2
 Faux-Pas é un libro di critica e di discussione. In questa prima raccolta 
di interventi comincia già a manifestarsi la tendenza alla considerazione 
filosofica del fatto letterario e alla definizione della contraddizione 
fondamentale dell’esperienza letteraria. Ma é sicuramente con L’Espace 
Littéraire e con L’Entretien Infini che la riflessione tocca la massima ampiezza di 
respiro. Nel primo titolo, le analisi monografiche si articolano come momenti 
e argomenti di un discorso essenziale sulla letteratura come esperienza. Il 
secondo fornisce invece un colpo d’occhio filosofico sugli interrogativi più 
essenziali dell’opera, ripresi e sospesi in una densa struttura che si organizza 
talvolta nella forma del dialogo. 
 L’opera narrativa comprende due epoche: quella dei romanzi, Thomas 
L’obscur, Aminabad, Le Très-Haut, scritti tra il 1941 e il 1948 e quella dei 
racconti, L’arrêt de mort, La Folie du jour, Thomas L’obscur (nuova versione), Au 
moment voulu, Celui qui ne m’accompagnait pas, Le dernier homme, L’attente l’oubli, dati 
alle stampe tra il 1948 e il 1962. Successivo, del 1974, ma pubblicato solo nel 
1994, é L’instant de ma mort. 
 Geoffrey Hartman, in un saggio su Blanchot narratore, scrive a 
proposito dei racconti:  
 
« (...) partecipano del conflitto che descrivono. Sono una 
passione che imita un’azione. Blanchot non si limita a 
rappresentare il Nulla o la dissimulazione dell’Essere in 
quanto dissimulazione. Egli ne fa esperienza, e l’invenzione 
narrativa é il suo spazio di sperimentazione »
2
. 
  
Soprattutto a partire dagli anni sessanta, la forma narrativa è stata quasi 
del tutto sostituita da una riflessione di tipo diverso: una nuova forma di 
scrittura, che abbiamo chiamato del terzo genere o aforistica.  
 In questi testi frammentari, Blanchot ci offre un’esperienza diretta del 
pensiero, nella quale la scrittura, con i suoi enigmi, le sue fratture, i suoi abissi, 
si mette a nudo e tenta di dire se stessa. Blanchot applica alla lettera la parola 
d’ordine di Nietzsche: «occorre sbriciolare l’universo», con la differenza che 
questa operazione non è per lui tanto la conseguenza di una scelta, quanto il 
risultato di un’esperienza. 
 Questa esperienza non è data come compimento, piuttosto come 
distruzione, “passaggio ad un disordine”: «Scrivere secondo il frammentario 
distrugge invisibilmente la superficie e la profondità, il reale e il possibile, il 
sopra e il sotto, il manifesto e il nascosto »
3
 ; «Il frammentario non precede il 
tutto, ma si dice al di fuori del tutto e dopo di esso».
4
  
                                                 
2
 G. HARTMAN in The novelist as a Philosopher, Studies in French Fiction 1935-60,  Londra 1962. 
3
 M. BLANCHOT, Il passo al di là, trad. it. L. Gabellone, Genova, 1989, p.42. 
4
 M. BLANCHOT, L’Infinito Intrattenimento, trad. it. R. Ferrara, Torino 1977, p.209. 
 3
 L’opera di Blanchot é in effetti una lunga interrogazione sulla scrittura: 
questionamento incessante sulla tradizione e la letteratura, ricerca sulla loro 
origine, e con essa, di quella dell’opera d’arte, del punto in cui l’ispirazione e la 
sua mancanza coincidono; tuttavia la ricerca di questo centro si disloca per 
effetto di una forza contraria, lasciando spazio all’idea di Differenza, di 
divergenza, come unico centro possibile. Da questa rottura iniziale prende 
parola il frammento, poiché:  
 
«Scrivere non é destinato a lasciar tracce, ma a cancellare, 
per mezzo di esse, tutte le tracce, a scomparire nello spazio 
frammentario della scrittura in modo più definitivo che nella 
tomba, o anche a distruggere, distruggere invisibilmente, 
senza il frastuono della distruzione» 
5
. 
 
