7
 
 
E in quanto sollecitatrice dello spirito è anche luogo nel quale, 
meglio che altrove, si evidenziano tutte le particolarità culturali e storiche 
dell’uomo, di “quell’uomo” che muore o che si prepara a morire. 
E’ significativo che in un periodo storico, come quello 
contemporaneo, nel quale la morte appare quasi come scandalo di 
inefficienza e fallimento di fronte ai progressi innegabili delle scienze, si 
propongano diversi studi sul cerimoniale riguardante la morte sia in chiave 
sociale che culturale e antropologica. Esempio importante sono gli studi di 
Ariès e Vovelle, ampiamente citati in questo lavoro, che hanno proposto 
questo particolare angolo di osservazione come prospettiva privilegiata per 
l’analisi  del quotidiano storico. Ma tale prospettiva, proprio per la sua 
ampiezza e il suo tentativo di esaustività, rischia di appiattire le differenze 
e le peculiarità proprie di ciascuna cultura locale, ricchezza innegabile di 
ogni patrimonio storico. In effetti, parafrasando la citazione precedente, 
non si può fare un discorso sulla morte a prescindere dagli uomini che la 
morte hanno vissuto, come evento della loro esistenza, che ad essa si sono 
preparati immersi nel magmatico insieme di fede, cultura, tradizioni e 
superstizioni che ogni evento decisivo ha in sé. 
Il percorso tracciato da Ariès e Vovelle proponeva un itinerario 
cronologico che da un angolo visuale molto ampio focalizzasse lo sguardo 
dell’osservatore sul particolare della cultura locale, trovandovi coerenza 
con il generale e con la norma diffusamente accettata. Quasi uno sguardo 
gettato dall’alto verso un panorama uniforme le cui particolarità, messe a 
fuoco di volta in volta, ribadissero la sua coerenza di fondo. Ovviamente 
 8
un tale criterio di osservazione parte dalla convinzione, ampiamente 
giustificata dall’antropologia culturale e dalla sociologia, che una cultura 
condivisa porti gli uomini, nella singolarità della propria esperienza, ad 
atteggiamenti e pensieri simili di fronte alle grandi scelte della propria 
esistenza. Ma poiché il particolare locale sfugge necessariamente da un 
simile studio e tuttavia ne è la base ineliminabile, tutte le diverse 
sfumature che esso apporta in una ricerca siffatta rischiano di diventare 
ombra, scarsamente valorizzate se non cancellate. La conseguenza di tale 
ragionamento sarebbe che la storiografia contemporanea, quella, almeno, 
indicata da Annales, dovrebbe essere la somma di tutte le storiografie 
locali nelle quali, l’indagine non si fermi al fenomeno del passato ma parta 
dall’osservazione delle strutture culturali presenti che in quel passato 
hanno le proprie radici e i propri motivi. 
Il percorso di studio proposto in questo lavoro, proprio per il fatto di 
partire da un angolo d’osservazione molto ristretto, permette di analizzare 
il tema a partire dal particolare, per trovare in esso una giustificazione 
generale che lo renda coerente con una filosofia condivisa sia dalla massa 
della popolazione che dalle élites della società. Infatti Castelvetrano, 
piccolo centro della provincia di Trapani, presenta tra il 1500 e il 1700 un 
periodo di grande  e promettente  fervore culturale, inserito, attraverso la 
famiglia signorile dominante, in un circuito che lo legava alla corona 
spagnola e, quindi, alla storia e alla cultura dell’Europa dei grandi. Inoltre 
la scarsa mobilità del tessuto sociale, i mutamenti lentamente assimilati 
dalle strutture societarie, la stessa posizione geografica decisamente 
defilata rispetto alle grandi vie di comunicazione che in quel periodo si 
 9
spostano verso l’Atlantico, facendo del Mediterraneo la periferia della 
terra, permettono di leggere in trasparenza tutta la crisi di un mondo che 
cambiava e che cercava di rimanere simile a  sé stesso il più a lungo 
