1 
 
INTRODUZIONE 
LA DURATA IRRAGIONEVOLE DEI PROCESSI CIVILI COME 
PROBLEMA STORICO 
 
Il problema della durata dei processi in Italia non è un problema nuovo. Molto 
si è detto e molto si continuerà a dire, almeno fino a quando non si perverrà ad 
una soluzione. Sempre se si riuscirà a trovarla. 
Le cause sono molteplici. Un organico esiguo; aule di tribunale che devono 
essere divise a giorni alterni dai giudici; una coscienza più ampia che ha il 
cittadino sui propri diritti, e quindi lo stimolo che ha a farli valere; un numero 
alto di avvocati. Ma soprattutto un sistema processuale che non sembra in 
alcun modo tenere conto di tutte queste variabili. 
Il legislatore italiano si è a lungo non curato del problema. Il cittadino che 
vedeva quindi una tutela apprestata con ritardo, e per questo diventata inutile, 
aveva come unico “salvagente” la possibilità di ricorrere ad un organo 
extranazionale, la Corte Europea dei Diritti dell‟Uomo, che si è vista in questo 
modo oberata di un carico di lavoro che in realtà doveva essere gestito a 
livello nazionale. Proprio in vista di ciò, si è avuta la spinta che serviva per 
cercare di cambiare le cose: più volte condannata dalla Cedu, l‟Italia ha 
dovuto cercare di apprestare una tutela efficace ed effettiva per le eccessive 
durate processuali. Ha provveduto con la legge Pinto, che però prevede solo 
una tutela di tipo risarcitorio, non ponendo mano al sistema giudiziario. E
2 
 
prevedendo quindi, per chi si ritenga leso, la possibilità di adire la corte 
d‟appello (organo interno) invece che la Cedu, per avere un risarcimento. Il 
prevedere il risarcimento però ben fa notare come si sia davanti ad un‟idea di 
impossibilità di accelerazione dei tempi, di risolvere il problema a monte. Di 
prevenirlo insomma. E anzi in questo modo c‟è il rischio di assistere ad un 
voluto allungamento dei tempi processuali per avere comunque una vittoria di 
tipo economico, a prescindere dall‟esito della causa principale che ha dato 
origine a quella per risarcimento. E ancora, si assiste ad una prolificazione di 
questo secondo tipo di cause, che di conseguenza è difficile risolvere nel 
tempo previsto di quattro mesi, dando così vita a richieste di risarcimento 
anche per la causa originata dalla prima. E così si può verificare più spesso 
che cause fungano da “specchietto per le allodole”: si agisce in giudizio con la 
consapevolezza che si andrà oltre la ragionevole durata, che quindi si potrà 
avere un risarcimento. Col solo scopo, in definitiva, di avere un arricchimento 
indebito, rubando in questo modo risorse che sarebbero invece utili per chi ne 
ha davvero bisogno: “Si scontra infatti con i più elementari canoni di coerenza 
logica un sistema che, da un lato, consente ed agevola il protrarsi inutile di un 
processo e, dall‟altro, riconosce il diritto di chi quell‟eccessiva protrazione ha 
subito di ottenere un‟equa riparazione. Ciò equivale ad affermare che lo Stato 
che prevede tale ultimo diritto senza primariamente adottare tutti i possibili
3 
 
rimedi per evitare l‟eccessiva durata dei processi, in realtà eroga inutilmente 
denaro della collettività senza perseguire alcun fine pubblico”
1
 
Tutto questo porta ad una scarsa fiducia nella Giustizia come servizio, che 
viene percepita invece come “potere”; “La Giustizia infatti, equilibrando le 
passioni, gli interessi, i poteri, riparando torti e pregiudizi, sanzionando le 
omissioni, gli errori e le violazioni, deve contribuire alla tranquillità ed alla 
fiducia, senza le quali nessun progresso è possibile”
2
. Quando questo non 
avviene, come per l‟appunto quando la tutela apprestata arriva troppo tardi per 
essere effettiva, le istituzioni perdono credibilità, il cittadino è convinto di non 
poter avere giustizia, ed è portato a ricorrere ad altre vie, a volte anche non 
legali, solitamente accessibili più che altro a che è economicamente più forte. 
Non bisogna sottovalutare poi i costi che vanno a gravare sull‟economia del 
Paese: i ritardi giudiziari costano alle imprese 2.269 milioni di euro
3
, che 
vanno a ricadere su imprenditori, fornitori, clienti e consumatori. Senza 
contare gli ostacoli allo sviluppo dei mercati finanziari, alla nascita di nuove 
imprese o alla loro crescita, alla possibilità di competizione con gli Stati esteri, 
e alla possibilità di investimenti esteri. 
Tutto ciò ha come ripercussione lo stato di malessere psicologico a cui è 
sottoponibile chi ha la sventura di dover prendere parte ad un giudizio. Nella 
Relazione sull‟amministrazione della giustizia nell‟anno 2008 si legge: “una 
                                                             