 Una espressione cosi varia, il passaggio continuo, talvolta dialogante 
(come nel caso de Le pas au-delà, che non é però isolato) tra riflessione e 
immaginazione, suggerisce innanzitutto una riflessione sul metodo di una 
lettura filosofica. 
 Quale sarà il possibile utilizzo dei tre generi letterari che abbiamo 
individuato? In che rapporto si pongono rispetto alla cronologia della loro 
composizione?  
 In effetti, lo svolgersi della scrittura di Blanchot esclude una trattazione 
diacronica: in nessun modo i tre generi corrispondono a tre fasi differenti della 
riflessione dell’autore. Si tratta di una creazione a più voci, una modulazione, 
che ignora il tempo come dimensione lineare. I temi non si presentano in 
successione ordinata, che permetterebbe una lettura genealogica, ma si 
disperdono e si ripetono, tornando continuamente su se stessi, per ri-dirsi, 
infinitamente. Solo la contemporaneità, la presenza simultanea dell’opera 
potrebbe dire di questa ritrattazione continua del tempo, di questo ritorno.  
 Si potrà perciò accordare priorità ai racconti, sforzandosi di esplicitarne 
la filosofia implicita o inversamente, indirizzandosi primariamente alle opere 
di carattere teorico, si tenterà attraverso di esse di chiarire i racconti. I due 
metodi sono tra loro molto diversi, e la distinzione, se é possibile come ideale 
metodologico, diventa pressoché insostenibile praticamente.  
 Si può allora cercare una via diversa: la ricostruzione dialogante delle 
numerose corrispondenze tra romanzi e saggi, come tentare una 
drammatizzazione dell’opera di Blanchot, all’interno della quale i romanzi 
costituiranno un intermezzo esemplare, la messa in scena di un mondo i cui 
luoghi, i rifugi, le provvisorie dimore, sono continuamente indicati nel 
percorso teorico. Quest’ultimo, ribelle allo sviluppo e alla sistematizzazione, ci 
fornirà indicazioni di percorso e parole chiavi, guidandoci in questa esperienza 
                                                 
5
 M. BLANCHOT, Il passo al di là,op. cit. p.42. 
 4
il cui punto centrale si coglie sempre e soltanto in un non ancora che non é 
l’embrione di uno sviluppo, ma la dimensione stessa del pensiero e del 
linguaggio. 
 Un non ancora, un’attesa sulla soglia, impossibile, necessaria della 
comprensione. «L’attesa -scrive Blanchot in L’attente l’oubli, comincia quando 
non c’è più niente da attendere, nemmeno la fine dell’attesa. L’attesa ignora e 
distrugge ciò che essa attende. L’attesa non attende niente»
6
 Pensiero in 
continuo differimento rispetto a se stesso, privo di essenza, sempre a venire, 
nel quale si sprofonda come nell’oscurità senza riparo, «oscurità assolutamente 
esteriore sulla quale alcuna presa é possibile»
7
. 
 Il rapporto di Blanchot con la scrittura viola la legge del senso, congeda 
la parola che si fa ancella della comprensione, per errare nel deserto 
dell’immaginario, spazio fittizio, «l’altro da ogni mondo». In questo spazio 
fittizio, che é lo spazio letterario, fuori-legge e quindi radicalmente esteriore, la 
parola letteraria si dice come immagine, come qualcosa che «non ha niente a 
che vedere col significato, col senso, come lo implicano l’esistenza del mondo 
e lo sforzo della verità, la legge e la chiarezza del giorno ».
 8
 