possibile. 
Forse tale prologo mi porta a voler giustificare il particolare angolo 
di osservazione da me scelto in questo lavoro, seppure il semplice amore 
per la storia dimenticata di un angolo di Sicilia basterebbe a giustificarlo. 
In realtà, in questi ultimi anni, dopo una colpevole dimenticanza durata 
secoli, pare risvegliarsi tra la cittadinanza colta di Castelvetrano l’interesse 
per le proprie radici storiche, ancora vive tra le pietre dei palazzi lasciati 
cadere in rovina.  
La ricerca storica è, a volte, come un armadio dalle cui ante possono 
venir fuori “scheletri dimenticati”. Lo sanno bene i miei concittadini che 
per decenni hanno cercato di dimenticare che la cittadina ha dato i natali a 
Giovanni Gentile, quando la situazione politica non permetteva di essere 
orgogliosi di un simile privilegio; o anche quando un assessorato ai beni 
culturali incompetente e sonnacchioso ha permesso che le spoglie di don 
Carlo d’Aragona venissero poste tra i calcinacci  da muratori ignoranti 
durante un restauro grossolano. Si deve a poche persone sensibili il 
recupero di lontane memorie di cui, adesso, sembra che tutti vadano fieri. 
Questo dimostra che non esiste disciplina totalmente incolpevole o 
totalmente libera, e che ogni studio è figlio del suo tempo.  
Sicuramente l’esistenza, a Castelvetrano, della tomba di don Carlo d’Aragona 
“Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di 
Burgeto, grande Ammiraglio e Gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e 
 10
Capitano Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia”
2
 è stata uno dei motivi principali 
che mi hanno spinto a intraprendere una ricerca di tal natura.  Questo notevole 
personaggio, vissuto in un periodo di grandi trasformazioni per la storia europea, 
rappresentava, per me, un importante punto di raccordo tra il particolare locale e il 
generale storico, collegando la storia di Castelvetrano con quella della corona di 
Spagna, durante un periodo storico travagliato e denso di importanti conseguenze per 
la storia dell’Europa e della civiltà Occidentale. Anche la Sicilia, seppure in una 
forma mitigata dal profondo attaccamento della sua gente per le tradizioni, viveva un 
importante periodo di fermenti che, purtroppo, non avrebbero dato origine ad alcuna 
forma originale e permanente di mutamento sociale.  
Il Concilio di Trento, il cui svolgimento storicamente si pone tra l’inizio 
dell’ascesa della famiglia aristocratica castelvetranese dei Tagliavia e la fine della 
residenza stabile della famiglia Aragona nel paese, dopo l’imperversare della peste 
del 1624, rappresenta un riferimento importante per comprendere il mutare, seppur 
lento, degli atteggiamenti sociali e religiosi nei confronti della morte. Inoltre, proprio 
il 1624 è l’anno del ritrovamento, sul Monte Pellegrino di Palermo, dei resti di Santa 
Rosalia e del “lancio” del suo culto, ispirato, come testimonia bene Sara Cabibbo
3
, da 
nuove strategie attuate dal Cardinale Doria, Arcivescovo di Palermo, che da quel 
culto parte per una rivisitazione, in chiave tridentina, del concetto di santità, prima 
legato al martirologio e adesso largamente ispirato dall’appartenenza agli ordini 
religiosi a cui l’ideologia conciliare ha affidato la “riconquista” cattolica. Nello stesso 
anno, durante l’imperversare dell’epidemia di peste, a Castelvetrano muore un erede 
di don Carlo, don Giovanni III d’Aragona,  il quale chiede, con disposizione 
testamentaria, di essere seppellito nella chiesa del convento dei Cappuccini, ordine 
religioso importantissimo nelle strategie di “rievangelizzazione” delle masse popolari 
disorientate in area tedesca e altrove dalla Riforma luterana. 
                                                          
