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CAPITOLO UNO
LA PSICONCOLOGIA
1.1 Definizione e sviluppo storico.
Nonostante i significativi e numerosi progressi scientifici in ambito
oncologico, il cancro rimane, tutt’ora, una delle patologie più diffuse e tra le
prime cause di morte nel mondo, Italia compresa (Registro Tumori, 2002).
La patologia neoplastica è strettamente connessa ad una molteplicità di
variabili, anche psicologiche ampiamente studiate dalla ricerca scientifica (Di
Leo, 1992; Mussa 2007).
La scienza che, in maniera specifica, si occupa delle implicazioni psicosociali
dei tumori è la psiconcologia. Questa si colloca come collegamento tra le
discipline oncologiche e quelle psicologiche e psichiatriche, concentrandosi su
due dimensioni specifiche legate al cancro (Morasso et al., 1998):
- L’impatto psicologico e sociale della malattia sul paziente, la sua
famiglia e l’equipe curante (infermieri, oncologi, psicologi, volontari, ecc…)
- Il ruolo dei fattori psicologici e comportamentali della prevenzione,
nella diagnosi e nella cura dei tumori (Holland et al., 1990)
La psiconcologia non è quindi una disciplina medica o psicologica, ma una
“scienza” che si occupa dell’uomo malato nella sua complessità di aspetti
biologici, mentali e relazionali. L’integrazione sta nel porre le proprie conoscenze
psicologiche, mediche, farmacologiche e psicoterapeutiche sullo stesso tavolo di
discussione, senza false priorità legate alle culture personali o agli arroccamenti
ideologici: lo scopo è curare, al meglio, un paziente che sempre, pur talora
negandolo o mascherandolo, è sofferente nel corpo, nella mente e nello spirito
(Torta e Mussa, 2007).
1.1.1 La nascita della psiconcologia
Già agli inizi del Novecento, si è incominciato a considerare la necessità di
una visione unitaria del paziente affetto da patologia organica e ad indagare gli
aspetti psicologici e i vari correlati, comportando perciò una collaborazione tra
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disciplina medica e psichiatrica. Negli Stati Uniti, intorno agli anni Venti nasce
una nuova branca di Psichiatria di Consulenza, rivolta a malati affetti da patologie
somatiche, dove venivano valutati e trattati problemi psicologici. L’oncologia, la
cardiologia, l’ostetricia e la dermatologia furono discipline particolarmente
interessate a tale fenomeno (Rigatelli et al., 1991).
Nell’ambito dei tumori però, a partire dall’esperienza sul campo delle figure
che operavano in campo psicologico e psichiatrico, si è sentita in misura sempre
maggiore l’esigenza della nascita di un settore applicativo e di una ricerca
specifica; ciò a contribuito a generare le basi per la creazione di unità specifica
oncologica. I primi centri specializzati di assistenza ai malati di cancro sono
realizzati in Inghilterra e negli Stati Uniti (Holland et al., 1989). Nel 1950, lo
psichiatra Arthur Sutherland, a New York inaugura il primo istituto specifico; a
Londra, nel 1967, Cicely Saunders aprirà al St Christopher Hospice, una struttura
con uno specifico trattamento del dolore e dell’abbandono del paziente nella fase
terminale. Tra gli anni Settanta e Ottanta, si assiste ad un notevole aumento e
sviluppo di centri di ricerca e di consulenza psicologica clinica rivolta ai pazienti
oncologici, ciò avviene principalmente per due motivi (Biondi et al., 1995):
- un maggiore interesse ai fenomeni della morte e del morire.
- un’attenzione, sempre maggiore da parte degl’oncologi, sul tema della
qualità della vita.
Si organizzeranno molteplici conferenze, la prima nel 1980, pianificata
dall’American Cancer Society, riguardò gli aspetti psicosociali della patologia
neoplastica, dove verrà dichiarata in modo definitivo e chiaro la dignità scientifica
dell’integrazione tra scienze psichiatriche e oncologiche.
