6
L’evoluzione terminologica testimonia infatti come 
l’atteggiamento di riprovazione sociale, implicito nel termine 
“concubinato”, portatore di una pregiudiziale chiusura non solo 
giurisprudenziale ma prima di tutto sociale, e omonimo dello 
stesso previgente titolo di reato contro il matrimonio, abbia ceduto 
il passo ad una posizione di neutra accettabilità da parte 
dell’ordinamento, implicita invece nei termini quali “convivenza 
more uxorio”e “famiglia di fatto”.  
Dal concubinato, passando per la convivenza more uxorio 
fino a giungere alla famiglia di fatto, si assiste ad una evoluzione 
del costume scandita in vere e proprie fasi in successione 
temporale. 
La prima fase, l’unica ad avere tra l’altro un preciso 
riscontro normativo, si ricostruisce a partire dall’analisi dell’antico 
istituto del concubinato romano, definibile come una sorta di 
adulterio continuato; ed è proprio su questo istituto che si forma il 
nucleo di una riflessione giuridica diffusa dal diciannovesimo 
secolo fino ai nostri giorni. La definizione tradizionale lo descrive 
come la convivenza di un uomo e di una donna che si distanzia 
sia dal matrimonio, in quanto mancante di “honor matrimonii” e 
“affectio maritalis”, sia dalle unioni temporanee per essere 
caratterizzato da continuità.I 
 7
In questa fase il concubinato costituisce un titolo di reato e 
un ipotesi di separazione per colpa: l’unica rilevanza assunta dal 
fenomeno è quindi in accezione negativa, consequenziale alla 
centralità della convivenza fondata sul matrimonio, come unica 
organizzazione familiare degna di tutela.  
 
A segnare di disvalore sociale il fenomeno ha fortemente 
contribuito l’influenza cattolica, fino al punto di considerarlo non 
come una possibile scelta di libertà individuale, ma come 
espressione di decadenza di costumi e crisi di valori tradizionali, 
un vero e proprio attentato alla solidità della famiglia.    
 
L’atteggiamento di forte ostilità della dottrina canonistica è 
documentato addirittura nell’affermazione per cui ciò che 
intrinsecamente definisce il matrimonio rispetto all’unione di fatto è 
“l’intento di non ricorrere nel biasimo, nell’infamia e nel disprezzo 
in cui la coscienza sociale tiene le unioni illegittime, di godere di 
un certo grado e tipo di decoro,di rispetto,di essere considerati e 
trattati come marito e moglie e non come amanti”.  
 8
 
La  cosiddetta “cultura del  disvalore”, di matrice 
canonistica
1
,   ha subito un progressivo processo di erosione in 
aderenza all’evoluzione del costume e alla tendenza a dare più 
consistenza alla sostanza piuttosto che alla forma di un fenomeno 
che a tutt’oggi sta venendo ad assumere una pari dignità rispetto 
alla famiglia legittima
2
.  
E’ stata una celebre sentenza della corte costituzionale     
(C.Cost       19    dicembre       1969       n.       147)
3
    che     ha  
                                                 
1
 La secolare posizione di condanna del concubinato da parte della 
Chiesa Cattolica è ribadita nel nuovo “Codex Iuris Canonici” emanato in 
data 25 gennaio 1983 ove la relazione extramatrimoniale è considerata 
come delitto specifico contro il buon costume ( cfr. can. 1093 e can. 
1395, par 1) 
2
 Oggi può considerarsi mutato, almeno in termini di tolleranza, anche 
l’atteggiamento della Chiesa, dato che taluni parroci si sono dimostrati 
disposti a rilasciare attestati agli stessi conviventi more uxorio circa la 
durata del loro ménage. 
3
 In questo senso si veda anche Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia 
di fatto, Milano, 1983, p. 160, in cui si legge: “..va ricordata soprattutto la 
depenalizzazione dei reati di adulterio e concubinato conseguenti alle 
note sentenze della Corte costituzionale: si è trattato, ad onta delle 
affermazioni della Corte di una vera e propria scelta di valori, di cui il 
giurista, pur criticandola, non può tuttavia non tener conto quando deve 
valutare la nuova realtà normativa che essa determina” 
 9
dichiarato illegittimo il reato omonimo
4
, e la successiva 
riforma del diritto di famiglia
5
, con la novità di importantissima 
portata della parificazione dei figli naturali ai figli legittimi, che ha 
reso la scelta tra matrimonio e convivenza non più condizionata 
dall’esigenza di assicurare ai figli uno status più favorevole, 
nonché l’introduzione della legge sul divorzio del 1970 che ha 
consentito di regolarizzare le convivenze sorte in regime di 
                                                 