 Entrare nell’immaginario è dunque entrare in uno spazio radicalmente 
estraneo, operare, in rapporto al mondo e alla realtà della nostra vita, una sorta 
di conversione fondamentale, entrare nello spazio di un’assenza che esclude 
ogni correlativo di presenza, nella dimensione di un altrove che esclude ogni 
possibilità di essere qui. 
 Parole dell’erranza, che dicono della permanenza del senza luogo. 
L’erranza é per Blanchot l’unica condizione della verità. Cercheremo quindi di 
essergli fedeli e, come «erranti alla ricerca di nulla»
9
, attraverseremo le sue 
opere, rispondendo alla fascinazione della parola. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                 
6
 M. BLANCHOT, L’attente, l’oubli Parigi 1962, p. 51. Nei  riferimenti alle edizioni originali francesi, le 
traduzioni sono mie. 
7
 E. LÉVINAS, Su Blanchot, trad. it. A. Ponzio, Bari,1994, p.55. 
8
 M. BLANCHOT, Lo Spazio Letterario, trad. it. G. Neri, Torino 1967, p. 228.  
9
 M. BLANCHOT, La sentenza di morte, trad. it. G. Pavanello e R. Rossi, Milano 1989, p.63. 
 5
 
“Soltanto la letteratura poteva mettere a nudo il gioco della 
trasgressione della legge, senza la quale la legge non avrebbe scopo – 
indipendentemente dalla creazione di un ordine”. 
Georges Bataille 
 
 Tra trasgressione e ambiguità. 
 
Fare un passo al di là, come un’aspirazione segreta, un desiderio 
testardo, o costante, di chi legge Blanchot; un passo al di là, correndo il rischio 
di mancare ciò che é in gioco nell’oltrepassamento. Corriamo il rischio. 
Ciò che sembra chiamare a questo passo è la presenza insistente della 
trasgressione: nel cuore della Legge. 
Molto presto, nei romanzi e nei racconti, M. Blanchot accorda alla legge 
(la Legge) un posto eminente nel dispositivo narrativo. Penso soprattutto ad 
Aminabad e a Le Très Haut, romanzi dalle inconfessate eco kafkiane, in cui la 
figura della legge (e di ciò che la infrange) é presente con forza tale da poterla 
definire la vera protagonista del racconto.  
Il tema si ripete in quasi tutte le opere, come un filo rosso, variamente 
dipanato. In effetti, il discorso si costruisce come attraversato da un doppio 
solco: trasgressione e ambiguità. Da una parte, la legge é l’universale principio 
d’ordine, il limite invisibile che avvolge e condiziona i comportamenti umani. 
Essa é l’interdetto, la negazione, la cui sostanza impalpabile deve essere a sua 
volta negata attraverso la trasgressione, affinché la legge si possa manifestare 
come giustizia universale e restaurare l’unità. Il rapporto tra trasgressione e 
legge é in questo caso di tipo dialettico. 
D’altra parte, diversamente, ma in intima connessione con ciò che 
abbiamo appena evidenziato, la legge appare come ambiguità, ciò da cui non si 
può uscire, nemmeno attraverso la trasgressione. Essa non é in alcun modo 
principio di unità, é il puro Fuori, ciò che non ha «altra esteriorità che se 
stessa»
10
. Questa legge sfugge alla violazione, perché é già da sempre 
intimamente violata, é ordine e disordine che si implicano reciprocamente. La 
sola trasgressione possibile é auto-trasgressione, trasgressione permanente, 
contraddizione ma, più profondamente, paradosso.  
In tutte e due i casi ci troviamo di fronte ad uno sradicamento della 
particolarità, o della determinazione a se stessa. Tuttavia, questo movimento si 
attua nel primo caso, in direzione dell’universale, nel quale il particolare, 
smarrendosi, ritrova la sua verità e in essa si conferma: la trasgressione 
conferma e legittima ciò che pretendeva negare e in questo riceve la sua 
certezza.  
                                                 
