IV
in altri Paesi, spesso influenzati, nelle loro formulazioni, proprio dal modello 
americano. 
               Il secondo paragrafo del primo capitolo è quindi dedicato all’analisi di tale 
legislazione, con riferimento alle principali leggi emanate dal Congresso degli Stati 
Uniti a partire dal 1890 con lo Sherman Act. 
               Importante sarà, a tal proposito, esaminare come tale legislazione si è 
sviluppata attraverso l’applicazione della stessa da parte delle Corti di Giustizia e 
della Federal Trade Commission al fine di verificare la possibilità di attingere, in 
sede di applicazione del diritto comunitario della concorrenza e con riferimento alle 
intese restrittive, ai risultati maturati negli Stati Uniti e quindi all’ammissibilità del 
ricorso, in ambito comunitario ed ovviamente italiano (data la perfetta sintonia che 
caratterizza la legge n. 287 rispetto alla corrispondente disciplina comunitaria), alla 
teoria della rule of reason. 
               L’analisi di tale possibilità, dibattuta in dottrina, che necessita la 
considerazione degli orientamenti più significativi espressi dagli organi comunitari, 
sarà effettuata nel paragrafo successivo. 
               Come accennato, la legge n. 287/90 è stata introdotta nel nostro Paese dopo 
quasi mezzo secolo dalla presentazione dei primi progetti a riguardo e a distanza di 
un secolo e di quasi mezzo secolo rispetto alle legislazioni statunitense ed europea. 
               Il quarto paragrafo riguarda appunto sia le linee di tendenza che hanno 
accompagnato le diverse iniziative legislative e conoscitive che hanno preceduto 
l’emanazione della legislazione nazionale, sia i motivi del ritardo rispetto a quanto 
accaduto in altri Paesi. 
 V
               L’ultimo paragrafo del primo capitolo è dedicato infine al dibattito relativo 
al fondamento costituzionale della normativa antitrust, con riferimento alle 
disposizioni contenute negli articoli 41 e 43 della Costituzione. 
               I capitoli successivi, riprendendo lo schema strutturale della legge n. 
287/90, sono dedicati, come accennato, all’analisi e al commento delle relative 
disposizioni. 
               Il secondo capitolo, intitolato “Ambito di applicazione e rapporti con 
l’ordinamento comunitario della legge antitrust”, analizza le diverse fattispecie 
rilevanti dal punto di vista sostanziale (intese restrittive, abuso di posizione 
dominante e concentrazioni), nonché la disciplina prevista nei confronti delle 
imprese pubbliche e in monopolio legale. 
               Inoltre, e si tratta di una questione molto complicata ed ampiamente 
dibattuta in dottrina, il primo paragrafo di tale capitolo riguarda la scelta operata dal 
nostro legislatore (relativamente all’ambito di applicazione della legge n. 287) che, a 
differenza di quanto previsto negli altri Stati membri, è ispirata al principio 
dell’esclusione reciproca. 
               A tal proposito, sarà necessario distinguere, da un lato, le intese restrittive e 
l’abuso di posizione dominante e dall’altro, le concentrazioni. 
               Nell’ambito di tale distinzione, saranno prese in considerazione le diverse 
problematiche, nonché le diverse soluzioni proposte dalla dottrina al fine di superare 
i problemi derivanti dall’operatività del principio dell’esclusione reciproca. 
               Il terzo capitolo, intitolato “Natura, composizione e funzionamento 
dell’Autorità garante”, è essenzialmente finalizzato all’inquadramento di tale autorità 
(preposta dalla legge all’applicazione della disciplina antitrust) nell’ambito 
dell’organizzazione dei pubblici poteri. 
 VI
               La possibilità di attribuire all’Autorità garante della concorrenza e del 
mercato la qualifica di autorità amministrativa indipendente (modello questo, a cui il 
legislatore fa sempre più spesso ricorso) passerà attraverso l’analisi ed il giudizio 
della disciplina contenuta negli articoli 10 e 11 della legge n. 287/90 e quindi 
attraverso l’analisi ed il giudizio delle diverse forme di autonomia  riconosciute dalla 
legge all’Autorità, anche e soprattutto mediante una comparazione con la disciplina 
istitutiva di altre autorità di questo tipo (in particolare, con riferimento alla Consob e 
all’Isvap). 
               L’analisi terrà conto quindi della composizione dell’Autorità garante e delle 
garanzie attinenti all’esercizio del mandato da parte dei suoi componenti, della sua 
autonomia organizzativa, di quella di organico ed infine di quella contabile e porterà 
ad evidenziare, sia pure con alcune rilevanti eccezioni, l’adozione da parte del 
legislatore di un modello istituzionale caratterizzato da adeguate garanzie di 
indipendenza e neutralità, svincolato da qualsiasi dipendenza gerarchica. 
               Come vedremo però, il punto non è pacifico e alcuni autori sostengono la 
tesi per cui l’Autorità garante sarebbe un organo solo formalmente amministrativo, 
svolgendo in realtà funzioni fungibili e assimilabili a quelle proprie di organi di 
natura giurisdizionale. 
               Il quarto capitolo, intitolato “Poteri dell’Autorità garante”, è dedicato 
all’analisi dei poteri riconosciuti dalla legge a tale autorità, non solo al fine di 