1.1.2. Psiconcologia come disciplina scientifica
Negli anni Novanta la psiconcologia verrà definita come disciplina
scientifica, con specifici obiettivi di ricerca e applicazione clinica, delineabile
all’interno di quattro macro aree:
- Prevenzione, diagnosi precoce, compliance: riguarda l’area che studia
le variabili che ostacolano la prevenzione e la diagnosi precoce (per esempio i
meccanismi di difesa come la negazione) e influiscono o determinano
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l’esposizione ai fattori di rischi per i tumori (per esempio relativamente ai fattori
che mantengono nell’individuo l’abuso di tabacco), studiando le modalità per
rendere migliori le campagne educative anti-cancro. Considera inoltre
l’importanza dei fattori psicologici sopracitati nella complicance (per esempio
quale sono i fattori che influenzano il continuare i controlli di follow-up).
- Valutazione della morbilità psichiatrica in oncologia e la rispettiva
prevenzione: riguarda lo studio dei sintomi di sofferenza presenti nei pazienti con
malattia tumorale, esaminando le variabili ad essa connessa (per esempio la
personalità, la struttura familiare, il supporto familiare). Vengono inoltre
approfonditi i metodi principali per riconoscere i problemi dei pazienti (per
esempio screening psicologico) e per il loro trattamento (per esempio intervento
psicologico e/o psicofarmacologico).
- Psicobiologia e psiconeuroimmunologia: riguarda lo studio atto a
valutare le conseguenze delle variabili psicosociali (per esempio il supporto
familiare) a livello immunitario, neuroendocrino.
- Qualità della vita del paziente e qualità degli interventi psicologici: tale
variabile è fondamentale da misurare e da tenere in considerazioni sia nell’ ambito
di ricerca, sia in ambito clinico.
- Formazione: risulta fortemente necessaria visto la specifica disciplina;
all’interno vi si collocano training organizzati dalle Società Nazionali e
Internazionali, con durata più o meno variabile. La formazione è rivolta a
specialisti in psicologia o psichiatria, ma anche alle figure in stretto contatto con
il paziente, quali infermieri, oncologi, volontari, ecc…
1.1.3 La psiconcologia nel mondo e in Italia
Gli Stati Uniti, già citati, presentano nella tradizione psiconcologica alcuni
centri pionieri del settore, primo tra tutti il Memorial Sloan-Kettering Cancer
Center di New York. La fondazione dell’American Society of Psychiatric
Oncology integra attività clinico assistenziali, promuovendo regolarmente corsi di
formazione specialistica e aggiornamento in psiconcologia.
L’Europa, nonostante il più lento sviluppo e la minore diffusione di centri
sviluppati, presenta nei singoli paesi una sempre maggior diffusione di servizi; in
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Gran Bretagna, nel 1983, è stato costruito il British Psychosocial Oncology
(BPOG); in Olanda, si è costituito all’ interno della European Organization for
Research in the Treatment of Cancer, uno specifico gruppo di lavoro (Quality of
Life Clinical and Research Committe); in Francia è attiva da tempo
l’Associazione Psicologie et Cancer;
In Italia, l’interesse è notevolmente aumentato intorno alla fine degli anni
Ottanta, concretizzandosi nell’organizzazione di meeting in campo
psiconcologico, in congressi, in corsi di aggiornamento, svolti in varie città (ad
esempio a Padova nel 1987, a Bari nel 1988, a Roma nel 1992, a Torino nel 1994)
(Fiorentino et al., 2007). L’interesse per la ricerca ha contribuito allo sviluppo di
specifiche collaborazioni tra servizi oncologici e psichiatrici, che hanno portato
all’ aumento di centri oncologici con determinati servizi di supporto e si sostegno.
Il primo, nel 1998 è l’istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova con
un Servizio di Psicologia, orientato in modo specifico all’ assistenza del malato e
dei suoi familiari (Grassi, 1999).
