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Il problema dell’ingresso e soggiorno degli stranieri viene considerato
semplicemente in termini di tutela dell’ordine pubblico, rispecchiando l’ideologia
autoritaria del regime. Nel dopoguerra la citata normativa risulta sostanzialmente
inapplicata.
Con il passare degli anni, la massiccia presenza di stranieri pone sempre più in
evidenza le carenze delle disposizioni regolatrici della materia, richiamando
l’attenzione del legislatore sulla necessità di colmare tali lacune normative. Al
riguardo, fin dal 1977 la Corte costituzionale afferma che tale problematica, “per la
delicatezza degli interessi che coinvolge, merita un riordinamento da parte del
legislatore, che tenga conto delle esigenze di consacrare in compiute ed organiche
norme le modalità e le garanzie delle fondamentali libertà umane collegate con
l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri in Italia”. Alla carenza legislativa
suppliscono, inizialmente, varie circolari ministeriali, che pero pongono delicati
problemi di costituzionalità, considerato che l’articolo 10, comma 2 della
Costituzione, stabilisce esplicitamente che la materia in esame sia “regolata per
legge, in conformità delle norme e dei trattati internazionali”.
Agli inizi degli anni ottanta, in attesa della prima legge sugli stranieri (che
sembra imminente e che invece arriverà solo alla fine del 1986), il ministro del
lavoro blocca le nuove assunzioni di stranieri e impartisce disposizioni per attuare la
prima regolarizzazione. Queste disposizioni rimangono in vigore fino
all’approvazione della legge n. 943/1986 e, tuttavia, conseguono effetti limitati.
La legge n. 943/1986, la prima sugli stranieri in Italia, è applicativa della
normativa internazionale convenzionale in materia di lavoro contenuta nella
Convenzione OIL n. 143/1975. Tale legge dà finalmente alla materia una disciplina
complessiva, sottraendola alla totale discrezionalità amministrativa, e tenta di creare
un corpus normativo capace di garantire percorsi di inserimento regolari all’interno
della società a favore degli immigrati. L’approvazione della legge, di cui si inizia a
parlare nel 1981 (anno di ratifica della Convenzione OIL), richiede un iter molto
lungo, favorendo così numerosi ingressi irregolari.
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Nel primo periodo di applicazione l’interesse maggiore si accentra pertanto
sulle disposizioni concernenti la regolarizzazione, la quale nonostante conosca
successive proroghe ottiene scarsi risultati.
A poco più di un anno di distanza dalla scadenza dell’ultima proroga della
sanatoria prevista dalla legge n. 943/1986 viene approvata la legge n. 39/1990, nota
come “legge Martelli”. Con questo secondo intervento legislativo si cerca di dare alla
normativa vigente una veste più stabile ed efficace, intervenendo laddove si sono
manifestate più vistosamente lacune e carenze, e prevede una nuova sanatoria. Le
iniziative tese a modificare tale legge sono varie, di diverso contenuto e successo.
La constatazione dei limiti evidenti che incontra l’applicazione della legge
Martelli fa si che il processo normativo di revisione di tale legge porti all’adozione
del c.d. “decreto Dini”. La necessità di conciliare le posizioni antitetiche di uno
schieramento politico molto ampio si traduce in una serie di contraddizioni ed
incongruenze molto evidenti nei contenuti delle disposizioni. Detto decreto, dopo la
sua scadenza, viene più volte reiterato con successivi decreti che sono oggetto di
numerose ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale, la quale si esprime con la
sentenza n. 360/1996 sul ricorso frequente alla decretazione d’urgenza, spesso
reiterata e non convertita, quale strumento di regolazione della materia, dichiarando
l’illegittimità di tale prassi.
Il quadro normativo italiano nelle materie connesse all’immigrazione si delinea
pertanto nel corso degli anni con una successione di interventi, prima amministrativi
poi legislativi, che cercano di adeguare l’ordinamento giuridico ai mutamenti che
intervengono soprattutto a partire dagli anni settanta, con il passaggio dell’Italia da
Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. Tuttavia, soltanto con molta
gradualità l’assetto normativo riesce a superare la logica dell’emergenza, quando, nel
1998, il Parlamento approva la c.d. “legge Turco-Napolitano”, per affrontare le
diverse questioni poste dall’immigrazione con un’impostazione organica che
consenta di superare i limiti dei provvedimenti precedenti.
