non poteva più ignorarsi il fatto che le persone ormai avevano la 
possibilità di informarsi direttamente collegandosi a Internet, che esistevano 
motori di ricerca come Google e Yahoo in grado di offrire un‟ampia e quasi 
perfetta copertura del notiziario, o che le stesse agenzie di stampa, fino ad 
allora un servizio esclusivo per la carta stampata, aprivano l‟accesso alle loro 
news attraverso siti web in continuo aggiornamento (è il caso dell‟Associated 
Press, della Reuters e della France Press, per citarne alcune delle più 
prestigiose a livello internazionale, ma anche dell‟Ansa e dell‟Agi, per fare il 
caso dell‟Italia). Internet in sostanza era diventato a tutti gli effetti uno 
strumento di diffusione delle notizie e non era più sinonimo di informazione 
approssimativa e poco affidabile10.  
 
                                                 
7
 Ferruccio de Bortoli, L’informazione che cambia, La scuola, 2008, p.51 
8
 Ibidem  
9
 Ivi, pag.54 
10
 Vittorio Sabadin, L’ultima copia del New York Times, Donzelli, Roma 2007, p.61 
De Bortoli: “in 
futuro la 
notizia prima 
sul web e poi 
approfondita 
sul giornale” 
Il necessario 
adattamento 
delle 
redazioni 
Il web e i 
blog non 
sono più 
sinonimo di 
approssima
zione 
 11 
      E non poteva ignorarsi neppure il fenomeno dei blog, fino ad allora 
sottovalutato e ritenuto poco più che una versione on-line del diario personale. 
Dagospia ad esempio, il sito di gossip di Roberto D‟Agostino nato nel 2000, è 
passato a essere uno dei punti di riferimento per i giornalisti di tutto il mondo 
a caccia di notizie succulente. Ma ancora più eclatante era stato il caso del sito 
di Matt Drudge, il primo a rivelare uno dei più clamorosi scandali sessuali di 
tutti i tempi, la storia tra il presidente Bill Clinton e  la stagista Monica 
Lewinsky. E spesso inoltre sono gli stessi blog e i siti di informazione a 
ricavare le notizie o gli scoop dai giornali, con il paradosso che i primi 
ottengono ricavi dall‟utilizzo gratuito di materiale che i secondi producono a 
costi altissimi, come analizzeremo meglio più avanti11. 
 
      Impossibile poi chiudere gli occhi di fronte al fenomeno dei siti destinati 
alle informazioni personali come Myspace (che il magnate dell‟editoria Rupert 
Murdoch ha acquistato per 800 milioni di dollari) e adesso anche di Facebook, 
oppure al caso Youtube, un portale costituito per intero dai migliaia di video 
caricati dalla gente comune, estratti dalla tv o di natura personale: Google lo 
ha comprato nel 2005 per 1,65 milioni di dollari in azioni proprie, il prezzo più 
alto mai pagato per un sito web realizzato per intero da contenuti dei 
consumatori, una cifra con cui si sarebbe forse potuto acquistare perfino il 
“New York Times”.  E questo solo grazie al fatto che il sito, che nel solo 2006 è 
passato da 2,8 milioni a 72 milioni di contatti, riesce a catturare l‟attenzione 
dei visitatori per 20 minuti, un tempo decisamente allettante per gli 
inserzionisti pubblicitari12.  
 
       Ed è stata proprio la vistosa crescita degli investimenti pubblicitari (pari 
ad un 30-40% l‟anno) a far rompere ogni indugio a editori e direttori dei 
giornali, che ricorsero alla conversione online dei loro rassicuranti e tradizionali 
giornali di carta già dagli anni Novanta con siti ancora piuttosto rudimentali, 
per poi passare a siti sempre più avanzati dal punto di vista tecnologico e 
accattivanti nella grafica.  E‟ il caso de “El Paìs” in Spagna, di “The Guardian” 
in Gran Bretagna, di “Le Monde” in Francia, di “Repubblica”, “Corriere”, 
“Stampa” e “Sole 24ore” in Italia, solo per citare gli esempi principali. Non 
                                                 
11
 Ivi, p.62 
12
 Ivi, p.63-64 
Il caso 
Dagospia 
e lo 
scoop 
Lewinsky 
lanciato 
da Matt 
Drudge 
Il fenomeno 
Myspace, 
Youtube e 
Facebook 
Boom di 
investimenti 
pubblicitari 
sul web. I 
primi 
quotidiani 
online