Tali esperienze hanno portato alla nascita della fondazione della Società
Italiana di Psicologia Oncologica (SIPO) creata nel 1985. Nel 1998 sono state
pubblicate le linee-guida "Standard, opzioni e raccomandazioni per una buona
pratica in psiconcologia" i cui contenuti rappresentano il risultato del percorso
avviato in questi anni ed è al tempo stesso il punto di partenza per una
ridiscussione con altre Società scientifiche che convogliano le risorse e le
competenze degli specialisti operanti nel campo della ricerca e della formazione,
sulla morbilità psicosociale secondaria alle patologie somatiche o dell’ assistenza
ai pazienti affetti da neoplasie in fase avanzata ed a i loro familiari (Morasso et
al., 2002).
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Tab 1.1- Aree di intervento della psiconcologia
secondo le linee guida della SIPO (1998).
Prevenzione primaria Interventi contro l’abitudine al fumo
Campagne per una corretta alimentazione
Interventi informativi sulla popolazione sugli
agenti cancerogeni
Prevenzione clinica e diagnosi
precoce
Programmi di screening sul cancro
Info.educazionale ed educ.
Sanitaria
Informazioni al pubblico e gruppi scelti
Educazione sanitaria e cancro
Formazione del personale
sanitario e volontari
Organizzazione di corsi di formazione
Conduzione di gruppi etero centrati
Attività di ricerca Sviluppo di progetti di ricerca sulla qualità
della vita e impatto psicosociale dei trattamenti
antitumorali e palliativi
Sviluppo di progetti di ricerca sullo stress
lavorativo
Valutazione dei modelli di intervento
psicosociale
Attività clinica Colloqui individuali e di gruppo per i pazienti
Colloqui individuali e di gruppo per i famigliari
Psicodiagnostica (valutazione delle reazioni
psicopatologiche)
Terapia di supporto e psicoterapia per i pazienti
Trattamento psicofarmacologico dei pazienti
Conduzione di gruppi di self-help Conduzione
di gruppi eterocentrati per il personale
Attività nelle cure palliative Formazione e supervisione dell’équipe curante
e del volontariato
Supporto psicologico al paziente e alla famiglia
Supporto psicologico all’elaborazione del lutto
dei familiari
Controllo efficacia interventi Valutazione/controllo di qualità dell’assistenza
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1.2 Gli effetti della malattia: il paziente
La persona affetta da patologia neoplastica, deve confrontarsi con il cancro e
gli inevitabili effetti traumatici e stressanti che esso comporta. Indistintamente dal
contesto culturale, tale malattia è considerata probabilmente la più temuta in
assoluto; l’equazione nella mente del paziente è spesso “cancro = morte ”.
La specificità della malattia tumorale è che essa interferisce con tutte le
dimensioni su cui si fonda la specificità dell’individuo: la dimensione fisica, la
dimensione psicologica, la dimensione spirituale ed esistenziale e la dimensione
relazionale. La malattia blocca il percorso di vita della persona e altera tutte le
dimensione su cui si basa l’esistenza umana (Crocchi, 1998).
Costantini et al., (2003) parlano di modificazioni a multilivelli, a livello fisico
è necessario considerare che l’identità personale si fonda in primis sul corpo, il
cancro mette subito in evidenza la limitatezza della vita, le conseguenze della
malattia e delle terapie, la perdita dei capelli, la nausea, le mutilazioni fisiche.
Tutti questi cambiamenti comportano profonde modificazioni alla propria vita
quotidiana, all’alimentazione, nella sessualità, al lavoro e nel tempo libero.
Effetti considerevoli si denotano anche a livello psicologico, quali la perdita
di stabilità e di sicurezza, le paure legate sofferenze, alla morte e le paure con cui
il malato deve confrontarsi ogni giorno.
La dimensione spirituale riguarda invece l’essenza di ciascuno di noi, e
considera non solo la religione e la fede, ma anche il senso stesso che ognuno di
noi da all’esistenza, alla vita, al tempo e al destino.
Infine il livello relazionale che chiama in causa, il contesto comunicativo e
relazionale; il senso di appartenenza a sistemi micro sociali (quali la famiglia, gli
amici) e macro sociali (per esempio il lavoro). Per comprendere il passaggio dalla
salute alla malattia è necessario leggere “quel paziente con la sua storia di salute e
di malattia”, cioè in senso longitudinale (Grassi et al.,2003).