10
 M. BLANCHOT, Il passo al di là, ,op.cit. p.23. 
 6
Nel secondo caso, il movimento si attua in direzione del Neutro, cioè 
senza direzione. La denominazione del Neutro, per la sua struttura indecidibile, 
ne-uter, «né l’uno, né l’altro», non tende al compimento, ma alla cancellazione. 
Il senso della trasgressione é il puro movimento di violazione. 
Questi due aspetti della legge coesistono e si appartengono. La legge del 
Neutro non é negazione della legge dell’universale: la prima non può parlare 
che attraverso la seconda, lasciandola essere e distruggendola con il medesimo 
movimento.  
 
« Sai bene che la sola legge, e non ne esistono altre, consiste 
in questo discorso unico continuo universale che ognuno, 
che sia separato dagli altri o unito a loro, che parli o taccia, 
riceve, conserva e porta avanti in nome di un intimo accordo 
preesistente ad ogni decisione, accordo tale che ogni 
tentativo di ripudiarlo, sempre promosso e voluto dal volere 
stesso del discorso, ne é la conferma, come ogni attacco lo 
rende più sicuro e ogni arresto lo fa durare»
11
.  
 
Non deve stupirci, alla luce di quanto detto, l’ambiguità di questa 
citazione: ciascuno, qualsiasi cosa faccia, appartiene all’universale, ma più 
radicalmente ancora, al Neutro: nei due sensi, niente si appartiene
12
. 
Interdetto e trasgressione sono i due aspetti di una medesima realtà, 
legati nella sostanza ambigua del paradosso. Tra i due termini permane una 
tensione irrisolta e indissolubile. Il rapporto tra i due é sotto il segno della 
circolarità. 
 
«La legge non può trasgredirsi, poiché essa esiste solo per la 
trasgressione-infrazione e grazie alla rottura che questa crede 
di produrre mentre invece l’infrazione altro non fa che 
giustificare, rendere giusto ciò che essa spezza o sfida. Questo 
é il circolo della legge: ci deve essere superamento perché ci sia 
il limite, ma solo il limite, in quanto invalicabile, invita al 
superamento, afferma il desiderio (il passo falso) che ha già 
sempre, mosso dal movimento imprevedibile, superato la 
linea. Il divieto non si costituisce se non grazie al desiderio che 
può desiderare solo in rapporto al divieto»
13
. 
 
                                                 
11
 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, op.cit.  p. XXIV. 
12
Françoise Collin sottolinea a proposito l’equivalenza dei termini “ambiguità” e “trasgressione”: 
ambedue indicano un raddoppiamento e una indecidibilità. L’ambiguità non é l’unità di una dualità, ma 
l’affermazione del «sempre l’uno e l’altro», allo stesso tempo. La trasgressione, dal canto suo, non é il 
passaggio da una regione all’altra, ma « (...) la perpetua lacerazione dell’Uno». Cf. F. COLLIN, Ecriture 
et matérialité in “Critique” n°279-280, 1970, p.750. 
13
 M. BLANCHOT, Il passo al di là, cit.p.22-23. 
 7
Il nesso é così forte da presentarsi sin nell’origine della legge. La sua 
stessa invenzione é la trasgressione essenziale, la quale marca il passaggio 
dall’animale all’uomo
14
. Dandosi una legge, infatti, il pre-uomo viola 
fortuitamente il suo essere naturale, ponendo degli interdetti che «limitano ciò 
che egli é a beneficio di ciò che potrà essere»
15
.  
 
«Per strano che possa sembrare, é forse sempre a partire di 
una trasgressione iniziale che nasce e prende forma la 
possibilità ulteriore dell’interdetto. Innanzitutto, noi 
“trasgrediamo”, poi prendiamo coscienza del cammino che 
così ci si é aperto, stabilendo dei limiti, delle difese, i quali 
spesso ci limitano sotto altre espressioni: la legge é sempre 
violata perché inviolabile»
16
. 
 