1
 Così Didone in Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, Giappichelli, 2002, p. 61. 
2
 Cfr. Relazione sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2008, p.6, in www.governo.it.  
3
 Questa la stima dell’Ufficio studi Confartigianato effettuata nel maggio 2009, reperibile in 
www.confartigianato.it.
4 
 
giustizia celere, efficace, certa, che riacquisti la fiducia dei cittadini e 
restituisca loro serenità e sicurezza, avrà anche riflessi positivi sulla vita civile 
di ogni giorno, vissuta sulla certezza della legalità, con indubbi corollari anche 
economici”. Quello che qui interessa è il danno non patrimoniale, riflesso 
giuridico di questo malessere, che viene accordato al soggetto di diritto “per la 
diminuzione della qualità della vita dovuta alle incertezze, ai patemi d‟animo 
che è stato irragionevolmente costretto a sopportare prima che il suo torto – o 
la sua ragione – fossero proclamati in via definitiva”
4
; quindi 
indipendentemente dalla vittoria o dalla soccombenza della parte nella causa 
oggetto della lite. E questa sofferenza morale, ritenuta dalla Corte di 
Cassazione una conseguenza normale e regolare, anche se non automatica, 
genera inoltre un danno esistenziale, in quanto l‟incertezza in cui si viene a 
trovare la persona ha delle ripercussioni che vanno inevitabilmente ad 
intaccare la sua vita, con le sue abitudini. 
Il malessere del cittadino, infine, incide sui magistrati, in un circolo che si può 
definire vizioso. Essi, infatti, sono oggetto di un continuo calo di stima, con 
conseguente calo della loro serenità e senso di frustrazione nello svolgere il 
loro lavoro. 
In entrambe le situazioni, quella del cittadino e quella del magistrato, sono 
stati da alcuni ravvisati gli estremi di una lesione del diritto ad esprimere la 
propria personalità, sancito dall‟art. 2 Cost. 
                                                             
4
 Vedi Chiarloni in Danno esistenziale e attività giudiziaria, in Riv. Trim. dir. e proc. Civile, 2001, pp. 
767 e segg.
5 
 
Si può ben intuire come questo sistema sia destinato al fallimento. 
La Cepej, nel rapporto Saturn del giugno 2007
5
, affermava che “E‟ 
indispensabile dirigersi verso una cultura della speditezza, che non è 
necessariamente sinonimo di rapidità, ma si identifica soprattutto in un 
proposito di buona gestione della durata dei processi”. 
Con questa consapevolezza, si sono avute le ultime modifiche del processo 
civile, con le leggi 40/2006 e 69/2009, che hanno introdotto importanti 
elementi innovativi di riforma dell‟art. 375 cpc, riguardante la pronuncia in 
camera di consiglio, e il d. lgs. 28/2010, in materia di mediazione e 
conciliazione. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                             
5
 Reperibile sul sito www.coe.int/CEPEJ.
6 
 
CAPITOLO 1 
LE POSSIBILI CAUSE DELLA NON RAGIONEVOLE DURATA DEI 
PROCESSI 
 
§ 1. Quadro generale 
È importante preliminarmente trattare quali sono le cause che conducono in 
Italia ad un‟eccessiva durata dei processi, per comprendere bene la 
complessità del problema. 
C‟è da precisare innanzitutto che si tratta di cause molteplici, che 
interagiscono tra loro, e che è possibile dividere in due categorie: cause 
esterne, sulle quali è necessario l‟impegno del Parlamento e del Governo, e 
cause interne, dove invece fondamentale è il compito degli operatori del 
diritto. 
Per quanto concerne le cause esterne, esse sono così individuabili: 
 L‟abuso del processo
6
. 
È la causa principale. Ed è una caratteristica tutta italiana, derivante 
dall‟eccessiva litigiosità del nostro popolo, anche per situazioni che 
potrebbero essere risolte in via amichevole o, nella peggiore delle 
ipotesi, con la procedura di conciliazione. Troppo spesso si 
ripresentano questioni che sono sempre le stesse, che però generano 
ogni volta orientamenti contraddittori, e quindi nuovo stimolo ad agire 
                                                             