2
 A. Manzoni, I promessi Sposi, Sansoni Editore, Firenze, 1964, p.12. 
3
 Cfr. Sara Cabibbo, Santa Rosali tra terra e cielo, Sellerio Editore, Palermo,2004. 
 11
I fili che legano Castelvetrano alla coeva cultura europea, quindi, non sono né 
sottili né inconsistenti, poiché la sua storia può, a ragione, inserirsi pienamente nella 
storia della Spagna al suo apogeo di potenza e di influenza politica e culturale. 
Come si può vedere, dunque, sono fondate le motivazioni che mi hanno spinto 
ad intraprendere questa indagine storica a partire da una prospettiva, quella della 
morte, che ogni siciliano porta come bagaglio personale e sociale, nel suo vissuto 
culturale. Infatti, probabilmente perché fino a pochi decenni fa la Sicilia lamentava 
ancora un’alta mortalità dovuta all’arretratezza delle sue strutture sanitarie, il senso 
della precarietà della vita e la secolare rassegnazione popolare all’evento luttuoso 
come evento della quotidianità, hanno scavato nell’animo di ogni siciliano un 
atteggiamento quasi “islamico” nei confronti della morte. Essa è rimasta un evento 
pubblico, seppure adesso, la generale tendenza alla privatizzazione del dolore e 
all’emarginazione della morte e dell’agonia dall’esperienza quotidiana, stiano 
lentamente cambiando certe strutture di pensiero. La Sicilia è ancora l’ultimo angolo 
d’Italia in cui il 2 novembre è, per i bambini, un giorno di festa, in cui si ricevono 
doni e ci si mette l’abito buono per andare al cimitero. 
Ma al di là di tutte le sollecitazioni personali e sociali la ricerca si è avvalsa di 
una mole importante di documenti e monumenti che in questi ultimi tempi stanno 
vivendo una rivalutazione per merito di alcuni sensibili uomini di cultura di 
Castelvetrano come il Dott.  Aurelio Giardina e il Prof. Gianni Diecidue, che con 
pazienza certosina hanno rispolverato antichi manoscritti, oppure il Sig.  Vincenzo 
Napoli che ha un ricchissimo archivio di foto dal quale, per sua concessione, ho 
ricavato quelle che arricchiscono in appendice il presente lavoro. 
Ma  documenti fondamentali sono stati le testimonianze monumentali e i 
documenti manoscritti. A partire dalla chiesa di San Domenico, per decenni 
abbandonata all’offesa del tempo, nella quale si trova il sarcofago con le spoglie di 
don Carlo, fino ad arrivare alla mole architettonica che in quell’arco di due secoli ha 
arricchito le strade e le piazze del paese per espressa volontà dei signori e dei notabili 
di Castelvetrano. Tra i manoscritti, i più importanti utilizzati in questo lavoro sono 
 12
stati: la relazione del canonico Noto, segretario del duca di Terranova, al suo signore 
che gli chiedeva notizia dei possedimenti che gli erano pervenuti in eredità, nel 1732; 
il “diario” tenuto dal notaio Vincenzo Graffeo durante l’epidemia di peste nel paese e 
inoltre i testamenti di alcuni dei protagonisti della storia. Infine, coerentemente con il 
mio personale patrimonio culturale, ho voluto terminare il lavoro con le 
testimonianze orali di una cultura popolare che comincia a sparire, patrimonio delle 
passate generazioni a cui le nuove guardano con indifferenza. La trasmissione orale 
di usi e superstizioni legate alla morte è resa possibile dalla sopravvivenza di un 
mondo “magico” che solo il potere della televisione ha strappato dalla emarginazione 
in cui è vissuto fino alla Seconda Guerra Mondiale. La Sicilia, per secoli periferia 
della civiltà occidentale, preda di trafficanti della politica, pozzo senza fondo di 
sussidi economici volatilizzatisi misteriosamente, ha vissuto, a livello popolare, in 
una nicchia oscura che ha salvaguardato un certo tipo di cultura (o subcultura). Le 
nuove generazioni, prive di questo patrimonio, rischiano di perdere i contatti con le 
proprie radici nell’omologazione prodotta dai vari reality show della tv spazzatura. 
Lungi da me il desiderio di una reviviscenza di quell’armamentario di superstizioni 
frutto di altre esperienze  e di emarginazione, ma la conoscenza di quel mondo ormai 
sparito potrebbe ispirare una rielaborazione degli atteggiamenti contemporanei verso 
la malattia e la morte. 
Come sostiene Cecilia Costa: 
 