È possibile delineare gli effetti della malattia differenziando una fase di
allarme pre-diagnostico, corrispondente alla comparsa dei sintomi e del sospetto
della malattia, dalla fase acuta, che riguarda la diagnosi e la crisi ad essa connessa,
alla fase elaborativa.
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1.2.1 La pre-diagnosi: le reazioni emotive
La fase pre-diagnostica è un momento fondamentale, rappresentato da
emozioni profonde e drammatiche. La presenza di sintomi, in particolari zone o
organi noti per il rischio di neoplasia (per esempio i noduli al seno) possono
comportare reazioni molto differenti a seconda del soggetto. Tale variabilità
dipende molto dal momento di vita in cui compaiono i sintomi, dalla personalità,
dallo stile della persona nei confronti della salute (il cosiddetto health-belief
system).
La reazione più consueta e comprensibile è quella di allarme, contraddistinta
da un notevole senso di incertezza e di preoccupazione nei confronti del sintomo
(“che cosa potrebbe essere?”). Spesso si presentano anche reazione di ansia,
talvolta controllata dalla razionalità, oppure possano sopraggiungere una risposta
pessimistica, in cui invece l’attenzione è costantemente rivolta ai sintomi, con la
sicurezza intima di avere il cancro. In alcuni casi l’ansia può generare meccanismi
di minimizzazione o negazione dei sintomi, ciò può comportare considerevoli
effetti negativi, qualora fosse presente la patologia neoplastica. Oppure possono
presentarsi intensi sentimenti di vergogna o modalità auto sacrificali.
Un ruolo fondamentale in tale fase è assunto dal medico di medicina generale.
1.2.2 Reazioni alla diagnosi
Nella vita quotidiana tendiamo a non pensare alla morte, a negarla, a credere
che possa capitare agli altri, non a noi. Parafrasando le considerazioni di Freud
(1915) sul rapporto tra la guerra e la morte (“la guerra spazza via il modo
convenzionale di pensare alla morte”) potremmo dire che lo sgomento di fronte ad
una diagnosi di cancro deriva dal fatto che essa, come una guerra, spazza via il
modo convenzionale di pensare alla morte. Non si può più negarla e si è costretti a
considerarne l’eventualità (Biondi et al., 1995).
La diagnosi della malattia travolge in maniera sconvolgente la persona che ne
è affetta. Vengono ad evocarsi fantasie, o meglio una precisa mitologia, che fa
pensare e vivere un significato distruttivo che difficilmente la realtà riuscirà a
smentire. Queste fantasie fioriscono per il cancro che si considera, di solito, assai
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più di una malattia mortale, nella credenza comune, infatti, il cancro è la morte
(Bressi, 1993).
Il pattern più tipico di risposta di fronte a tali eventi consiste in una serie di
reazioni emozionali e comportamenti, che sembrano presentarsi in modo molto
simile nei vari soggetti.
La prima, immediatamente successiva alla diagnosi è la fase di shock, che
rappresenta una vera e propria frattura del senso di continuità del sé, caratterizzata
da profonda angoscia e da sentimenti di incredulità. Il paziente, può reagire a tale
realtà troppo dolorosa, mettendo in atto meccanismi di difesa, per esempio la
negazione che, in qualche modo gli permettono di accettare, a poco a poco, la dura
realtà. È particolarmente importante in questa fase rispettare i tempi del paziente,
non forzarlo ad affrontare ed esprimere i propri stati d’animo (Biondi et al., 1995).
La fase di transazione (o di reazione) è caratterizzata dall’accettazione
inevitabile della realtà. Le procedure mediche, gli interventi e i relativi
approfondimenti medici possono suscitare nell’individuo sentimenti di rabbia,
disperazione, amarezza. Il soggetto per gestire questa vera e propria tempesta di
emozioni mette in atto meccanismi di difesa, preposti, in tale situazione specifica,
alla gestione della realtà.