4
 Dichiarato illegittimo dalla corte costituzionale nella sentenza n. 147 del 
1969,l’art 560 del codice penale così recitava: “il marito che tiene una 
concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove, è punito con la 
reclusione fino a 2 anni.. La concubina è punibile con la stessa pena. Il 
reato è perseguibile a querela della moglie”. Questa sentenza segue 
l’altra, 16 dicembre 1968 n. 126 con cui la Corte aveva già dichiarato 
l’illegittimità costituzionale dell’art 559 commi 1 e 2, relativi al reato di 
adulterio della moglie. Entrambe le pronunce hanno evidenziato la 
violazione dell’art 29 Cost che sancisce l’uguaglianza morale e giuridica 
dei coniugi. La sentenza n. 147 del 1969, peraltro, oltre all’illegittimità 
costituzionale dell’art 560, ha dichiarato l’illegittimità anche dell’articolo 
559,comma 3, del codice penale, provvedendo a eliminare così del tutto 
i due titoli di reato: “relazione adulterina” e “concubinato”. Secondo la 
Corte si trattava di reati diversi, poichè per commettere concubinato era 
necessario che la consumazione avesse luogo “nella casa coniugale” o 
“notoriamente altrove”, mentre per aversi relazione adulterina erano del 
tutto indifferenti le modalità di svolgimento. Peraltro si dedusse che le 
violazioni della fedeltà coniugale che per la moglie erano sufficienti ad 
integrare il reato di relazione adulterina, non erano sufficienti invece nel 
caso del marito per integrare l’ipotesi delittuosa di concubinato. E una 
disparità di trattamento così determinata era ingiustificabile ai sensi, 
appunto, della disposizione contenuta nell’articolo 29 della Costituzione. 
Da questo ragionamento era scaturita la necessità di dichiarare 
l’illegittimità sia dell’art 559 comma 3 perchè costituente disparità di 
trattamento a scapito della moglie, sia dell’articolo 560 perchè rendeva 
rilevante ai fini dell’integrazione del reato solo il comportamento del 
marito. 
5
 ....”da cui emergono indicazioni circa i profondi mutamenti avvenuti 
nella coscienza sociale in questo campo, mutamenti di cui il legislatore 
si è reso interprete”, Così Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, 
cit.; 
 10
indissolubilità del vincolo
6
, a spingere verso la sua conclusione la 
fase del concubinato per aprire le porte a quella definita della 
“convivenza more uxorio”, espressione neutra priva, ad un tempo, 
di disvalore e di attitudine identificativa di un’autonoma formazione 
sociale.    
Questa fase è caratterizzata da una posizione di neutra 
accettabilità dell’ordinamento nei confronti della libera scelta di chi 
condivide vita e interessi     assieme ad   un’altra persona senza 
formalizzare la propria unione attraverso l’atto di matrimonio.  
 
