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INTRODUZIONE 
 
LA LOCAZIONE DI IMMOBILI  URBANI  E  LA  LOCAZIONE  IN 
GENERALE : RAGIONI E OBBIETTIVI DI UNA LEGISLAZIONE 
SPECIALE. 
 
Che esista un “diritto alla casa” di rango costituzionale , ciò non è più in dubbio. 
 La Corte Costituzionale ha avuto modo di precisarne l’estensione e i confini, 
specificando dopo una prima giurisprudenza restrittiva dei primi anni ottanta (“non 
si può convenire […] nel considerare l’abitazione come l’indispensabile 
presupposto dei diritti inviolabili previsti dalla prima parte dell’art.2 della 
Costituzione […] Del pari, non sembra puntuale il richiamo […] all’art.2 seconda 
parte della Costituzione relativo ai doveri inderogabili di solidarietà al cui 
adempimento i cittadini sono tenuti; come questa Corte ha ripetutamente affermato, 
spetta al al legislatore l’individuazione di tali doveri , nonché dei modi e dei limiti 
relativi all’adempimento stesso”, S. 252/1983)  che esso è una diretta specificazione 
del principio personalistico che informa la nostra Carta costituzionale, nel momento 
in cui promuove lo sviluppo dell’individuo, e delimitandolo nei confronti dell’altro 
diritto costituzionalmente garantito che vi si contrappone, il diritto di proprietà. 
 
In particolare, dopo aver assunto la posizione sopra citata , nel corso degli anni 
ottanta la Corte ha progressivamente mutato indirizzo, fino ad approdare alla 
sentenza 404/88, vero punto d’arrivo di un cammino durato un lustro, in cui la Corte, 
nel dichiarare incostituzionale  una norma in materia di successione nel contratto di 
locazione da parte degli eredi del conduttore, nella parte in cui non prevede  anche il 
convivente more uxorio tra i soggetti che succedono nel contratto, coglie l’occasione 
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per affermare che : 
Come affermato da una recente sentenza di questa Corte (n. 217 del 1988): "il diritto all'abitazione 
rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico 
voluto dalla Costituzione... In breve, creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a 
garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello 
all'abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto 
l'immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun 
caso". Altra sentenza di questa Corte (sent. n. 49 del 1987) aveva già riconosciuto "indubbiamente 
doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di 
abitazione". 
[…] 
Quando il legislatore, nel contesto della legge n. 392 del 1978, detta l'art. 6, rubricandolo 
"Successione nel contratto", esprime il dovere collettivo di "impedire che delle persone possano 
rimanere prive di abitazione", dovere che connota da un canto la forma costituzionale di Stato 
sociale, e dall'altro riconosce un diritto sociale all'abitazione collocabile fra i diritti inviolabili 
dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione. “ 
 
Il diritto alla casa, sebbene non sia espressamente enunciato dalla Costituzione, a 
differenza di altri paesi (ad esempio, in Spagna , all’articolo 47 della Costituzione), è 
ormai a tutti gli effetti nel catalogo dei diritti “sociali” di rango costituzionale al pari 
del diritto all’istruzione, e alla salute,  e d’altronde già nel ’48 aveva trovato 
accoglienza  nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (Art. 25 : “Ogni 
individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il 
benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione al 
vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”;) e nel ’66 
nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Art.11 : “Gli Stati 
parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita 
adeguato per sé e per la loro famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario, 
ed un alloggio adeguati”) . 
 
Come può dunque agire il legislatore , e come in pratica ha agito, al fine di attuare il 
diritto alla casa ? 
Due sono le strade. 
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La prima , che meriterebbe una tesi di laurea  a parte, è l’edilizia convenzionata; si 
consideri che (Dati Eurostat)  l’Italia nel era il terzultimo paese nei “quindici” per 
percentuale di persone che dichiaravano di abitare in una casa attraverso l’”affitto 
sociale”, attraverso cioè locazioni a canone convenzionato stipulate con enti pubblici 
: 3,7%, appena più del Portogallo (3,4%), ma enormemente meno di Francia (21%), 
Regno Unito (18%) e Germania (10%) : basta questo a dire quanto poco si sia 
creduto in questa strada nel nostro paese, ed è sicuramente questa la causa principale 
del disagio abitativo vissuto da tante famiglie in questo paese;  se è vero, infatti, 
come si sta per vedere, che il legislatore ha in mano strumenti , nel bene e nel male, 
in grado di realizzare il diritto alla casa, questo vale soprattutto per la parte di 
“domanda solvente”, di conduttori/persone, cioè, in grado di”stare sul mercato”, al di 
là del grado di vincoli che a questo mercato vengano imposti. 
Esiste però una parte della domanda che è prevedibile che non sarà solvente, ed è lì 
che deve intervenire lo Stato , non essendo  né ragionevole né virtuoso pensare che il 
peso della realizzazione del diritto alla casa ricada interamente sulle spalle di altri 
cittadini, proprietari di immobili,  portatori anch’essi di un diritto di rango 
costituzionale che rischia di essere totalmente travolto , com’è stato in molti casi per 
molti anni, dalle interminabili procedure per rientrare in possesso dell’immobile dato 
in locazione a locatori insolventi, e ricominciare a poterne godere e disporne (è nota 
la lunghezza dei procedimenti di sfratto, e dei mille blocchi e delle mille proroghe 
con cui spesso il legislatore interviene in questo campo, animato da preoccupazioni 
di ordine sociale). 
 