A questa prima decisiva trasgressione ne segue un’altra, anch’essa 
regolata, per la quale  
«(...) un istante- il tempo della differenza- gli interdetti sono violati, 
lo scarto tra l’uomo e la sua origine é rimesso in questione e in una 
certa maniera recuperato, esplorato e esperito (...)»
17
. 
Da un punto di vista etico, il primo peccato é quindi l’invenzione della 
legge, la volontà di creare una scienza del Bene e del Male, che dia l’illusione di 
un’origine della finitezza e ponga come presupposta un’innocenza primordiale 
e inattingibile. 
L’invenzione della legge è quindi il principio dell’azione dell’essere 
personale, il quale trasforma il mondo e crea dalle fondamenta un mondo 
umano: “ la segreta dissoluzione”, che è la intima legge di tutto ciò che esiste, 
viene dimenticata a vantaggio di una costruzione ordinata di rapporti, di 
nozioni, di oggetti, in cui è fissato ciò che del perituro sussiste sempre: il 
senso, l’idea, l’universale. L’uomo crea, in questo modo, la stabilità di una 
certezza, di contro alla mutevolezza del dato naturale, delimitando un 
orizzonte di senso disponibile alla comprensione; per finire, egli celebra 
l’instaurazione di un rapporto di potere dell’uomo-soggetto sulla Natura ormai 
oggettivata, rapporto che si esplica attraverso il lavoro della Negazione. Grazie 
al “duro lavoro del negativo”, «in una lotta incessante, il senso viene verso di 
                                                 
14
 Per l’analisi che segue, cf. ID., La naissance de l’art, in M.BLANCHOT L’Amitié, Parigi 1971, p.13-14. 
15
 Ibid., p.14. 
16
Ibid., p.14, nota 1. In questa considerazione della coppia trasgressione/interdetto Blanchot é molto 
vicino all’amico George Bataille. Anche per quest’ultimo la posizione dell’interdetto e la sua 
trasgressione costituiscono la condizione fondamentale del passaggio dall’animale all’uomo (cf. Lascaux 
ou la naissance de l’art, in G. BATAILLE Oeuvres Completes, IX). I due autori hanno ugualmente una 
considerazione analoga del fascino della trasgressione come legittimazione della regola: «La trasgressione 
non é la negazione dell’interdetto; essa lo supera e lo completa». (O.C., X, p.66).  
17
 Ibid., p.14. 
 8
noi e noi andiamo verso di esso»
18
. L’uomo, cercando la sua autonomia dalla 
Natura, depone nel logos la sua opposizione alla natura stessa. 
Il rapporto di potere del soggetto moderno con il mondo che lo 
circonda si oggettiva in un linguaggio che gli rassomiglia. Attraverso di esso, il 
mondo viene sistemato nelle categorie del Medesimo. L’esigenza di ordine e di 
chiarezza si tematizza nel discorso, in una lingua i cui «significati animano i 
verbali o i rapporti dei consigli di amministrazione delle società anonime»
19
.  
Si tratta di un linguaggio dialettico che si afferma come dialogo, ovvero 
comunicazione tra particolarità nell’universale, ma anche come discorso, cioè 
apertura teorica e pratica di questo campo universale. Attraverso di esso 
l’uomo afferma il suo dominio, riconoscendo al tempo stesso la sua 
dipendenza dal mondo e dall’altro uomo. Ma è dialettico anche perché il suo 
movimento, soprattutto nei tempi moderni e nella civiltà occidentale, 
organizza il tempo secondo una scansione lineare (passato, presente, futuro), 
che è la storia intesa come progetto e come progresso. 
Un tale linguaggio è, quindi, teoricamente e praticamente, un fare, una 
praxis. Parlare è la messa in atto di una verità autosussistente, che congeda il 
mondo di cui desiderava parlare. 
La parola dialettica è sempre parola definitoria. Essa é parola generale, 
perché porta la legge. Attraverso il suo movimento, il senso si fa verità. La 
dialettica, organo della filosofia, trova il suo utilizzo più esteso nel “discorso 
compiuto” di Hegel. Da Blanchot a Hegel, il passo é breve, oltre che 
inevitabile, in quanto é Blanchot stesso a fornire questa indicazione. 
La filosofia di Hegel è fondata sulla negatività: la posizione del negativo 
è un momento essenziale del movimento dialettico; essa rappresenta la 
manifestazione dell’alterità come di una determinazione nuova che nega la 
pienezza dell’essere. Il negativo tuttavia é privo di manifestazione propria: non 
é che un momento necessario del processo dialettico, il cui valore sta nell’esser 
parte del movimento del divenire sé. L’essere deve dunque fare esperienza del 
proprio nulla e le determinazioni devono passare attraverso la contraddizione, 
affinché la razionalità possa manifestarsi nell’azione mediatrice della coscienza, 
la quale, raddoppiando la negazione dell’alterità, riconduce il Tutto all’Uno, 
cioè il polimorfo alla quieta identità del pensiero.  
In questo movimento l’alterità perde il suo carattere radicale. Il 
negativo, che è la Differenza, non è pensato in termini di diversità, ma solo di 
opposizione; esso diviene condizione di positività che suggella nell’Aufhebung il 
compimento della dialettica: Hegel scrive in La Scienza della Logica che la 
dialettica consiste nel concepire i contrari come fusi in un’unità o il positivo 
come immanente al negativo. Il negativo nel processo hegeliano è solo una 
differenza transitoria: è un falso limite poiché resta interno alla comprensione, 
                                                 