La posizione dell’ordinamento in questo senso è stata 
descritta, da parte della dottrina , con il termine di “agnosticismo”, 
espressione dell’atteggiamento di indifferenza nei confronti della 
subjecta materia: da un lato infatti viene meno l’illiceità della libera 
scelta della convivenza, dall’altro la “liceità” del comportamento 
non si trasforma in compiuta regolamentazione.  
                                                 
6
 Come scrive Bile, La famiglia di fatto: profili patrimoniali, in Atti del 
convegno di Pontremoli, 1975, “la legge istitutiva del divorzio ha 
profondamente inciso sul concetto di famiglia legittima, tradizionalmente 
legato all’idea del matrimonio indissolubile, ed ha consentito che 
venissero portate dinanzi ai giudici moltissime unioni di fatto, spesso di 
notevole durata e di insospettata stabilità, a volte protrattesi nella 
scrupolosa osservanza dei doveri di fedeltà e di reciproca solidarietà 
morale ed economica, che si contrapponevano ad altrettante famiglie 
legittime, ormai irrimediabilmente dissolte. Si ha qui la prova che, venuta 
meno la comunione materiale e spirituale fra i coniugi, cade la stessa 
ragion d’essere di una tutela di una famiglia fondata sul matrimonio”. 
 11
Viene riconosciuta alla famiglia di fatto una limitata efficacia 
in alcuni settori specifici, come nella materia della locazione, o in 
ambito tributario e assistenziale, senza che questa frammentaria 
regolamentazione , motivata da una logica casistica, possa 
lontanamente raggiungere la dignità di un sistema organico e 
coerente: la tutela indiretta e limitata è ispirata prevalentemente da 
situazioni contingenti e non generalizzabili
7
. Quindi la convivenza 
more uxorio, che prende a modello di riferimento la famiglia 
legittima, è tuttavia ben distante da una equiparazione con la 
medesima , rimanendo la insormontabile differenza tra le due 
forme di relazione, differenza ampiamente testimoniata non solo 
dall’atteggiamento del legislatore, ma soprattutto dello stesso 
                                                 