reprimere le condotte illecite con poteri di intervento diretto, ma anche, ed il 
riferimento è ai poteri conoscitivi e consultivi dell’Autorità garante, al fine di 
realizzare (assumendo una visione più ampia della politica della concorrenza) una 
coerenza di obiettivi e comportamenti che riguardi anche gli organi ai quali spetta il 
governo del settore. 
 VII
               Tali poteri concorrono cosi’ a definire la posizione di centralità 
dell’Autorità garante nell’ambito della politica della concorrenza. 
               L’Autorità garante, nella repressione delle condotte illecite, dispone sia di 
poteri istruttori (che si concretizzano essenzialmente nel potere di richiedere 
informazioni e in un potere ispettivo), sia di poteri sanzionatori. 
               Tali poteri, come del resto le norme in materia di procedure istruttorie di 
competenza dell’Autorità garante, sono gli stessi sia in materia di intese restrittive e 
di abuso di posizione dominante, sia in materia di concentrazioni, ma si inseriscono 
nell’ambito di una diversa disciplina che, in materia di concentrazioni, è improntata 
al principio del controllo preventivo di tali operazioni sulla base di un obbligo di 
notifica preventiva, anche se, come vedremo, la disciplina italiana presenta una 
rilevante peculiarità rispetto allo “schema logico” seguito dalle legislazioni europee e 
dalla normativa comunitaria, in materia di sospensione dell’operazione di 
concentrazione. 
               L’analisi prenderà in considerazione anche i poteri dell’Autorità garante in 
materia di repressione della pubblicità ingannevole, che in effetti non riguardano la 
legge n. 287/90, ma che comunque ho ritenuto opportuno riportare al fine di 
rappresentare un quadro completo dei poteri di cui dispone tale autorità. 
               Infine il quarto capitolo prende in considerazione i rapporti dell’Autorità 
garante con le autorità di vigilanza settoriali. 
               Fondamentale è il problema di quale ruolo debba giocare la disciplina 
antitrust nei confronti di attività, quali quelle bancarie e assicurative, caratterizzate 
da preminenti interessi di natura pubblica espressamente riconosciuti e tutelati nelle 
norme costituzionali. 
 VIII
               Come vedremo, l’esperienza internazionale offre a riguardo diverse 
alternative ed il legislatore italiano ha optato per la piena applicabilità della legge n. 
287/90 alle attività ed ai soggetti operanti nei settori del credito e delle assicurazioni, 
risolvendo inoltre, in modo innovativo, una seconda questione attinente alle modalità 
di applicazione della disciplina antitrust nelle regulated industries. 
               Infine, per quanto riguarda il quinto capitolo, intitolato “Sanzioni e 
competenze giurisdizionali”, il primo paragrafo di tale capitolo è dedicato all’analisi 
delle norme contenute negli articoli 15 e 19 della legge relativi alle sanzioni irrigabili 
da parte dell’Autorità garante in materia, rispettivamente, di intese e abusi, nonché di 
concentrazioni. 
               Il paragrafo successivo riguarda invece la disciplina speciale dettata dal 
legislatore, nel primo comma dell’articolo 33, in relazione alla tutela giurisdizionale 
che deve essere garantita agli interessati contro i provvedimenti dell’Autorità 
garante. 
               In primo luogo si stabilisce infatti una giurisdizione amministrativa 
esclusiva che, inoltre, è riservata alla competenza del T.A.R. del Lazio. 
               Particolari problemi interpretativi pone poi il secondo comma dell’articolo 
33, in materia di giurisdizione ordinaria, che indica espressamente alcuni tipi di 
intervento demandati all’autorità giudiziaria ordinaria, attribuendo la relativa 
competenza, per territorio, alle Corti d’appello. 
               L’analisi di tali problemi interpretativi che riguardano, in primo luogo, un 
problema pregiudiziale sollevato da alcuni autori secondo i quali i poteri dell’autorità 
giudiziaria sarebbero solo integrativi di quelli dell’Autorità garante e ancora, 
l’interpretazione da attribuire al secondo comma dell’articolo 33 (cioè, se si debba 
 IX
interpretarlo come norma escludente, come norma speciale sulla competenza o infine 
come norma esemplificativa), sarà effettuata nel terzo paragrafo. 
               Nell’ultimo paragrafo, dedicato alla cooperazione tra giudici nazionali e 
Commissione nell’applicazione degli articoli 85 e 86 del Trattato CEE, sarà infine 
presa in considerazione la comunicazione n. 93/C 39/05 con la quale la Commissione 
ha cercato di assicurare la più ampia ed efficace attuazione di tale normativa 
comunitaria, prevenendo conflitti e contraddizioni tra le decisioni comunitarie e le 
sentenze nazionali. 
               Questo paragrafo può essere considerato come la conclusione ideale di tutte 
le problematiche relative all’applicazione della normativa nazionale e comunitaria in 
materia di antitrust, nell’ambito delle quali infatti anche i giudici svolgono un ruolo 
molto importante per quanto concerne la loro competenza a decidere sulle 
conseguenze civilistiche della violazione delle norme antitrust. 
 