18
 M. BLANCHOT, L’infinito Intrattenimento, op.cit., p,48. 
19
 E. LEVINAS, Su Blanchot, op.cit., p.69. 
 9
è solo una tappa del farsi verità della certezza. In quanto operazione della 
coscienza, invece esso permane nella sfera del potere: potere di dire l’alterità, 
di sussumerla nelle strutture identitarie del pensiero; potere di misconoscere 
l’alterità, nella misura in cui la differenza è assimilata alla contraddizione. 
L’operazione della dialettica applica la Legge del Medesimo: il compiersi 
del Tutto. L’affermazione dell’insieme è l’unica verità, ed è la Negazione a 
svolgere il lavoro di mediazione, garantendo l’unità di ciò che è separato e 
l’identità di ciò che è diverso.  
Blanchot ricerca un’esperienza diversa della parola: parola che esprima 
il negativo, ma non nella forma della contraddizione. Siamo ormai sospinti 
nello spazio del paradosso.  
Se la contraddizione, infatti, dice: A è uguale a non A; il paradosso dice: 
A non è uguale ad A. Nella prima relazione, i due termini sono in relazione di 
reciprocità e tendono verso l’identità, nella seconda ciascuno è privato 
dall’altro della sua consistenza.
20
  
Nello spazio del paradosso nessuna dialettica è possibile. Qui il 
negativo è alterità, mancanza di sé, separazione incolmabile. L’altro non è 
ripetizione del Medesimo e la parola del paradosso fa eco alla parola coerente 
malgrado la sua differenza e proprio in ragione di essa. L’altro è qui l’altro del 
senso, è sospensione della dialettica attraverso cui il senso si fa verità, apertura 
all’erranza della non verità.  
Questa parola è parola del Fuori:  
 
«al di fuori dell’opposizione, al di fuori della negazione: si 
limita ad affermare ma fuori anche dell’affermazione, in 
quanto non dice che l’infinita distanza dell’Altro (…) ciò che 
sfugge ad ogni potere di negare e di affermare»
21
. 
 