Il paziente spesso reagisce a una situazione difficile e dolorosa da accettare,
utilizzando meccanismi di negazione, che gli permettono di reinterpretare una
realtà dolorosa eliminando, almeno parzialmente, le potenziali minacce alla
propria integrità; la rimozione, nei confronti del tipo di patologia;
l’intellettualizzazione, riferendosi alla malattia come se non coinvolgesse il
proprio corpo; la formazione reattiva, mediante la sostituzione con idee piacevoli
del senso di angoscia provocato dalla malattia (Torta e Mussa, 2007).
La fase successiva è definita, fase del riordinamento, a seguito della ormai
convivenza con la malattia e le sue conseguenze. Si assiste alla ricerca di nuovi
significati da attribuire alla malattia. La ricerca e l’esperienza clinica hanno
rilevato che molto dipende dagl’atteggiamenti, dallo stile cognitivo e
comportamentale nell’affrontare la malattia. Nella fattispecie, la ricerca scientifica
ha introdotto il concetto di coping.
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Il termine coping, dall’inglese to cope che significa “far fronte, tener testa,
lottare con successo”, indica le strategie cognitive, comportamentali ed emotive
messe in atto da un individuo per affrontare e gestire una situazione stressante
come una malattia; rappresenta pertanto la capacità i fronteggiare i problemi e le
loro conseguenze emozionali (Stone e Neale, 1984).
Tale concetto è fondamentale in ambito oncologico in quanto rappresenta uno
dei fattori determinanti nel modulare le differenze individuali nei confronti della
malattia, della qualità della vita, nella risposta ai trattamenti e probabilmente
anche il decorso biologico della stessa malattia. Il coping è un processo che può
essere distinto in due fasi: la valutativa, focalizzata sui processi cognitivi riguardo
i significati della malattia, e la fase esecutiva, focalizzata invece su comportamenti
operativi adottati e manifestati dal paziente (Grassi et al.,2003).
Le differenti modalità comportamentali nei confronti di eventi stressanti,
caratteristiche di ciascun individuo, sono definite strategie di coping. Questo
concetto risulta di fondamentale importanza in campo oncologico, poiché
rappresenta un importante parametro in grado di influenzare notevolmente le
differenti modalità di reazione psicologica e di adattamento psicosociale alla
malattia, le possibili complicanze psicopatologiche, la qualità della vita dopo la
diagnosi di neoplasia, la complicance ai trattamenti antineoplastici e,
probabilmente, anche il decorso biologico della malattia (Parle e Maguire, 1995;
Grassi et al., 2003).
Gli stili di coping adottati dal paziente per affrontare la fase acuta e le
conseguenze della malattia dipendono da molteplici fattori che ci permettono di
predire il probabile adattamento o il probabile rischio di disadattamento. Le cause
da considerare fanno riferimento a fattori psicologici, relativi alla propria
personalità e alla propria storia di vita; fattori spirituali, che riguardano i
significati che ognuno di noi da alla propria esistenza; fattori sociali, quali il ruolo
rivestito all’ interno delle proprie relazioni nel contesto interpersonale; ed infine i
fattori medici, è necessario considerare il tipo di tipologia tumorale, il suo
decorso, i sintomi e le sue conseguenze (Biondi et al., 1995).
Weis e Worden (1984) hanno identificato quindici differenti stili di coping,
corrispondenti ad altrettanti meccanismi di difesa.
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1. Ricercare un’informazione migliore
(razionalizzazione);
2. Cercare di condividere e parlare con gli altri
delle proprie preoccupazioni (condividere preoccupazioni);
3. Sottovalutare la gravità della diagnosi
(minimizzazione);
4. Cercare di non pensarci (repressione);
5. Impegnarsi in altre attività per distrarsi
(spostamento);
6. Confrontarsi con il problema (conforto);
7. Accettare la diagnosi, ma trovarne aspetti
favorevoli (ridefinizione);
8. Fare qualcos’altro (acting-out);
9. Subire passivamente l’inevitabile (fatalismo,
rassegnazione);
10. Valutarne eventuali alternative (riflessione
razionale);
11. Cercare di ridurre la tensione, ad esempio
bevendo o attraverso eccessi alimentari (riduzione della
tensione);
12. Ritirarsi dalle situazioni sociali e isolarsi
(riduzione degli stimoli);
13. Prendersela con qualcuno o con qualcosa
(proiettare);
14. Seguire le indicazioni di una persona cui potersi
fronteggiare (complicance);