 
 
                 
 
 
 
 
 
 
 
                    
CAPITOLO I 
CONCORRENZA E ANTITRUST 
 
1. TEORIE ECONOMICHE E FUNZIONI DELL’ANTITRUST 
               L’affermazione del modello di economia di mercato e del capitalismo 
industriale è stata accompagnata, sin dalle sue origini, dalla convinzione che la 
libertà di iniziativa economica costituisca condizione indispensabile per il progresso 
economico. 
               Mentre nelle economie pianificate tutte le scelte in materia di produzione e 
di investimenti sono adottate ed imposte da organi burocratici centralizzati, nel 
sistema di mercato tali scelte sono determinate dalla somma di un numero 
imprecisato di decisioni individuali di produttori e consumatori. 
               Nell’ambito di tale sistema, alla concorrenza
1
 è affidato un ruolo essenziale. 
                                                           
1
 Il modello classico di concorrenza è quello della concorrenza perfetta. 
Sono quattro le condizioni che definiscono un mercato perfettamente concorrenziale. 
In primo luogo, l’omogeneità del prodotto: in concorrenza perfetta, il bene venduto da un’impresa è 
un sostituto perfetto dei beni venduti da tutte le altre. 
La seconda condizione è che le imprese sono price-taker, cioè assumono il prezzo di mercato come 
dato e nessuna ha la capacità di influire su tale prezzo variando la propria produzione. 
Questa condizione è in generale soddisfatta quando sul mercato opera un numero elevato di imprese 
ognuna delle quali produce una frazione irrilevante dell’output totale del settore. 
La terza condizione presuppone che i fattori produttivi siano perfettamente mobili nel lungo periodo, 
per cui l’entrata e l’uscita dal mercato è libera. 
Infine l’ultima condizione è quella dell’informazione perfetta per le imprese ed i consumatori. 
In tale modello ciascuna impresa deve cosi’ decidere soltanto quanto produrre essendo il prezzo di 
vendita dato. 
Per massimizzare la differenza tra i ricavi ed i costi e quindi il profitto, l’impresa deve produrre la 
quantità in corrispondenza della quale il ricavo marginale (ossia il ricavo derivante dalla vendita di 
un’unità addizionale di prodotto), che in tale modello equivale al prezzo dato dal mercato, è uguale al 
costo marginale (ossia al costo addizionale che si deve sostenere per produrlo). 
Il modello di concorrenza perfetta assume cosi’ l’esistenza di condizioni altamente astratte quali la 
totale trasparenza del mercato, l’assoluta sostituibilità dei beni prodotti, un numero di imprese 
talmente elevato da impedire pratiche collusive di rilievo, assoluta assenza di barriere di entrata ed 
uscita dal mercato, inesistenza di economie di scala. 
 2
               Essa infatti impone ai protagonisti del processo economico, produttori e 
rivenditori, di compiere ogni sforzo al fine di ottenere un costante miglioramento 
della qualità dei prodotti. 
               Ancora, comporta una gara al ribasso dei prezzi verso il prezzo di costo, 
esclude dal mercato le unità produttive inefficienti liberando risorse e rendendole 
disponibili per impieghi più redditizi, promuove la differenziazione produttiva 
moltiplicando le alternative di scelta dei consumatori, evita le concentrazioni 
permanenti di potere economico favorendo l’accesso al mercato e l’affermazione 