                                                 
20
 Cfr. FRANÇOISE COLLIN, Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Parigi, 1971, pp.196 e sg.  
 In Demeure-M.Blanchot, (Parigi, 1998) Jacques Derrida fa notare come la scrittura di Blanchot si 
costruisca costantemente su sintagmi del tipo «X senza X». In un altro testo, egli tenta l’analisi di alcune 
di queste espressioni: ad esempio, l’oblio, in L’Attente l’Oubli, sarebbe «al di là di tutte le categorie 
dell’oblio, l’oblio dell’oblio o l’oblio senza oblio» ( J.DERRIDA, Parages, Parigi, 1986, p.72).In forma 
diversa ma analoga per la questione del significato, il pas di cui parla Blanchot in Le pas au-delà, non può 
essere compreso né mediante un pensiero dialettico, né con le categorie della logica e della grammatica, 
che imprigionerebbero il pas nella negatività : o un sostantivo (il passo) o un avverbio (la negazione non) 
(Ibid.,p.70 e ss.). Si tratta, invece, di un gioco sempre ripreso di variazioni polisemiche, che aprono ogni 
nozione sul suo contrario, per cui la parola é detta silenzio, il ricordo, oblio, l’origine, inorigine, l’inizio, 
ripetizione. Si pensi a folie du jour (follia del giorno e follia della luce) e ad arrêt de mort (sentenza di 
morte, ma anche arresto, sospensione della morte). Derrida chiama questa pratica della scrittura paralisi, 
dove ciò che sotto i “vecchi” nomi viene ad essere paralizzata è la presenza del presente per abbordare un 
tempo più “antico” del tempo. 
21
 M. BLANCHOT, L’infinito Intrattenimento, op.cit. p.87. 
 10
Si tratta precisamente di una parola neutra. Il Neutro esprime la negazione 
a due termini, aperta, che dice di se stessa solo il proprio differire, «la 
differenza nell’indifferenza, l’opacità nella trasparenza»
22
. 
 Il Neutro non contiene in sé la differenza come momento transitorio, 
esso è la Differenza: è prima dell’Essere e del Nulla, prima del potere di 
negare e di affermare, prima della differenza stessa: per dirla con Derrida, essa 
è parola della Differanza, di ciò che differisce infinitamente e indefinitamente. 
 Il movimento del Neutro non è dialettico né negativo. Esso evoca il 
movimento dell’Aufhebung, ma non ha nulla a che fare con la negazione e la 
negazione della negazione che animano la potente macchina della dialettica: 
non solo sospende questo processo produttivo di significati, così come lo 
troviamo nell’attività di edificazione delle forme, ma nell’interromperlo mostra 
l’assenza d’opera come origine dell’attività stessa dell’operare. Il Neutro è oeuvre de 
désoeuvrement, opera di sospensione e di interruzione d’opera. 
 Fuori della comprensione, fuori dallo spazio inglobante del Logos, 
nello spazio del paradosso. Il Neutro sta dunque come il segnale di una duplice 
discontinuità, una duplice dissimetria, che significa la relazione di infinità e di 
estraneità che intercorre con l’altro del senso. Si tratta di un rapporto di 
interruzione d’essere. 
 
 
La Legge del giorno e il Medesimo. 
 
Legge dell’universale e legge dell’Altro (il Neutro). 
Una sola voce, due parole per dirla.  
- Cogito ergo sum.
23
 
- Penso, dunque non sono.
24
 
Nella prima parola si dice il logos, il rapporto in base al quale la coscienza 
europea ha scandito i ritmi di conformità, di ordine, di felicità e di radicamento 
alla terra. Nella certezza del Cogito é cresciuta la figura moderna del soggetto, 
reso stabile e invulnerabile dall’esercizio della propria razionalità. In esso, 
l’uomo ha costruito la propria dimora, nella quale la Ragione si é nutrita di se 
stessa, facendosi sempre più forte e più certa, più critica e vigile. Di pari passo, 
sempre più illuminata.  
A partire dalla Grecia antica, in un progressivo autorischiaramento, la 
Ragione ha continuato a cercare e ad introdurre tracce di se stessa nella realtà. 
È possibile percorrere l’intera storia della filosofia seguendo le tracce di 
sviluppo di questa esigenza speculativa. L’Aufklärung, il panlogismo hegeliano: 
                                                 