 
Il malessere della cultura contemporanea è, in parte, il prodotto della crisi di una libertà 
svuotata di contenuti ideali: l’autonomia raggiunta dall’ “attore sociale” reca in sé un 
disorientamento che trae origine dalla perdita della “nozione di transitorietà della vita”; il dibattito 
in corso sulla “dolce morte” è una sintesi di tendenze etico-psicologiche moderne, alimentate 
peraltro da un desiderio –provocato dall’incrociarsi di scienza e ragione- di ottenere a tutti i costi “il 
controllo della propria vita al momento stabilito, anzichè essere soggetti ai capricci della malattia e 
di una lunga agonia”.
4
 
 
 
 
                                                          
4
 C. Costa, L’individuo la morte e la malattia, op. cit., p.89. 
 13
Ma questo desiderio di controllo dei meccanismi della vita, ci priva, in 
definitiva, del controllo sui meccanismi psicologici della morte, in quanto non ci 
permette di essere pronti all’evento se non con un senso profondo di angoscia. 
Indubbiamente i nostri antenati avevano un orizzonte di fede religiosa universalmente 
condiviso che permetteva loro di avvicinarsi all’evento definitivo con parziale 
serenità, inquadrandolo nell’ambito di un Progetto divino del quale ogni singolo 
essere faceva parte. La tomba diveniva parte di un momento della storia 
dell’individuo, e non la parte definitiva, ma il luogo dell’attesa, del riposo fiducioso, 
dell’eternarsi della memoria, il legame tra il mondo dei vivi e quello delle anime 
purganti che ai vivi chiedevano ancora affetto e preghiere. Prepararsi, quindi, 
all’evento della propria fine terrena, rappresentava per loro una chiusura parziale dei 
conti con il biblico “Dio dei viventi”, in attesa dell’evento finale, del giudizio alla 
fine dei tempi, quando la solidarietà degli eredi verso gli antenati avrebbe dato i suoi 
frutti. Allora, nella tomba, avrebbe brillato la luce della resurrezione, nella cui fede 
tutti quegli uomini si sono addormentati. 
 14
CAPITOLO I 
 
Castelvetrano e le sue terre 
 
Per la filosofia marxista le sovrastrutture culturali sono determinate dalle 
strutture sociali, prima tra tutte quella economica. Seppure non sia d’accordo con tale 
posizione, è innegabile che le contingenze economiche di un’epoca, insieme ad 
infiniti altri fattori, non ultimo la creatività adattiva dell’uomo, possono avere delle 
influenze sul modo di percepire il mondo e sé stessi. Per questo motivo, per 
comprendere una società, bisogna gettare lo sguardo sul suo sistema di 
sopravvivenza, sui rapporti di potere, sulle strategie di scambio di beni e di cultura. 
 
 
1.1 L’economia siciliana del Cinquecento 
 
Già a  partire dalla seconda metà del Quattrocento in tutta Europa si assiste ad 
una sicura e continua crescita demografica causata da una serie di fattori, non ultimo 
dei quali l’attenuarsi della violenza delle epidemie che fino a pochi decenni prima 
avevano falcidiato con la loro virulenza le popolazioni europee. Era stata proprio 
quella diminuzione della popolazione a garantire una maggiore quantità di terreno 
sfruttabile pro capite e quindi una migliore e più sufficiente alimentazione per i 
sopravvissuti, garantendo così una migliore qualità di vita e l’aumento della natalità 
conseguente ad una diminuzione di rischio alla nascita. 
Si afferma una tendenza che già da un paio di secoli era in netta crescita: una 
crescente urbanizzazione e una maggiore densità abitativa che si mostra 
 15
maggiormente evidente nelle grandi città europee: Londra passa da 60.000 a 170.000 
abitanti, Parigi da 100.000 a 200.000, Lisbona da 50.000 a 120.000.
5
 
Diversa era la situazione della Sicilia, periferia di un mondo che cominciava a 
spostare il centro dei propri interessi economici verso altri mari e verso altre terre. La 
mancanza dei traffici commerciali  causata sia dalla scoperta di nuove vie per lo 
sfruttamento delle risorse, sia dalla presenza nel Mediterraneo delle navi musulmane, 
aveva impedito la ripresa economica spingendo i contadini ad abbandonare le 
campagne e trasferirsi nelle città coerentemente con la tendenza europea. 
 