degli operatori più capaci.   
               Anche la più convinta adesione al principio di libertà di iniziativa 
economica, che è alla base di ogni economia di mercato, non può tuttavia prescindere 
dalla consapevolezza, variamente percepita dai diversi ordinamenti, che il libero 
esplicarsi delle forze economiche, se affidato a se stesso, mentre non assicura la 
conservazione, costantemente minacciata da monopoli e oligopoli
2
, “di quel 
                                                           
2
 Il monopolio è una forma di mercato in cui un unico venditore offre un prodotto per il quale non 
esistono sostituti stretti. 
A differenza di quanto avviene nella concorrenza perfetta, il monopolista non massimizza il proprio 
profitto attraverso un’analoga produzione perché deve tener conto dell’impatto che la sua offerta ha 
sul prezzo. 
La differenza fondamentale fra monopolio e concorrenza perfetta è infatti rappresentata dalla diversa 
elasticità della curva di domanda d’impresa: coincidente con la curva di domanda di mercato e quindi 
inclinata negativamente nel primo caso, orizzontale e quindi perfettamente elastica nel secondo. 
Mentre un’impresa concorrenziale produce fino ad un punto in cui il prezzo equivale al costo 
marginale, il monopolista arresta la propria produzione prima di quel livello in modo che, anche in tal 
caso, il ricavo marginale equivalga al costo marginale, ma in corrispondenza del quale la produzione è 
minore ed i prezzi sono più alti rispetto ad un mercato concorrenziale. 
Il monopolio è cosi’ considerato, nelle condizioni astratte previste dal modello di concorrenza perfetta 
ed in particolare non considerando eventuali economie di scala, meno efficiente rispetto alla 
concorrenza perfetta. 
Gli economisti hanno individuato quattro fattori che possono consentire ad un’impresa di rivestire una 
posizione di monopolio: controllo esclusivo su input fondamentali, brevetti, licenze governative o 
appalti ed infine l’esistenza di economie di scala per cui la curva di costo medio di lungo periodo è 
decrescente ed il modo meno costoso di servire il settore è concentrare la produzione presso un’unica 
impresa. 
In quest’ultimo caso si ha un monopolio naturale. 
Tra il mercato concorrenziale ed il monopolio si situa l’oligopolio che è la struttura industriale tipica 
nei paesi occidentali dato che molti settori richiedono significative economie di scala e ingenti 
investimenti tecnologici. 
 3
pluralismo economico” che è garanzia di funzionamento del mercato sulla base dei 
meccanismi concorrenziali, non è neppure in grado di “garantire la compatibilità 
dello sviluppo con talune ineludibili istanze di ordine sociale”
3
. 
               Fra le politiche maggiormente utilizzate a tale scopo vi sono la politica 
della concorrenza e  la politica della regolamentazione. 
               Queste rappresentano due modi differenti per affrontare i problemi che 
nascono dai fallimenti del mercato, ed il diverso peso attribuito all’una o all’altra 
dipenderà dalla visione del mondo che hanno gli economisti ed i politici
4
. 
                                                                                                                                                                    