7
 Un esempio di norma da cui si possa ricostruire un riconoscimento 
della convivenza more uxorio è fornito già dall’articolo 6 della legge n. 
356 del 1958 che prevede l’ assistenza dei figli naturali non riconosciuti 
dal padre caduto in guerra, quando la madre e il presunto padre abbiano 
convissuto more uxorio nel periodo del concepimento; così l’art. 30 della 
legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario prevede la 
possibilità di un permesso di uscita per il detenuto che debba recarsi a 
visitare un familiare o convivente in pericolo di vita; così anche il codice 
di procedura penale estende la facoltà di astensione dalla testimonianza 
di cui all’art 199 a chi “pur non essendo coniuge dell’imputato come tale 
conviva o abbia convissuto con esso”(art 199 comma 3 lett. a); ancora in 
ambito assistenziale l’art 1 della l. n.405 del 1975 sui consultori familiari, 
inserisce tra gli aventi diritto ai servizi assistenziali, accanto ai singoli e 
alle famiglie, anche le “coppie”; ancora la legge n. 184 del 1983 prevede 
che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo” 
possa essere affidato ad un’altra famiglia , senza distinguere tra famiglia 
legittima o di fatto. Infine la legge n. 149 del 2001 ha modificato gli art 
330 comma 2 e 333 del codice civile disponendo l’allontanamento del 
genitore o convivente che maltratta o abusa del minore; parimenti gli art. 
342 bis e 342 ter del c.c. introdotti dalla legge n. 154 del 2001, in tema di 
ordini di protezione contro gli abusi familiari, contemplano la condotta 
del coniuge “o di altro convivente”. 
 12
costituente, che nell’art 29 della Costituzione, sancendo il solenne 
riconoscimento della Repubblica nei confronti della famiglia, la 
definisce come “società naturale fondata sul matrimonio”: 
disposizione ritenuta confermativa del disinteresse 
dell’ordinamento verso altri tipi di organizzazione familiare, e che 
toglie qualsiasi dignità costituzionale al fenomeno. Questa è la 
monolitica posizione di dottrina e giurisprudenza in una fase, 
precedente rispetto ai nostri tempi, non ancora matura per una 
nuova lettura dei valori costituzionali che, necessariamente 
collegata alla cornice storica, possa incrinare e scalfire il principio 
dell’esclusività della famiglia legittima. I tempi oggi invece, proprio 
in virtù di un nuovo contesto sociale che la cornice costituzionale 
non può ignorare, appaiono maturi per una revisione 
dell’atteggiamento dottrinale. É in atto in sostanza un ribaltamento 
della prospettiva nell’osservazione del fenomeno: l’impossibilità di 
inserire la famiglia di fatto nell’alveo dell’art 29 non esclude la 
possibilità di ricostruire la cittadinanza dell’istituto nella 
costituzione nell’ambito della tutela non della famiglia, quanto 
piuttosto della persona che vive il rapporto familiare: la famiglia di 
fatto si atteggia in questo senso come una delle formazioni sociali 
in cui, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, si svolge la personalità 
dell’individuo.  
 13
Le esigenze di sviluppo della personalità di ogni 
componente, e anche di educazione e istruzione della prole, non 
appaiono più soltanto esclusive della famiglia legittima, ma sono 
garantite anche nelle unioni di fatto. Questa è l’apertura di 
pensiero cui conduce la terza fase di sviluppo socio-giuridico del 
fenomeno, definito non più come “convivenza more uxorio”, ma 
sempre di più come “famiglia di fatto”. La nuova denominazione è 
portatrice di un significato ideologico profondo proprio perché fa 
luce e pone l’attenzione non più soltanto sul convivere come 
coniuge, ma anche sul portato di solidarietà espresso da un 
nucleo familiare modellato ad immagine e somiglianza della 
famiglia legittima e che si distanzia da essa solo per l’aspetto 
formale e della pubblicizzazione del vincolo. È questa la fase in cui 
si tende a rivalutare l’elemento affettivo rispetto al vincolo formale 
e coercitivo, ponendo le basi per il raggiungimento dell’obiettivo di 
una vera e propria rilevanza giuridica della famiglia di fatto
8
, come 
fenomeno in sé considerato, affinché l’istituto possa trovare 
autonoma cittadinanza nell’ambito del nostro ordinamento. 
                                                 
8
 Una rapida rassegna delle decisioni più importanti della suprema Corte 
di Cassazione in materia di famiglia di fatto può trovarsi in Bile, “la 
famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione”, dove 
l’autore, esaminando le pronunce in materia civile e penale, ritiene ormai 
tramontato l’atteggiamento repressivo o dispregiativo nei confronti della 
famiglia di fatto. Seppur con cautela e per piccoli passi, la famiglia di 
fatto prosegue quindi il cammino di avvicinamento al risultato finale di 
una propria rilevanza giuridica come rapporto in sé considerato. 
 14
Dunque oggi l’ottica della famiglia di fatto è profondamente 
modificata, ponendosi non più in termini antitetici rispetto alla 
famiglia legittima, bensì alternativi, rappresentando la libera scelta 
di soggetti che, per impossibilità materiale a contrarre matrimonio, 
o per precisa volontà, decidono di convivere in assenza di vincolo 
matrimoniale.     
 
                                                                                                                                 
 