La seconda è l’intervento normativo sul mercato delle locazioni, e di questo si 
occuperà questa tesi di laurea : di come cioè il legislatore abbia agito sul contratto 
che , dai tempi del diritto  romano, regola i rapporti tra chi metta a disposizione un 
bene e chi lo prenda in godimento, e cioè la locazione, al fine di creare una 
disciplina speciale, che andasse a regolare quel particolare tipo di locazione che 
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risponde al nome di locazione di immobili urbani, all’interno del quale  si 
addensano gli interessi contrapposti del locatore- proprietario del bene (diritto di 
proprietà), e il citato interesse del conduttore ad avere un’abitazione dignitosa per sé, 
ed eventualmente per la sua famiglia, nella quale sviluppare la sua personalità.  
 
Due sono i rischi , antitetici tra loro,che il legislatore corre nel porre una  disciplina 
specifica per la locazione di immobili urbani, e sono entrambi facilmente intuibili. 
Ponendo una legislazione troppo “liberista”, che cioè lasci le parti libere di 
determinare gran parte del Regolamento contrattuale, è possibile che il conduttore, 
contraente debole del rapporto,sia sopraffatto dal locatore , e non si realizzi affatto il 
diritto alla casa. 
Ma , al contrario, ponendo una legislazione troppo rigida (ad esempio ponendo nor- 
me imperative riguardo le clausole che regolano l’importo del canone, o la durata del 
contratto) , c’è il pericolo che i proprietari di immobili ritirino questi ultimi dal mer-
cato delle locazioni,non considerato più appetibile, e che i risparmi vengano investiti 
in altri settori finanziari, in competizione con quello immobiliare  , determinando una 
contrazione dell’offerta di immobili in locazione, e di conseguenza lasciando 
insoddisfatta una parte della domanda, (cosa che come si vedrà più avanti, è in effetti 
successa in seguito all’introduzione del c.d. “equo canone”) ,con effetti in parte 
contrari a quelli auspicati (non ci si trova di fronte a nient’altro che ai più elementari 
principi di economia sostenuti dalla c.d. scuola degli economisti “classici”). 
 
Qui ci si occuperà dei principali aspetti del contratto di locazione sui  quali ha agito 
il legislatore al fine di trovare il giusto equilibrio tra i due interessi 
costituzionalmente rilevanti contrapposti :  il canone, la durata del contratto, gli 
obblighi a carico del locatore, la forma del contratto (aspetto questo, diversamente 
da quel che si potrebbe pensare, tutt’altro che ….  formalistico, date, come si 
vedranno, le importanti ricadute sul regolamento “sostanziale” tra le parti), con 
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l’analisi dell’irrinunciabile lavoro fatto intorno a testi normativi non sempre redatti a 
regola d’arte dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito e di legittimità. 
 
DALL’ EQUO CANONE ALLA “LEGGE-ZAGATTI” 
 
La necessità di una disciplina specifica per la locazione di immobili urbani si pone 
per la prima volta nella storia del diritto, nel momento in cui, in seguito alla 
Rivoluzione industriale, si ha il fenomeno dello spostamento di massa dalle 
campagne alla città, con la conseguente necessità per un gran numero di persone di 
trovare un alloggio in locazione : diventano centrali allora la definizione di aspetti 
quali la durata del contratto, l’importo del canone, le clausole di aggiornamento, di 
un contratto, quello di locazione, che dopo secoli di tranquilla esistenza giuridica, 
diventa improvvisamente lo strumento giuridico attraverso cui milioni di persone 
misurano la dignità della propria vita. 
 