Il mercato oligopolistico è caratterizzato dalla presenza di un numero limitato di imprese, ognuna 
delle quali subisce la concorrenza delle altre ed è nel contempo capace di influire sul prezzo del 
prodotto attraverso la quantità della propria offerta. 
In tal caso la massimizzazione del profitto dipende strettamente dalla capacità di ciascuna impresa di 
operare valide congetture sul comportamento dei concorrenti. 
Le imprese possono cosi’ essere indotte ad attuare pratiche collusive in modo da operare come un 
unico monopolista diminuendo la produzione ed aumentando i prezzi rispetto ad una situazione di 
normale pressione concorrenziale. 
La collusione consentirebbe loro, in tal modo, la massimizzazione dei profitti congiunti. 
L’oligopolio appena descritto è quello omogeneo, caratterizzato cioè dalla perfetta sostituibilità dei 
prodotti delle varie imprese. 
Un ulteriore, più affinato modello è quello della concorrenza monopolistica che rappresenta con 
ancora maggior realismo la struttura di mercato più diffusa e che si configura come una particolare 
forma di monopolio in cui i beni non sono perfettamente sostituibili. 
La differenziazione dei prodotti è promossa dalle imprese, o almeno da alcune di esse, al fine di 
limitare la sostituibilità dei loro prodotti e quindi di limitare l’elasticità della domanda rendendola 
cosi’ meno sensibile alle variazioni di prezzo. 
Più lo sforzo riesce, più il produttore si avvicina alla posizione di monopolista. 
Ogni impresa è sottoposta comunque alla concorrenza delle altre marche, ma è monopolista della 
propria, ecco perché la definizione di concorrenza monopolistica. 
Le legislazioni dei paesi industrializzati promuovono tale processo di differenziazione che è ritenuto 
positivo per lo sviluppo del mercato e per la posizione dei consumatori: basti pensare alla tutela dei 
segni distintivi. 
3
 Cosi’ V. Mangini, La vicenda dell’antitrust: dallo Sherman Act alla legge italiana n. 287/90, in 
Rivista di diritto industriale, 1995, I, pag.176. 
4
 In particolare, per quanto riguarda i rapporti tra disciplina antitrust e taluni particolari settori 
economici caratterizzati da preminenti interessi di natura pubblica (e oggetto per questo di discipline 
amministrative di settore), l’esperienza internazionale offre diverse alternative che vanno dalla 
completa esenzione di taluni settori dai divieti posti a tutela della concorrenza, ad una parziale 
applicazione delle normative antimonopolistiche, ad un completo assoggettamento delle cosiddette 
regulated industries alle norme antitrust. 
Il legislatore italiano, come vedremo, ha optato, sia pure in modo innovativo, per la piena applicabilità 
della legge antitrust alle attività e ai soggetti operanti nei settori del credito e delle assicurazioni che si 
configurano appunto come attività caratterizzate da preminenti interessi di natura pubblica, quali il 
risparmio e le assicurazioni, espressamente riconosciuti e tutelati nelle norme costituzionali. 
Secondo M. Clarich, che invece ragiona in termini opposti, Per uno studio dei poteri dell’Autorità 
garante, in Diritto amministrativo, 1993, pag.81 e seguenti, la disciplina antitrust, “lungi da 
rappresentare una forma di intervento pubblico diretto nell’economia”, dovrebbe essere considerata 
come uno strumento alternativo rispetto alle discipline amministrative di settore (ad esempio 
 4
               Il modello di concorrenza perfetta assume, come visto, l’esistenza di 
condizioni altamente astratte. 
               Si tratta quindi di un modello assolutamente irrealistico  in grado di offrire 
solo limitate indicazioni per una politica della concorrenza. 
               Il processo competitivo che si realizza nelle economie reali è invece 
estremamente complesso e questo ha lasciato spazio ad impostazioni teoriche che 
danno interpretazioni molto diverse del tipo e del modo di intervento delle autorità 
antitrust. 
               Si possono distinguere tre posizioni principali differenziate in relazione a 
quattro aspetti rilevanti
5
. 
               Un primo aspetto rilevante riguarda l’idea che le singole teorie hanno sul 
funzionamento del sistema economico e quindi sul tipo di interventi pubblici ritenuti 
possibili. 
               Il secondo aspetto riguarda specificamente le politiche antitrust 
distinguendo il caso delle politiche di tipo preventivo o correttivo. 
               Le politiche preventive condannano pratiche ritenute a priori nocive, senza 
che si sia verificato l’evento dannoso. 
                                                                                                                                                                    