 15
- 2. -  DEFINIZIONE DI FAMIGLIA DI 
FATTO: ELEMENTI MINIMI DI IDENTIFICAZIONE DELLA 
FATTISPECIE:  
-  
Come si evince dal paragrafo precedente, si può 
certamente affermare come negli ultimi anni siano in via di 
diffusione diversi modelli familiari che si discostano in modo più o 
meno significativo da quello tradizionale della famiglia fondata sul 
matrimonio: tra tutti, proprio per la rilevanza sociale che ha ormai 
acquistato, si segnala la famiglia di fatto. La difficoltà maggiore, 
nell’affrontare dal punto di vista giuridico il fenomeno della famiglia 
di fatto, consiste in primo luogo nella mancanza di una definizione 
legale dell’istituto e nel rischio di semplificare troppo, nel tentativo 
di una generalizzazione dei caratteri, l’orizzonte di una realtà 
estremamente variegata.  Nonostante ciò appare necessario 
ricostruire gli elementi costitutivi di un istituto che pone 
all’attenzione dell’ordinamento determinate esigenze di tutela che 
risultano invece estranee alle altre unioni de fait, identificando un 
“principium individuationis” idoneo a distinguere la famiglia di fatto 
da altre forme di convivenza che nulla hanno a che vedere con 
quest’ultima, come quella tra parenti più o meno stretti, o quella 
della collaboratrice domestica con la famiglia del datore di lavoro, 
 16
o ancora quella particolare forma di convivenza che 
contraddistingue le comunità religiose, o si pensi anche all’ipotesi 
normativamente prevista di coabitazione come mezzo di 
somministrazione degli alimenti (art 443 c.c.)
9
. Dunque tenuto 
conto della mancanza, allo stato, di una definizione legale, 
persiste una certa difficoltà nell’individuare gli elementi che la 
configurano. 
Naturalmente punto di partenza indispensabile per fornire 
una definizione quanto più completa del fenomeno, sta nel 
riconoscere come la famiglia legittima costituisca il modello di 
riferimento di qualsiasi relazione di tipo familiare: la famiglia di 
fatto risulta caratterizzata dalla pratica spontanea e non 
occasionale di attività corrispondenti all’attivazione di quelli che, 
nella famiglia istituzionale di cui all’art 29 della Costituzione, sono i 
diritti e i doveri reciproci dei coniugi:  autorevole dottrina ha 
osservato come, mentre alla base della famiglia legittima c’è un 
impegno che dà origine e caratterizza un rapporto, ”si è in 
                                                 
9
 Svariati sono gli esempi che potrebbero trarsi in relazione a forme di 
convivenza non suscettive di essere qualificate come convivenza more 
uxorio: si pensi solo a titolo esemplificativo senza alcuna aspettativa di 
completezza a quei fenomeni associativi quali convivenze in collegi, 
seminari, case di riposo per anziani, o convivenze in gruppo di tre o 
quattro persone che formano una “quasi famiglia”provvedendo 
congiuntamente ai bisogni comuni,pur non essendo unite da vincoli di 
parentela e affinità ;tutti fenomeni accomunabili dall’esclusione dal 
novero delle convivenze ascrivibili alla famiglia di fatto, perchè difettano 
dell’elemento essenziale tipizzante la libera unione costituito 
dall’imitazione del modello legale di famiglia. 
 17
presenza non di un semplice essere, qualificato dal diritto come 
tale, ma di un dover essere”
10
, nella famiglia di fatto al contrario 
l’origine è un rapporto che può dar vita, finché dura, ad un 
impegno.    Sulla base di una definizione dunque “relazionale”
11
 si 
individua come primo elemento caratterizzante quello negativo 
dell’assenza dell’atto di matrimonio
12
: all’atto formale della 
celebrazione e alla formalità del vincolo si sostituisce la 
spontaneità del consenso e del comportamento, talvolta anche per 
impossibilità temporanea di pubblicizzare l’unione per la presenza 
di un precedente matrimonio non ancora sciolto. A questo 
proposito, è stata , tuttavia,  più volte posta in  dubbio l’esistenza 
della famiglia di fatto laddove uno dei due conviventi sia legato ad 
un’altra persona da un vincolo non ancora sciolto o annullato: 
secondo questa dottrina “non è agevole sostenere che 
                                                 