6
 Questa la locuzione utilizzata dalla Cassazione nelle ultime due Relazioni sull’amministrazione della 
Giustizia, consultabili sul sito www.governo.it.
7 
 
in giudizio. E ciò porta ad un carico del contenzioso che arriva in alcuni 
casi a rappresentare addirittura il doppio rispetto ad altri paesi europei.  
 La distribuzione delle sedi giudiziarie. 
Molti tribunali sono sguarniti della presenza di un numero di magistrati 
in grado di poter gestire il carico di lavoro che si viene a creare. Questo 
anche perché non è stata mai fatta nessuna variazione della carta 
giudiziaria, che invece avrebbe dovuto adattarsi alle evoluzioni 
demografiche ed economiche del paese. 
 Le risorse della Giustizia. 
C‟è da premettere che le risorse economiche destinate alla Giustizia 
sono abbastanza scarse: l‟incidenza delle spese relative sul bilancio 
statale del 2010 è, infatti, appena dello 0,9%, con una spesa per abitante 
di 122 euro, cinque in meno rispetto all‟anno precedente. Questo non è 
comunque il profilo fondamentale: in Francia ad esempio, le spese sono 
anche minori, ma, a differenza che in Italia, sono ottimizzate e 
l‟efficacia è ampiamente più concreta. 
È in effetti la gestione di queste spese che appare poco efficace, 
essendo caratterizzata da una rigidità che certamente non tiene conto 
delle diversità delle esigenze che hanno le varie sedi giudiziarie. Questo 
porta a scarsa efficienza delle strutture e dell‟attrezzatura tecnica, a 
carenza d‟informatizzazione, a scarsità di assistenti del giudice e del 
personale amministrativo. E in più le sedi giudiziarie dichiarano un
8 
 
bilancio inferiore al fabbisogno effettivamente previsto, per evitare che 
l‟anno successivo vengano loro attribuite risorse inferiori. Con sprechi 
che sono arrivati, secondo la Relazione sull‟amministrazione della 
Giustizia nell‟anno 2009, al 34%
7
. 
 Troppi avvocati, molti dei quali impreparati. 
Il numero degli avvocati è sproporzionato rispetto a quello di magistrati 
e notai. “Si è osservato in dottrina che nel 1997 premevano sul processo 
italiano 100.000 avvocati, che oggi sono diventati 135.000 mentre, ad 
esempio in Francia, operano solo 32.000 avvocati. Orbene un noto 
magistrato italiano, tanti anni fa ha precisato che ogni avvocato 
funziona da moltiplicatore delle cause e che i difensori sono i creatori 
della crisi della giustizia […] perché assecondano le scelte delle parti 
[…]. In civile gli avvocati cercano in tutti i modi di trasformare il 
processo orale in processo scritto, mandando in udienza giovani 
avvocati i quali dichiarano candidamente che non conoscono la causa. 
Orbene la giustizia non può essere utilizzata […] per eliminare la 
disoccupazione intellettuale dei giovani, che impreparati e non idonei 
per altri mestieri, si rifugiano negli albi professionali per sbarcare il 
lunario. Cioè non si può imputare alle “forme” processuali e al 
garantismo voluto dal popolo italiano, una crisi della giustizia che è 
                                                             
7
 I dati sono tratti dalla Relazione sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2009, in 
www.governo.it.
9 
 
voluta dalle parti e dai loro difensori, tramite precise scelte 
processuali”
8
. 
 La normativa. 
La disciplina dettata dal legislatore è stata spesso oggetto di critiche, in 
quanto poco chiara e dunque foriera dell‟allungamento della durata dei 
procedimenti. Queste critiche hanno poi portato a varie riforme negli 
anni, anche se ancora siamo lontani dal raggiungimento di una 
normativa che effettivamente garantisca la soluzione delle cause in 
tempi ragionevoli. 
In questa causa si può ricomprendere il problema delle preclusioni, di 
cui si parlerà più avanti in maniera più ampia. 
Passiamo ora all‟analisi delle cause interne: 
 Comportamento dei giudici. 
Il rapporto sulla gestione dei tempi giudiziari pubblicato dalla Cepej (di 
cui si tratterà, amplius, infra, al cap. 2 § 3) nel 2007 rileva come “la 
partecipazione del giudice italiano a certe attività extragiudiziarie, ove 
la sua presenza è richiesta da testi legislativi o da regolamenti, 
diminuisca corrispondentemente il tempo trascorso a tenere udienze o 
rendere sentenze; fatto per via del quale le statistiche sull‟organico dei 
                                                             