possiamo ricordare il regime dei prezzi amministrati introdotto nei confronti dei monopoli naturali, 
come le tariffe ferroviarie, oppure le discipline amministrative di settore riguardanti le imprese 
bancarie e assicurative) e alle varie forme di impresa pubblica. 
Più precisamente, secondo tale autore vi sarebbe quasi una “priorità logica” tra disciplina antitrust e 
forme di intervento più penetranti da parte dei pubblici poteri che sarebbero cosi’ giustificate solo nel 
caso in cui la disciplina antitrust non basti ad assicurare il corretto funzionamento del mercato. 
L’autore nota come non è certamente un caso se, dal punto di vista storico, la più antica disciplina 
antitrust è stata introdotta in un Paese, gli Stati Uniti (con lo Sherman Act del 1890), tradizionalmente 
refrattario ad interventi dello Stato sotto forma di nazionalizzazioni o di regolamentazione pubblica 
dell’attività di impresa. 
E non è forse casuale se in un Paese come l’Italia, che sotto questo profilo ha caratteristiche opposte 
rispetto agli Stati Uniti, una legge antitrust sia stata approvata proprio in un periodo nel quale il tema 
delle privatizzazioni e della deregolamentazione stava acquistando maggior attualità e concretezza. 
5
 Cosi’, A. Del Monte, Promozione della concorrenza e politiche antitrust – i fondamenti teorici e 
l’esperienza italiana, Bologna, Il Mulino, 1997, pag. 10 e seguenti.  
 5
               Quelle correttive intervengono invece solo a seguito della valutazione dei 
risultati di particolari pratiche. 
               Un terzo aspetto riguarda il problema delle politiche nei confronti dei 
monopoli naturali
6
 ed il quarto quello relativo alla regolamentazione sociale
7
. 
               La prima posizione che consideriamo è quella della Scuola austriaca che 
respinge l’idea stessa di diritto della concorrenza  sottolineando la miopia delle leggi 
antitrust. 
               Secondo questi autori infatti molte delle pratiche giudicate anticompetitive, 
quali i contratti con clausola di esclusiva o i patti di prezzo imposto  sono delle realtà 
contrattuali che tengono conto dell’esistenza di informazione imperfetta e quindi di 
fatto permettono di migliorare l’efficienza del mercato. 
               Questi autori non negano poi che esistano pratiche meritevoli di essere 
condannate, ma ritengono ancora maggiori i danni dell’intervento pubblico. 
               D’altro   canto   il   divieto,  in   nome   della    concorrenza,   di    realizzare 
fusioni o l’obbligo per una data impresa di scindersi, con la giustificazione che è 
troppo grande o potente rispetto ai concorrenti, farebbe proprio riferimento al 
modello ideale ed astratto di concorrenza perfetta. 
                                                           