“Se la Sicilia dopo la morte di Alfonso il Magnanimo, avvenuta nel 1458, durante il regno 
del successore Giovanni II già duca di Penafjel, che cercò di apparire come il reintegratore 
dell’ordine e dell’onestà amministrativa, quanto il fratello aveva creato disordine ed autorizzato 
brogli, sperò di sollevarsi dal grave stato di prostrazione economica in cui era precipitata durante il 
quarantennio nel quale la politica fiscale alfonsina aveva disintegrato lo Stato, vendendo e 
rivendendo tra l’altro le Universitates e rendendo ordinaria la finanza straordinaria che soprattutto 
non aveva mai tenuto conto dell’effettiva capacità contributiva dell’isola, assorbendo capitali vistosi 
e ponendo le premesse dei fallimenti a catena dei banchieri privati, in realtà la necessità di disporre 
di mezzi finanziari congrui per la repressione della rivolta scoppiata in Catalogna, costrinse il nuovo 
re a continuare ad esercitare sull’isola una notevole pressione tributaria. 
Né la situazione subì modifiche sostanziali nei decenni successivi allorché, in particolare, 
Carlo V, a partire dal 1518 introdusse “tali e tante serie di richieste straordinarie da superare di gran 
lunga quelle del suo antenato Alfonso. E queste richieste straordinarie- ha sottolineato il Garufi- si 
facevano proprio nel momento in cui, dopo la caduta di Costantinopoli, […] da parecchi anni le 
nostre navi- ha rilevato il Garufi- avevano perduto le rotte per gli antichi scali di commercio col 
Levante che facevano capo ai grandi empori di Messina e di Trapani, tagliavano fuori, dopo la 
scoperta del nuovo mondo, dalle vie che s’erano già aperte agli scambi con l’Europa di nuovi 
prodotti e di grandi ricchezze”.[…] Tra donativi ordinari e straordinari durante il quarantennio di 
regno di Carlo V (1517-1556) la Sicilia sborsò l’ingente somma di oltre undici milioni di fiorini 
aragonesi con gravi ripercussioni negative sul suo sviluppo sociale ed economico.”
6
  
 
 
In un’economia così provata qualsiasi momento di crisi, come una carestia o 
una siccità, può avere pesanti ripercussioni. Infatti a questa situazione già piuttosto 
problematica si aggiunge che una importante risorsa economica che derivava dalla 
produzione dello zucchero venne a ridursi drasticamente. Infatti: 
 
 
                                                          
5
 Cfr. R. Salvalaggio, Storia, 2, Dall’età moderna alle rivoluzioni borghesi, PM, Mondadori Scuola, Milano, 1999, pp. 
14-15 – Altre stime sono date da M. R. Reinhard – D. Armengeaud – J. Dupuquier, storia della popolazione mondiale, 
Laterza, Bari, pp. 165-171 e da M Novelle, La morte e l’Occidente, Laterza, Bari, 1993, pp. 138-145. 
6
 R. Giuffrida, La Sicilia del Cinquecento, in  Atti del congresso di Mazara del Vallo raccolti a cura di G. 
 Di Stefano, Istituto di Storia del Vallo di Mazara, Trapani, 1989, pag. 91-93. 
 16
nella seconda metà del quattrocento l’industria dello zucchero siciliano subì una recessione a 
causa di una siccità che colpì i luoghi di produzione tradizionali situati alla periferia di Palermo. 
[…] La siccità cui si era accennato non ebbe carattere transitorio. Si protrasse infatti per oltre un 
ventennio tra il 1491 e il 1515. […] Il travaglio che afflisse in quegli anni l’economia agricola 
siciliana emerge in maniera incontrovertibile dalle numerosissime richieste di moratorie e dilazioni 
giustificate con la “sterilitati di lu tempo” e per la “pexima staxioni” che causò il fallimento di vari 
mercanti.
7
 
 
 
 
Approfittando di tanta fame di denaro, necessario per investimenti come per le 
piccole spese, dilaga sull’isola la piaga della moneta falsa: “in Sicilia infatti venivano 
introdotti aquile e piccoli falsificati in Calabria in tale quantità che su ogni 10 monete 
9 erano false. Una situazione del genere determinò la necessità di ben tre riforme 
monetarie, quella del 1490, quella del 1513 e quella del 1531.”
8
 