15. Prendersela con sè stessi (internalizzare).
Tab 1.2 Differenti stili di affrontare la diagnosi di
cancro (Weisman AD, Worden W., 1984).
Diversi studi (Matsushita et al., 2005; Roesch et al., 2005) hanno dimostrato
che un miglior adattamento alla malattia è favorito nel caso in cui vengono messe
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in atto strategie di coping aventi modalità più attiva e differenziata di confronto
con le problematiche. L’adattamento in tal caso iene a delinearsi come un
momento di crescita personale.
Contrariamente, una modalità disadattativa di coping nei confronti della
patologia neoplastica comporta, un considerevole carico in termini psicosociali,
paragonabile a quello determinato da svariati fattori stressanti cronici, con
conseguente ripercussioni negative sulla funzione immunitaria, in particolare
sull’immunità cellulo-mediata (Neises et al, 1995).
1.2.3. Le fasi di evoluzione della malattia
L’evoluzione della malattia comporta risposte psicologiche indubbiamente
diverse. L’impatto psicologico interpersonale del soggetto in una situazione di
guarigione è decisamente differente rispetto alla risposta psicologica in caso di
recidiva o aggravamento.
Sono sempre maggiori le situazioni in cui, grazie alla terapie, il soggetto si
ristabilisce e in tal caso si parla di long-survivors (Little et al., 2002). Nonostante
la guarigione, le dimensione relative all’evento cancro possono essere sempre
presenti, le visite di controllo, le modificazioni agli stili di vita, l’assunzione di
terapie e gli interventi chirurgici sono infatti segnali quotidiani che qualcosa non
solo c’è stato ma potrebbe tornare.
Il “ritorno alla vita” è notevolmente influenzato dallo stile di coping. In
alcune situazioni il soggetto mantiene atteggiamenti di preoccupazione per la
propria salute, accompagnati da sentimenti di incertezza, di perdita per come si
era, di difficoltà d’adattamento lavorativo. In altri casi si presentano modalità
d’evitamento di ciò che avvenuto (“è solo un brutto ricordo al quale non voglio
più pensare”) oppure la malattia viene a delinearsi come un vero e proprio
momento di crescita personale che consente di vedere la vita con una nuova
prospettiva (“grazie alla malattia ho scoperto l’ importanza della vita”) (Biondi et
al.,2003).
La recidiva o la ricorrenza della malattia è un evento gravemente traumatico
per il paziente; la sofferenza, la paura del diffondersi della malattia e la triste
realtà del ripresentarsi della malattia rappresenta un notevole trauma, che spazza
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via la speranza e fa ritornare la possibilità della morte. Le reazioni psicologiche in
tal situazione sono molto simili alla fase della diagnosi. Si ripresentano infatti
sentimenti di negazione e di incredulità (“dev’esserci un errore”), sentimenti di
disperazione (“non c’ è mai fine a questo calvario?”), di inutilità e desiderio di
lasciar perdere tutto (“non farò nessuna cura stavolta”), di rassegnazione (“lo
sapevo era troppo bello per essere vero”) (Grassi et al.,2003).