6
 A. Del Monte, Promozione della concorrenza e politiche antitrust – i fondamenti teorici e 
l’esperienza italiana, Bologna, Il Mulino, 1997, pag. 7, nota come la politica della regolamentazione 
riguardi principalmente i monopoli naturali. 
In particolare, secondo T. Ely, Il monopolio e i trusts, riportato in A.A. V.V., Concorrenza, 
monopolio, regolamentazione, Milano, 1990, pag. 153 e seguenti,  la regolamentazione nei confronti 
dei monopoli naturali troverebbe una giustificazione di segno opposto a quello tradizionale delle 
politiche antitrust, ispirandosi alla non desiderabilità della libera concorrenza fra i produttori, che si 
ritiene conduca in tal caso a pratiche inefficienti. 
In tali casi la regolamentazione dovrebbe intervenire individuando il numero ottimale di imprese che 
devono operare sul mercato e porre quindi restrizioni all’entrata di nuove imprese. 
Ovviamente, a fronte del potere monopolistico cosi’ creato, si dovrebbe prevedere un regime di prezzi 
amministrati. 
7
 Si tratta di quelle forme di intervento pubblico che limitano il potere discrezionale dei privati, 
mirando al raggiungimento di una serie di obiettivi sociali quali la tutela, nel mercato del lavoro, delle 
categorie più deboli, la tutela della salute e della sicurezza del cittadino e cosi’ via. 
 6
               Solo il mercato, sostengono tali autori, sarebbe in grado di identificare qual 
è la dimensione ottima di un’impresa ed in modo analogo il non intervento appare 
auspicabile sia per quanto riguarda i casi di monopoli naturali, che per gran parte 
della regolamentazione sociale. 
               Una posizione simile, ma più concreta per quanto riguarda la tutela della 
concorrenza e la politica della regolamentazione, è quella  della  Scuola  di  
Chicago
8
. 
               Quest’ultima, pur profondamente critica della legislazione antitrust, non 
respinge a priori ogni intervento di tutela della concorrenza, ma lo limita 
principalmente a politiche di tipo correttivo. 
               Solo sulla base di una valutazione dei risultati di particolari pratiche sarà 
possibile valutare il grado di distorsione indotta, ed in particolare, nessun divieto a 
priori può essere imposto ad operazioni di fusione e acquisizione. 
               Per quanto riguarda la regolamentazione del monopolio naturale, la scuola 
di Chicago mette l’accento sui costi a fronte dei presunti benefici della 
regolamentazione: le spese volte a far rispettare i regolamenti, i costi sopportati dagli 
agenti economici a causa della regolamentazione, i costi dovuti ai minori 
investimenti che le imprese effettueranno in presenza di più stringenti 
regolamentazioni. 
              Ogni regolamentazione quindi dovrebbe prevedere un’accurata analisi costi 
e benefici. 
               Per quanto riguarda poi la regolamentazione sociale, gli interventi devono 
essere limitati ai casi in cui non è applicabile il teorema di Coase
9
. 
                                                           