In Italia, l’anno della “svolta”, in cui per la prima volta si detta una disciplina 
organica ed esaustiva del contratto di immobili urbani, che si differenzia dalla 
legislazione codicistica in modo sensibile in molti punti, è il 1978, anno in cui vede 
la luce la legge 392 – “Della disciplina degli immobili urbani”, che coordinata con la 
legge 457 dello stesso anno (“Piano decennale per l’edilizia pubblica”), avrebbe 
dovuto , nei disegni del legislatore , attuare pienamente il diritto alla casa. 
La legge 392 è stata subito battezzata “Legge Equo-canone”, dal punto saliente 
della disciplina posta : l’imposizione di un canone legislativo calcolato sulla base del 
valore dell’immobile locato ( in particolare, il 3,85% del suo “valore locativo”,del 
quale non è il caso in questa sede di analizzare le complesse procedure di calcolo); 
tutto l’impianto della l. 392 è però improntato alla compressione dell’autonomia 
delle parti : vengono disciplinate con norme imperative anche la durata del contratto 
,(quattro anni, con proroga semiautomatica di altri quattro), l’aggiornamento del 
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canone, la sublocazione , e, con norma “di chiusura”, l’art.79, si esplicita la nullità 
dei patti contrari alle disposizioni della legge. 
La  l. 392 tra l’altro si occupa anche di locazioni di immobili urbani ad uso non 
abitativo , per le quali, non essendo incorse successivamente rilevanti novità 
legislative, è ancora il testo normativo di riferimento. 
 
Di una legge come la legge-equo canone, che riordinasse organicamente la materia, e 
“aggiornasse” le disposizioni codicistiche, ferme alla realtà del 1942 , si sentiva 
senz’altro l’esigenza;  il contenuto concreto della l.392, legge sostenuta fortemente 
all’epoca dai Partiti Comunista e Socialista, ma approvata e votata da tutti gli altri 
partiti, escluso quello Liberale,  sollevò però subito svariate perplessità, dal momento 
che si temeva che l’imposizione di così tanti vincoli ai locatori avrebbe danneggiato 
il mercato delle locazioni, provocando il ritiro degli immobili da un mercato non più 
redditizio.  
Timori fondati : negli anni ottanta il mercato delle locazioni, già in crisi a causa 
dell’inflazione degli anni ’70 , subì anno dopo anno un’ulteriore contrazione ; in 
fondo non si stavano realizzando altro che le previsioni della maggior parte degli 
economisti “classici” : all’introduzione di un tetto massimo ai prezzi, si ha una 
contrazione dell’offerta, e solo una parte della domanda, quella che riesce ad ottenere 
il bene, trae vantaggio dal “tetto” ; l’altra parte resta semplicemente insoddisfatta, per 
carenza d’offerta. 
 
Si potrebbe dire che il problema di un mercato delle locazioni asfittico in Italia  è 
storico,  e  se  si osserva il favor del legislatore (indipendentemente dal suo colore 
politico) per incentivi ai mutui per l’acquisto di una casa, o al contrario la sua scarsa 
volontà di  puntare sull’edilizia convenzionata ,sembra quasi che ci sia una 
predisposizione  di fondo , culturale, ad avere cittadini proprietari di casa, piuttosto 
che in affitto, con ciò che ne consegue in positivo in fatto di sicurezze a lungo 
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termine,e  in negativo, in termini di difficoltà per giovani senza le risorse per 
acquistare una casa ad abbandonare la casa familiare: ma questi sono temi 
sociologici che ci porterebbero lontano. 
 
Tornando alle conseguenze della l.392,negli anni successivi al ’78 , appena fu chiaro 
che la legge aveva un effetto troppo depressivo sul mercato, iniziò il dibattito su 
come cambiarla, con le organizzazioni rappresentative dei proprietari impegnate in 
prima linea  a denunciare la natura eccessivamente dirigistica dell’equo-canone1,e a 
chiedere la liberalizzazione, le associazioni degli inquilini, al contrario, schierate a 
difesa della legge, auspicando al massimo qualche modifica marginale, e la classe 
politica in mezzo, foriera di variegate idee di riforma, (tra cui quella di delegare a 
“Commissioni arbitrali” di composizione mista la determinazione concreta del 
canone corrispondente a ogni immobile2),nessuna delle quali però si tradusse mai in 
legge. 
 