Un’economia, dunque in grave recessione che determina il fallimento di 
numerosi banchieri dell’Isola, e quindi causa la sparizione di una promettente 
borghesia capitalistica di origine non nobiliare che avrebbe potuto riservare alla 
Sicilia, forse, ben diversi capitoli di storia. Inoltre 
 
 
 parecchi mercanti amalfitani, pisani, lucchesi, veneti, abbandonarono l’isola: Vi rimarranno 
soprattutto mercanti-bancari genovesi che dall’epoca di Filippo II a quella di Filippo IV metteranno 
in moto un meccanismo di drenaggio finanziario che contribuirà a scardinare le strutture dello Stato 
siciliano ponendo le premesse di un nuovo processo di rifeudalizzazione dell’isola.[…] Va però 
detto che nonostante la crisi cui si è accennato le fonti fanno fede di un incremento demografico 
generale. […] Tale incremento demografico, accertato anche da una sistematica serie di indagini 
documentarie effettuate da Maurice Aymard, sembra tuttavia arrestarsi intorno agli anni 1570-83 
epoca in cui avrà inizio la grande ondata di fondazioni feudali di nuovi centri rurali, concentrata 
soprattutto nella Sicilia Occidentale.
9
 
 
 
 Ia situazione di profonda crisi che travaglia la Sicilia tra il XV e il XVI secolo 
è resa evidente dalla recrudescenza del brigantaggio, ultima spiaggia delle 
popolazioni maschili contadine che, costrette alla fame dalla rifeudalizzazione di cui 
                                                          
7
 Ibidem, pag. 93-94. 
 
 
8
 Ibidem, pag. 95. 
 
9
 Ibidem, p. 96-97. 
 17
sopra si è parlato, e impoverite ulteriormente dal disboscamento selvaggio che 
privava le famiglie di tutta una serie di piccoli prodotti di raccolta per l’uso 
domestico o la piccola vendita, impossibilitate a far fronte ai debiti contratti, si 
davano alla macchia vivendo di rapine e furti di bestiame.
10
 “Il 19 luglio 1497 Juan 
del la Nuza avendo avuto notizia “che continuamente si commettevano varii e diversi 
furti e latrocinii di bestiame” commina gravi pene a carico delle persone che lo 
acquistano senza la prescritta certificazione.”
11
 Come sempre si cercò di risolvere il 
problema ricorrendo alla repressione senza tentare non solo di risolvere le cause di 
tale manifestazione di malessere generalizzato ma neppure di comprenderne le 
motivazioni. L’istituzione di forze armate deputate al controllo non risorse il 
problema che rimase sempre presente e strisciante nell’isola per secoli, educando 
all’illegalità generazioni di diseredati. 
Altro sintomo della crisi è il venire alla ribalta di una serie di nuove nobiltà 
sostenute dal potere del denaro, in sostituzione delle antiche casate nobiliari in 
difficoltà economica. 
   
 
E’ l’epoca in cui “la vecchia aristocrazia orgogliosa delle sue origini (vere o supposte) o più 
spesso aragonesi, viene rinnovata dall’ascesa” dei parvenus i quali, per lo più di estrazione 
mercantile, attraverso la concentrazione delle successioni s’inseriscono tra il 1550 sino al 1600 nei 
primi ranghi nobiliari, e, pur tra pressanti dificoltà, riescono ad acquistare una sempre magiore forza 
politico-economica. Come i Giardina, i Di Napoli, i Branciforti, i Tagliavia-Aragona il cui porcesso 
di ascensione signorile, ricostruito in maniera puntuale da Maurice Aymard, è caratterizzato tra il 
1500 e il 1530 dalla tendenza ad opporsi al processo di polverizzazione cui aveva dato l’abbrivo, 
soprattutto sotto Alfonso il Magnanimo, la trasformazione del feudo in allodio che ora viene 
trasmesso all’erede universale sub vinculo consentendo alla nobiltà “de resister – dice l’Aymard – à 
l’èrosion”.
12
 
  
                                                          
10
 Ibidem, pp.95-97. 
11
 Ibidem, p.96. 
12
 Ibidem, p. 97.