8
 Così Corte d’Appello di Torino, 5 settembre 2001, n. 1157, in www.diritto.it.
10 
 
magistrati possono essere fallaci da questo punto di vista, avuto 
riguardo al tempo realmente passato a giudicare”
9
.  
Probabilmente se i giudici italiani si limitassero a fare i giudici, senza 
affiancare a questa già onerosa attività anche altre, potrebbero 
eliminarsi molti tempi morti inutili. Si criticano in questa sede 
specificatamente l‟attività mediatica, ma soprattutto quella politica, 
impregnata di per sé di considerazioni ideologiche che ancor più 
rispetto al normale potrebbero incidere sulla produttività intesa come 
capacità di rendere la decisione finale. 
Inoltre il giudice spesso ritiene che sia più importante arrivare ad una 
decisione giusta, piuttosto che darla in tempi brevi. Attenzione: non si 
sta dicendo che sia meglio darla in tempi brevi, anche se sbagliata. Ma 
è da sottolineare come una sentenza, la più giusta che sia, possa 
diventare completamente inutile se non data in tempi brevi. E rendere 
inutile quindi tutto il lavoro che vi è stato dietro quell‟inutile decisione, 
con spreco di soldi e lavoro delle parti, degli avvocati, dei giudici, e di 
tutti coloro che hanno preso parte al processo. 
Il magistrato deve quindi essere in grado anche di organizzare il proprio 
lavoro, requisito che è stato inserito nella circolare consiliare 
                                                             
9
 Rapporto sulla gestione dei tempi giudiziari 2007, pag. 55, in www.corteconti.it.
11 
 
20691/2007 recante Nuovi criteri per la valutazione di professionalità 
dei magistrati a seguito della legge 30 luglio 2007, n 111
10
. 
 
§ 2. Le preclusioni 
La lunghezza del processo si può e deve combattere dall‟interno del processo 
stesso, in particolare attraverso scelte tecniche che influenzino la scansione 
dell‟iter processuale. In particolare, grande fortuna ha avuto la scelta tecnica 
legata alle preclusioni. 
 
2.1. Le scelte del legislatore ordinario a far data dagli anni ’70 
A partire dagli anni Settanta è nata, e negli anni successivi si è sempre più 
consolidata, la convinzione che un processo possa essere rapido anche e in 
gran parte ponendo dei limiti temporali alle nuove allegazioni e alle richieste 
istruttorie delle parti, ossia attraverso un sistema rigido di preclusioni. Ciò a 
tutela non tanto degli interessi delle parti, quanto della garanzia stabilita 
dall‟art. 111 Cost., e quindi a tutela di un interesse pubblico piuttosto che 
privato
11
.  
 
Conseguenza di questa concezione è che la tardività deve essere rilevata 
d‟ufficio indipendentemente dal comportamento delle parti, che tutt‟al più 
                                                             
10
 Reperibile sul sito www.csm.it. 
11
 Così, ad esempio, nella motivazione, Cass. 7 aprile 2000, n. 4376, in Giudice di pace, 2000, 294.
12 
 
possono far presente al giudice quando si verifichi una situazione di questo 
tipo. 
In quest‟ottica l‟art. 416 cpc, norma dettata appunto negli anni ‟70 per il 
processo del lavoro, che è stato il primo grande esperimento di processo di 
cognizione piena basato sul nuovo concetto di preclusioni forti di cui si 
accennava, è stato interpretato in maniera restrittiva, come mera possibilità di 
rilevare senza limiti di tempo l‟effetto giuridico di fatti comunque già allegati 
tempestivamente. E questa ideologia, nata per il processo del lavoro, è stata 
utilizzata anche per l‟interpretazione degli artt. 167 c. 2
12
 e 345 c. 2
13
 cpc, 
riguardanti il rito ordinario. 
Ma così opinando, la conclusione è comunque che un fatto rimane rilevabile 
d‟ufficio per tutto il giudizio di primo grado e anche in appello. Inoltre 
un‟interpretazione simile renderebbe irrecuperabile la situazione del 
contumace che, anche dimostrando di non aver potuto costituirsi prima non 
per sua colpa, sarebbe impossibilitato, scaduti i termini, a portare le sue 
allegazioni. 
Seguendo questa interpretazione restrittiva, nasce anche un problema riguardo 
agli effetti della non contestazione. Sempre l‟art. 416 sancisce per il convenuto 
un obbligo di contestazione, per il quale però non sono previste conseguenze 
                                                             