Per arrivare a una svolta ci fu bisogno di una crisi economica : nel 1992 il Governo 
Amato, nella inderogabile necessità di assicurare nuove  entrare fiscali allo Stato, in 
vista di un risanamento del bilancio imposto dall’Europa, (la ratio è chiara  se già si 
ha presente che la norma è inserita nel d.l. “Misure urgenti per il risanamento della 
finanza pubblica) apre le porte ai c.d. “Patti in deroga”, ossia dispone la  possibilità 
di  stipulare contratti con canoni maggiori di quelli stabiliti dalla l. 392,(in “deroga”),  
seppur con l'”assistenza” delle  organizzazioni della proprietà edilizia e dei 
conduttori maggiormente rappresentative a livello nazionale, con l'obbiettivo di fare 
“emergere” i rapporti contrattuali con canoni superiori ai consentiti, e i relativi 
                                                 
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  “Nel momento in cui, in sede internazionale, assistiamo alla sconvolgente evoluzione dell’economia 
dei Paesi socialisti che rifiutano ormai la logica delle “tariffe” che ha solo distrutto ricchezze e creato 
miseria, cercando invece di approdare alla logica del mercato che in tutto il mondo ha dato all’uomo 
benessere e felicità : ecco, in quetso momento in Italia […] una legge come quella che ora discutiamo è cosa 
veramente inaccettabile”. Attilio Viziano, Pres. Confedilizia, in “Le locazioni a dieci anni dall’equo canone 
: prospettive di riforma”, 1988 
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   Una proposta del senatore democristiano Bausi, in “Le locazioni a dieci anni dall’equo canone : 
prospettive di riforma”, 1988 
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imponibili, preziosi per le casse dello Stato. 
La disposizione, criticata da più parti, anche a tacere delle censure avanzabili in tema  
di lesione dell'autonomia privata, (possibile che una parte non iscritta a nessuna delle 
due associazioni dovesse farsi”imporre” la misura del canone da esse ? A questo 
punto era forse meno mortificante per l’autonomia privata che fosse la legge a 
imporre il canone !)   suonava alquanto enigmatica, non potendosi  
chiaramente stabilire cosa s'intendesse con “assistenza”, ed è stata giustamente 
dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la S. 309/1996. 3 
 
Ormai però era maturata la convinzione di ridefinire radicalmente la materia e 
eliminare l'equo canone, e questo avvenne nel 1998, con la l.431. 
 
La l.431 , detta anche “Legge-Zagatti” dal nome del senatore ferrarese che ne fu 
primo firmatario, è percorsa da una ratio antitetica rispetto a quella della l.392. 
                                                 
3
  “L'assistenza può costituire solo un vincolo procedurale, diretto a garantire che il 
contraente debole sia informato e sostenuto, e realizzare così un equilibrio tra le parti nella 
stipulazione del contratto, senza che tuttavia sia necessario l'assenso di chi vi assiste.  
 Ma in tal caso non trovano giustificazione logica né l'assolutezza e la generalità 
dell'obbligo di ricorrere all'assistenza, indipendentemente dalla capacità dei contraenti di 
autonoma valutazione, né l'attribuzione esclusivamente ad alcuni soggetti della 
legittimazione a prestare validamente un'assistenza che assume connotazioni 
prevalentemente tecniche.  
 Si può ritenere, invece, che l'assistenza sia tale da incidere sui contenuti del negozio 
tra le parti e che l'assenso delle contrapposte associazioni di categoria concorra a conferire 
validità agli accordi in deroga a disposizioni imperative.  
 Ma, in questo caso, manca qualsiasi indicazione sui criteri o sui parametri di valutazione, 
cui le associazioni debbono ispirarsi per assentire assistendo. L'indicazione di tali criteri o 
parametri si dimostra ancor più necessaria se si ritiene che attraverso le valutazioni delle 
associazioni si eserciti un controllo sull'autonomia negoziale delle parti non 
nell'esclusivo interesse di queste, ma per perseguire un interesse collettivo, che in tal 
caso dovrebbe essere chiaramente individuato. Sarebbe, difatti, del tutto irragionevole l'esito 
della disciplina legislativa che rimettesse la possibilità di derogare a norme imperative alla 
determinazione, meramente potestativa e del tutto insindacabile, di associazioni private.  
 Non è, dunque, in discussione la legittimità del collegamento della validità di una deroga 
a norme imperative con l'assolvimento di un onere di assistenza, ma sono poste in questione le 
modalità con le quali questo onere si atteggia. Il meccanismo indicato dal legislatore si 
presenta, difatti, incongruo rispetto alle finalità perseguite (tanto che si tratti di sostenere 
le parti nel convenire patti in deroga, quanto che si tratti di controllare il contenuto di questi) 
ed incoerente nella sua configurazione interna, in contrasto, quindi, con il principio di 
ragionevolezza stabilito dall'art. 3 della Costituzione.”