La recidiva della malattia e la relativa diffusione del tumore possono arrivare
a porre di fronte alla triste realtà, la fine della vita. Questa fase della malattia è per
molti la più difficile da affrontare, per il paziente, la sua famiglia e anche per il
medico e l’intera equipe (De Santi et al., 1999). La morte risulta, nella società
moderna ancora un tabù; i progressi stessi della medicina hanno contribuito a
rendere la morte, sia sul piano logico sia psicologico, un qualcosa da combattere,
come la malattia. La morte inoltre, può rappresentare per alcuni la perdita di
alcuni valori fondamentali dell’esistere, compresa la spiritualità e il significato
dell’ esistenza, Jaspers, filosofo e psichiatra scriverà nella sua autobiografia:
“difficile è il compito di reagire alla paralisi derivante dalla condizione di
malato, di considerare la malattia nella propria vita, di familiarizzare con
essa per poterla accettare”(Jasper K, 1967).
Le angosce e le paure provate a seguito della diagnosi, si ripropongono in
questa fase, in maniera estremamente intensa, in quanto accompagnate anche dalla
consapevolezza di non guarigione.
Elizabeth Kübler-Ross (1973) ha provato ha delineare le fasi attraverso le
quali l’individuo si avvicina alla morte. Nel processo di elaborazione
dell’incombente morte si attivano alcune delle fasi precedentemente descritte, la
fase di shock e negazione (“non può essere vero”), rabbia impotente (“non mi
hanno curato come avrebbero dovuto fare”), trattativa e patteggiamento (“se anche
questa volta ce la faccio, cambierò vita”), depressione (reattiva, in preparazione
della propria morte) e infine rassegnazione e accettazione dell’inevitabile.
Sul piano concettuale tale modello risulta particolarmente importante anche
se, negli ultimi anni, alcuni autori (Buckman, 1998) hanno contestato tale
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suddivisione così rigida, prediligendo una lettura che valuta l’intensità delle
emozioni che caratterizzano il processo del morire, in quanto le persone vivono
emozioni diverse e difficilmente le vivono in serie così rigidamente.
In questa fase è necessario una riformulazione della speranza, ma non in
termini di cura e di guarigione. La speranza è influenzata da eventi della vita
concreta, per esempio il sentirsi amato, il sentire di non essere solo nel percorso
della malattia e da elementi interiori e spirituali (Morasso et al., 1999). La
spiritualità diviene in questa fase un elemento fondamentale, sia in termini di fede,
di credo religioso ma anche in senso esistenziale. È stato recentemente affermato
“il medico il cui impegno primo è rivolto a garantire il proprio paziente, deve
considerare come supportare la sua spiritualità, se questi lo ritiene rilevante; la
spiritualità rappresenta infatti una delle espressioni dell’autonomia del paziente”
(Post et al., 2000)
Assistere il paziente terminale è un compito complicato, ricco di significati e
umanamente difficile ma fondamentale. Quest’ultimo aspetto risulta basilare. Il
Piano Sanitario Nazionale prevede infatti l’assistenza globale ai pazienti con
tumore in fase avanzata e allo sviluppo di strutture di medicina palliativa.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), definisce le cure palliative:
“la cura (care) globale, attiva, di quei pazienti la cui malattia non sia responsiva ai
trattamenti guaritivi (cure). Lo scopo delle cure palliative è perciò “prendersi
cura” del paziente e delle famiglie sostenendoli in questa fase finale della malattia,
in tutti suoi aspetti: il controllo dei dolori e dei sintomi causati dalla malattia, le
problematiche psicologiche, sociali e spirituali del paziente. La medicina
palliativa viene a delinearsi come una disciplina integrata con molteplici
competenze, la pratica oncologica medica (l’utilizzo di terapie antiblastiche a fine
palliativo), la pratica radioterapeutica e anastesiologica (trattamenti di sindromi
dolorose complesse), l’abilità infermieristica e naturalmente l’abilità psicologica e
psichiatrica in relazione ai bisogni (Amadori et al., 2001).
Lo scopo di tali interventi è garantire l’assistenza alla persona nella fase
avanzata e terminale della propria vita, considerando ciò che la legge e il codice
deontologico sanciscono riguardo gli interventi in questa fase, soprattutto per
quanto riguarda le decisione fine vita.