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Le linee generali della politica migratoria vengono successivamente
consolidate nel “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, sempre del 1998.
Questo decreto, che detta i principi generali della materia e viene considerato oggi il
punto di partenza della legislazione in materia, resta in vigore fino all’approvazione
della c.d. “legge Bossi-Fini” nel 2002. Tale legge, di modifica del testo unico,
apporta notevoli innovazioni caratterizzate da un generale inasprimento delle
disposizioni riguardanti il fenomeno migratorio.
Attualmente la Corte costituzionale è nuovamente intervenuta in tale materia
(con le sentenze 222 e 223 del luglio 2004), abbattendo due pilastri della Bossi-Fini e
costringendo il legislatore ad intervenire (con il decreto legge 14 settembre 2004, n.
241) per adeguare l’ordinamento giuridico e scongiurare il pericolo di vuoto di
normazione.
Nel presente lavoro si è cercato di analizzare tutti questi passaggi
precedentemente enunciati – soffermandosi chiaramente sui più recenti – operando
una ricostruzione storico-legislativa della disciplina dell’immigrazione in Italia, che
tenesse però anche conto del contesto europeo nel quale il nostro Paese si trova e con
il quale si deve pertanto confrontare.
La reale competenza dell’Unione europea in tale materia risale a cinque anni
fa, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam. Con tale trattato,
tramite la c.d. “passerella comunitaria”, sono state comunitarizzate una serie di
azioni nel campo della giustizia e affari interni – tra cui appunto le disposizioni in
materia di immigrazione legale e illegale – che prima erano oggetto di cooperazione
a livello intergovernativo, il c.d. “terzo pilastro” su cui poggiava l’Unione europea
creata con il Trattato di Maastricht.
La politica comunitaria sull’immigrazione è cambiata nel tempo, mostrando
progressivamente una maggiore apertura verso gli immigrati ed un approccio più
globale ai problemi dei flussi dei migranti.
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In passato, le iniziative degli Stati membri, a livello intergovernativo o
comunitario, si sono concentrate più nel settore delle frontiere esterne, dei visti e di
certe sanzioni per reati connessi all’immigrazione illegale. In tempi più recenti,
invece, si sono privilegiati i provvedimenti connessi alla cooperazione
amministrativa ed operativa fra gli Stati membri, ed alla cooperazione economica
con gli Stati terzi. Gli strumenti comunitari, fondati all’inizio soprattutto sulla
repressione ed il contrasto, stanno cedendo spazio anche a strumenti di prevenzione e
di collaborazione.
Il problema giuridico principale sembra costituito dal fatto che la legislazione
comunitaria in tale materia risulta un sistema ibrido, frammentario e piuttosto
disorganizzato. Le basi giuridiche sono cambiate nel tempo, in rapporto
all’evoluzione continua dell’ordinamento comunitario ed alle modifiche dei trattati
istitutivi; inoltre non si dimentichi che, in materia di immigrazione, le competenze
comunitarie coesistono con quelle degli Stati membri.
Il campo di azione della Comunità risulta essere abbastanza esteso ma soggetto
ad una limitazione alquanto pesante, costituita dalla necessità di ottenere l’unanimità
in Consiglio. Gli Stati membri hanno ritenuto prematuro cedere alla Comunità – con
la maggioranza qualificata – le competenze e, in sostanza il controllo, su un settore
politicamente molto sensibile come le politiche migratorie. Questa scelta ha limitato,
e limita tuttora, l’ambizione e il campo d’applicazione delle direttive proposte dalla
Commissione.
A partire dal 1° maggio 2004, tuttavia, gli Stati membri possono decidere
all’unanimità se assoggettare in tutto o in parte le politiche sull’immigrazione alla
maggioranza qualificata, anche se per il momento la questione non è stata ancora
sollevata, soprattutto a causa dell’attuale dibattito a livello intergovernativo sulla
Costituzione europea. Se quest’ultima entrerà effettivamente in vigore e se le
disposizioni ivi contenute rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia non
saranno modificate, la futura normativa europea in materia di immigrazione verrà
adottata alla maggioranza qualificata degli Stati membri e secondo il metodo
comunitario della codecisione.
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Si tratterà ovviamente di una rivoluzione in questo campo, che permetterà di
fissare norme comuni che auspicabilmente non tenderanno più a raggiungere il
minimo comune denominatore, come frequentemente ancora accade.