22
 M. BLANCHOT, Il passo al di là,op. cit. p.61. 
23
 R. DÈSCARTES, Discorso sul metodo, IV., in Opere scientifiche di René Descartes, a cura di G. Micheli 
e E. Lojacono, Torino, Utet, 1983,  vol. II, p.143. 
24
 M. BLANCHOT, Thomas l’obscur (nouvelle version) Parigi, 1950, p.114. 
 11
volontà affermative della razionalità; successivamente, nelle sue scansioni 
essenziali, la critica marxiana dell’ideologia, lo smascheramento di tutti i valori 
e la nietzscheana “filosofia del martello”, la scuola del sospetto, la scoperta 
dell’inconscio: volontà di lucidità che tenta di scandagliare e chiarire se stessa, 
fino alla destituzione del soggetto come titolare del linguaggio e del senso, 
nell’opera di quel Wittgenstein che, non a caso, Blanchot cita nella chiusa di 
La Communauté inavouable. 
Ciascuna di queste tappe è una testimonianza in favore della legge, della 
capacità di conferire senso e di appropriare alla comprensione ciò che 
vorrebbe negarla.  
In La folie du jour, il narratore scorge la presenza della legge e tenta di 
costringerla al dialogo. Lei, splendida donna, gli risponde: 
«Io sono l’angelo della discordia, dell’assassinio e della fine » 
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. 
La legge si situa cosi nel luogo della trasgressione, come segno privo di 
significato preciso, ma dotato della forza che trascina il discorso 
nell’oscillazione della deriva, della lacerazione. 
La legge dell’universale é legge del giorno. 
Il riferimento al giorno é chiaramente da intendersi in rapporto alla 
metafora centrale che ha strutturato come una grammatica profonda il sapere 
occidentale. Il giorno é il primato del vedere sulla visione, ciò a cui Platone 
faceva riferimento nel mito della caverna, dove gli uomini conquistano la 
libertà solo quando cominciano a vedere. 
 E’ la metafora della luce del sole, condizione senza la quale gli uomini 
sarebbero condannati per sempre alle ombre della caverna. 
 
«Io ho un tetto, molti non l’hanno. Non ho la lebbra, non 
sono cieco, vedo il mondo, straordinaria felicità. Lo vedo, 
questo giorno fuori del quale niente é. Chi potrebbe 
sottrarmelo? E quando sparirà questo giorno, io sparirò con 
lui, pensiero, certezza che mi trasporta »
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. 
 
Il giorno é anche il mondo hegeliano: mondo della praxis, del Lavoro che 
trasforma incessantemente la natura, della Ragione che si rivela senza posa 
nella Storia, del Progetto che si realizza produttivamente nell’opera, dell’homo 
faber che costruisce un mondo, una seconda natura per soddisfare i suoi 
bisogni, del Politico che fonda e razionalizza lo spazio collettivo della città. In 
questa seconda natura, la coscienza occidentale ha collaudato le sue forme di 
sapere e di tecnica, legittimandole nell’identità dell’ “Io penso”, unità del logos e 
universalità del nomos (etico e politico ad un tempo). Celebrazione del trionfo 
dell’uomo, felicità: trionfo e permanenza del Medesimo, di quell’unità sempre 
ripetuta, sempre uguale a se stessa che é il prodotto del lavoro della Ratio. 
                                                 
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 M BLANCHOT, La follia del giorno,trad.it. F.Facchini e G. Marcon, Reggio Emilia 1982. p 37. 
26
 Ibid. pp.9-11.