10
 Così Busnelli, “Sui criteri di determinazione della disciplina normativa 
nella famiglia di fatto” in La famiglia di fatto (Atti del convegno)  
Pontremoli 27-30 Maggio 1976, per cui i doveri coniugali non 
costituiscono soltanto “un criterio di riconoscibilità del rapporto 
coniugale”, essendo invece “espressione di un impegno 
spontaneamente assunto col matrimonio” 
11
 Osserva tuttavia Lipari in “La categoria giuridica della famiglia di fatto 
e il problema dei rapporti personali al suo interno”, in “Atti del Convegno 
di Pontremoli” del 1975, come “il criterio individuante del fenomeno 
pratico risulti artificiosamente ricondotto ad un indice normativo: la 
famiglia di fatto, pur riconosciuta operante in termini di rapporto, viene 
definita in via esclusivamente negativa attraverso un ipostatizzante  
concettualizzazione di ciò che debba intendersi per famiglia legittima” 
  
12
  Sostiene Auletta che “non dovrebbe parlarsi di famiglia di fatto...nel 
caso di convivenza fondata su un matrimonio annullato (purché 
esistente) perché il vincolo si è comunque costituito, sia pur 
precariamente, e certi effetti del matrimonio si sono comunque prodotti”. 
 18
l’ordinamento consenta forme di tutela della convivenza more 
uxorio che si fondino sulla violazione del dovere di fedeltà 
matrimoniale, posto dall’ordinamento medesimo”
13
. La mancata 
conformità allo schema legale del nucleo familiare legittimo può 
essere dovuta, oltre che alla mancanza totale dell’atto formale, 
anche alla presenza di un atto non rilevante per l’ordinamento 
giuridico, come un matrimonio celebrato davanti al ministro del 
culto cattolico, a cui non sia seguita la relativa trascrizione nei 
registri dello stato civile come prescritto dall’art. 5 della legge 
n.847 del 1929, modificato dalla legge n. 121 del 1985.                                
Tuttavia l’elemento negativo non è certo sufficiente per 
caratterizzare l’unione di coppia come famiglia di fatto.     Svariate 
sono state le definizioni date in dottrina del fenomeno; in modo 
quanto più semplice essa può essere descritta come l’unione 
stabile e duratura tra un uomo e una donna, che si comportano 
come marito e moglie, e dei loro eventuali figli.        In termini 
positivi, ciò che qualifica la famiglia di fatto rispetto alla famiglia 
legittima consiste proprio nella valorizzazione dell’”affectio” che si 
manifesta in una convivenza caratterizzata da inequivocità, 
serenità, stabilità: ed è proprio questa caratterizzazione che 
impedisce di considerarla un “matrimonio di seconda categoria”: è 
                                                 
13
 Così Auletta, Il diritto di famiglia, Torino, 2000; 
 19
anch’essa una società naturale seppur non fondata sul 
matrimonio, così come ogni altra modalità del convivere che si 
qualifichi come stabile e duratura, che assicuri la formazione di 
una comunione di vita spirituale e materiale nonché di interessi, 
che sia fonte per la prole di educazione, mantenimento, istruzione. 
Affinché dunque una convivenza possa dar vita ad un nucleo 
familiare così definito, che possa svolgere un ruolo educativo, 
affettivo e di sostegno morale ed economico dei componenti, 
occorre che siano presenti dei requisiti essenziali che si atteggino 
a indici di qualificazione dell’istituto.  In primo luogo perché si 
possa parlare di famiglia di fatto occorre, come elemento 
costitutivo, la diversità di sesso tra i conviventi: a tutt’oggi 
l’ordinamento italiano non riconosce alcuna rilevanza giuridica alla 
convivenza omosessuale, in quanto soprattutto inidonea a 
proiettarsi nel futuro con la nascita di figli. 
Altro indice di qualificazione, tra l’altro di immediata 
evidenza, consiste proprio nella convivenza: non è possibile 
parlare di un nucleo familiare laddove manchi coabitazione sotto 
uno stesso tetto, individuato come “casa familiare”. Ovviamente 
non un qualsiasi tipo di coabitazione è idonea a definirsi 
convivenza more uxorio: occorre, come quid pluris, rispetto al 
mero accadimento materiale dell’abitare entro lo stesso spazio di