12
 Rubricato Comparsa di risposta, così recita: “A pena di decadenza (il convenuto) deve proporre le 
eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili 
d’ufficio. Se è omesso o risulta assolutamente incerto l’oggetto o il titolo della domanda 
riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine perentorio per integrarla. 
Restano ferme le decadenze”.  
13
 Rubricato Domande ed eccezioni nuove, afferma: “Non possono proporsi nuove eccezioni, che non 
siano rilevabili anche d’ufficio”.
13 
 
in caso di inosservanza. Inizialmente l‟opinione prevalente era quella per la 
quale all‟attore era in ogni caso richiesto di provare i fatti non contestati, 
mentre al convenuto era concesso provvedere alla contestazione anche in 
seguito, per tutta la durata del giudizio di primo grado e persino in appello. 
Con la riforma del processo del lavoro, si è invece passati a prevedere un vero 
e proprio onere di contestazione per entrambe le parti, prevedendo come 
conseguenza dell‟inosservanza l‟esclusione dei fatti non contestati dal thema 
probandum; e ad assimilare la contestazione dei fatti all‟allegazione degli 
stessi, quindi sottoposta agli stessi limiti temporali
14
.  
Questa opinione ha prestato il fianco a critiche: l‟omessa contestazione 
darebbe al fatto non contestato la stessa stabilità del fatto confessato; inoltre la 
mera difesa resterebbe preclusa nel giudizio d‟appello; infine le allegazioni 
negative verrebbero equiparate, quanto ai limiti temporali, a quelle positive, 
che invece necessitano di più tempo.   
Sul tema dell‟onere della contestazione
15
 è intervenuta da ultimo la l. 69/2009, 
che ha modificato l‟art. 115 cpc sulla “Disponibilità delle prove”: al comma 1, 
dove si legge “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a 
fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico 
ministero”, è stato infatti aggiunto: “nonché i fatti non specificamente 
contestati dalla parte costituita”. Inserito nel libro I, al Titolo “Dei poteri del 
                                                             
14
 Così, nella motivazione Cass., Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761 (est. Evangelista), in Foro it., 2002, 
I 2019, con nota di C. M. Cea, e in Corriere giur., 2003, 1335, con nota di M. Fabiani.  
15
 Espressione da preferirsi rispetto all’altra “principio di non contestazione”, in quanto “inespressiva 
(quindi vuota)” come sottolineato da B. Sassani, in L’onere della contestazione, reperibile in 
www.judicium..it, a cui si rinvia per approfondimenti sul tema.
14 
 
giudice”, l‟articolo riconosce il potere generale del giudice di porre a 
fondamento della decisione i fatti non contestati, ossia quelli giudicati pacifici 
vista la mancata contestazione, ma non definisce la fattispecie della non 
contestazione. Sta quindi al giudice valutare quali sono i fatti pacifici. L‟unica 
condizione che la legge impone affinché il fatto possa ritenersi pacifico è che 
la non contestazione vi faccia specifico riferimento. Si può quindi affermare 
che oggi non appare più valido lo schema concettuale, fatto proprio negli anni 
da dottrina
16
 e giurisprudenza
17
, che tendeva a ricostruire la non contestazione 
alla luce della disciplina positiva delle preclusioni. Tale schema era in sintesi 
il seguente: siccome sia l‟art. 416 che l‟art. 167 pongono un onere di 
contestazione nella comparsa di risposta, tale attività va compiuta ivi a pena di 
decadenza; se non si contesta in quella sede, il fatto diviene pacifico e dunque 
l‟altra parte non ha l‟onere di provarlo
18
. I nova introdotti nel 2009 hanno 
invece la virtù di svincolare il concetto di non contestazione da quello delle 
preclusioni: gli effetti di quest‟ultima rientrano nelle regole che presiedono 
alla decisione, altro essendo il profilo dinamico dei tempi processuali nei quali 
la relativa attività deve essere compiuta
19
.  
                                                             
16
 Si veda in merito: Andrioli, Prova, voce in Noviss. Dig. It., XIV, Torino 1967, § 12 (ora in Studi sulle 
prove civili, Milano 2008, pp. 37 e ss.); Verde, L’onere della prova e il processo del lavoro, Relazione 
all’Incontro di studio “Controversie di lavoro e onere della prova”, Roma 25/06/2007, in www.csm.it; 
Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, III, Milano 2007 pp.181 e ss. 
17
 Si veda in tal senso: Cass. 28 giugno 1978, n. 3221; Cass. 11 dicembre 1951, n. 2795; Cass. 7 
novembre 1958, n. 3642.   
18
 In questo senso, la sent. 23 gennaio 2002, n. 761 delle Sezioni Unite, in Giust. civ., 2002, 7-8, 1909, 
con nota di Cattani, Sull’onere della specifica contestazione da parte del datore di lavoro dei conteggi 
relativi al quantum delle spettanze richieste dal lavoratore.  
19
 V. amplius, su questo aspetto, Sassani, Op. loco ult. cit.