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Il codice deontologico FNOM (Federazione Nazionale degli Ordini dei
Medici), parte III, rapporti con il cittadino, capitolo V, assistenza ai malati,
dichiara che, il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né
favorire trattamenti diretti a provocarne la morte (articolo 36, relativo
all’eutanasia). In caso di malattia a prognosi infausta o pervenuta alla fase
terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia
atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a
tutela, per quanto possibile della qualità della vita. In caso di compromissione
dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale
finché ritenuta ragionevolmente utile. Il sostegno vitale dovrà essere mantenuto
sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo (articolo 37, assistenza al malato inguaribile).
“La morte” nelle parole di Sartre “è un termine, ed ogni termine è un Giano
bifronte… non diversamente l’accordo finale di una melodia è da un lato tutto
proteso verso il silenzio, cioè verso il nulla di suono che seguirà la melodia; e
sotto quest’aspetto risulta costituito di silenzio, perché il silenzio che seguirà è già
presente nell’accordo conclusivo come suo significato. Ma dall’altro, l’accordo
aderisce a questo plenum d’essere che è la melodia come tale: senza di lui la
melodia resterebbe a mezz’aria e questa indecisione finale risalirebbe, a rovescio,
la corrente delle note conferendo ad ognuna di esse carattere di incompiutezza…
la morte diviene il senso della vita come l’accordo conclusivo è il senso della
melodia” (Sartre, 1943).
1.3 La famiglia e il cancro
La diagnosi di tumore sconvolge non solo il paziente, ma l’intera famiglia che
viene inevitabilmente investita da eventi legati alla malattia, con conseguenze
rilevanti sull’ equilibrio della struttura familiare. Il cancro viene a delinearsi oltre
che come malattia biologica e patologica dell’individuo, come evento traumatico
familiare, una vera e propria malattia familiare che produce cambiamenti nel suo
funzionamento, nella sua struttura e ne minaccia la sua stessa unità (Lederberg,
1998; Krisjanson, 1997; Baider, 2000).
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Il paziente non può essere aiutato in modo realmente significativo senza
includere la famiglia. Il ruolo investito dai suoi membri durante il tempo della
malattia e le loro reazioni sono in grado di influenzare sostanzialmente
l’atteggiamento che il paziente assumerà di fronte a tale esperienza (Bressi, 1993).
L’incontro con l’esperienza di malattia oncologica di uno dei membri si
inserisce nella trama relazionale propria di ogni singolo nucleo familiare, in
particolare nell’assetto contestuale di un certo periodo (Massaglia et al., 1999).
La malattia rappresenta un potente agente stressante in quanto obbliga al
cambiamento e al riadattamento dell’ individuo e della famiglia. I cambiamenti
possono essere molteplici, dalla perdita del paziente del proprio ruolo
“indipendente” al ruolo di “dipendente”, alle modifiche dei proprio ritmi di vita
quotidiana, lavoro compreso, la presa di responsabilità dei familiari nei confronti
del malato e molte altre.
1.3.1 Il processo di reazione dei familiari alla diagnosi
La diagnosi rappresenta non solo nel malato ma anche nella sua famiglia, un
evento fortemente traumatico, caratterizzato da reazioni psicologiche e
fisiologiche simili a quelle attraversate dal paziente stesso.
Una prima fase di shock della famiglia è caratterizzata da angoscia, rabbia,
stupore, seguita da una fase di negazione/rifiuto di ciò che sta accadendo,
sovrapposta a momenti di disperazione. Successivamente si presentano risposte di
elaborazione, connesse agli stili difensivi adottati, per esempio, nel caso di
negazione della malattia e dei suoi effetti, la famiglia sarà portata ad occultare la
verità, a modellarla a seconda della tolleranza. Segue infine, una fase di
accettazione, momento in cui le difficoltà collegate alla malattia vengano
affrontate e gradualmente superate permettendo un nuovo equilibrio a seguito del
riadattamento delle modalità comunicative e delle dinamiche intra-familiari
(Invernizzi, 1992).
È necessario considerare che ogni sistema familiare è composto da vari
membri, ognuno con la propria individualità, l’impatto della malattia sulla coppia
ha indubbiamente peculiarità diverse rispetto all’impatto sui figli.