8
 Cosi’, A. Del Monte, Promozione della concorrenza e politiche antitrust – i fondamenti teorici e 
l’esperienza italiana, Bologna, Il mulino, 1997, pag. 14. 
9
 Tra le cause di fallimento del mercato vi è l’esistenza di esternalità. 
 7
               La terza posizione è quella che tradizionalmente fa capo alla Scuola 
Struttura – Condotta – Performance. 
               L’idea è che sono le caratteristiche strutturali di un’industria che 
determinano la condotta delle imprese e quest’ultima determina la performance 
dell’industria. 
               E’ necessario, quindi, per valutare il grado di competitività di un’industria, 
esaminare una serie di indici strutturali: indici relativi alla concentrazione, alla 
differenziazione del prodotto, al livello delle barriere all’entrata. 
               Secondo il paradigma Struttura – Condotta – Performance, l’esperienza 
empirica evidenzia l’esistenza di una relazione positiva fra margine di profitto e 
grado di concentrazione delle imprese, per cui si dovrebbe dare notevole spazio a 
politiche antitrust di tipo preventivo ed imporre inoltre la regolamentazione delle 
attività in regime di monopolio naturale. 
               Per quanto riguarda la regolamentazione sociale, la possibilità di fallimenti 
del mercato spinge ad accettare l’idea di una legislazione che protegga le classi più 
deboli e meno informate. 
               Negli anni ’70 questa posizione è andata progressivamente perdendo 
vigore, in particolare, sotto la spinta dalla teoria del “contestable market” (“mercato 
contestabile” o “contendibile”). 
                                                                                                                                                                    
Si verifica una esternalità quando un’impresa o un individuo, nello svolgere la propria attività, arreca 
ad altri un beneficio per cui non può pretendere un compenso (economia esterna) o un danno per il 
quale non deve alcun risarcimento (diseconomia esterna). 
Il fenomeno dipende dal fatto che i diritti di proprietà non sono assegnati ai componenti la collettività 
in maniera chiara e completa, altrimenti le parti tenderebbero a raggiungere un accordo che 
consentirebbe di realizzare una soluzione efficiente. 
Il teorema di Coase, infatti, postula che se i diritti di proprietà fossero chiaramente assegnati, e se 
fosse possibile alle parti raggiungere un accordo, una soluzione efficiente verrebbe conseguita. 
I casi in cui il teorema non è applicabile sono numerosi dal momento che l’accordo presuppone 
informazione perfetta e assenza di costi di transazione. 
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               Tale teoria, germogliata da un ramo della Scuola di Chicago, afferma la 
concezione secondo cui, la presenza in un determinato mercato di un alto grado di 
concentrazione economica (potere monopolistico) potrebbe non essere incompatibile 
con un soddisfacente livello di efficienza. 
               Mentre la teoria della “workable competition” (concorrenza “effettiva” o 
“efficace”)
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, affermatasi precedentemente, raccomanda una politica non 
necessariamente intesa ad eliminare tutte le imperfezioni del mercato, poiché queste, 
se apprezzate nel loro contesto generale, non sono inevitabilmente dannose, la teoria 
del “mercato contendibile”, va anche oltre questa valutazione, giungendo a ritenere 
come possibile l’assoluta compatibilità di un mercato oligopolistico, o addirittura 
monopolistico, con risultati perfettamente concorrenziali
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.   
               Qualora, si sostiene, il monopolista risulti sottoposto ad una concorrenza 
potenziale, alla costante minaccia cioè, dell’ingresso sul mercato di potenziali nuovi 
concorrenti per la mancanza di barriere all’entrata e all’uscita dal mercato, il grado di 
monopolio esistente è irrilevante, in quanto egli sarà sempre costretto ad osservare 
comportamenti rigorosamente concorrenziali, quindi ad adottare un prezzo del 
prodotto il più vicino possibile al suo costo marginale (prezzo concorrenziale). 
               Le diverse correnti di pensiero spesso si richiamano a posizioni contrastanti 
nell’ambito del dibattito relativo alle finalità della disciplina antitrust. 
              
                                                           
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 La “workable competition”, come nota V. Donativi, Introduzione della disciplina antitrust nel 
sistema legislativo italiano, Giuffrè, 1990, ha trovato la sua definitiva affermazione con la 
pubblicazione di uno scritto dell’economista J. M.  Clark nel 1940, dove viene definita come “la 
forma di concorrenza più desiderabile fra quelle praticamente possibili”. 
Tale teoria identifica le sue sorti con quelle della Scuola di Harward, che a partire dagli anni ’40 sino 
alla fine degli anni ’60, fornirà i parametri di riferimento più seguiti dagli studiosi della materia. 
Ancora oggi del resto tale teoria è alla base del filone principale (main stream) dell’antitrust.