5 
 
 
 
 
INTRODUZIONE 
 
La mobilità delle risorse umane è da considerarsi cruciale nell’analisi 
dell’attuale sistema economico. 
Il fenomeno visto come tentativo di allocare efficientemente le risorse dal 
quale tutti ne trarrebbero beneficio, sarebbe da incentivare. D’altro canto 
bisogna considerare le ripercussioni potenzialmente negative che tali 
spostamenti, soprattutto se ad alto contenuto di capitale umano generano 
sul sistema produttivo di partenza. Nel caso di deflusso netto di laureati-
mancando proprio le risorse strategicamente più rilevanti per lo sviluppo- 
non può che risultarne un depauperamento delle potenzialità produttive 
delle aree interessate, con il rischio di comprometterne la competitività sul 
piano degli scambi territoriali. 
Secondo le analisi di Becker, Ichino, Peri (2004) e di Avveduto, Brandi 
(2004), l’Italia a livello internazionale e il Mezzogiorno a livello nazionale 
rappresentano le aree di partenza di questo fenomeno, assumendo su di sé 
tutti i rischi relativi.  
Un’ampia letteratura mette in luce il ruolo cruciale dei movimenti 
interregionali nella storia italiana. La mobilità interna si accentuò dopo la 
seconda guerra mondiale e quasi ha sostituito quella intercontinentale del 
XIX secolo. Ciò che appare rilevante del fenomeno è il suo riproporsi in
6 
 
tempi più recenti con particolare protagonismo degli individui più giovani 
e più scolarizzati. Pertanto, in quanto titolari del livello di studio più 
elevato e corrispondentemente di elevati livelli di capitale umano, lo 
studio dei movimenti migratori riferito ai laureati è stato utilizzato in 
diverse analisi sulla mobilità interna italiana.  
Nel terzo millennio prosegue, infatti, indisturbato l’esodo dal Sud Italia 
verso le regioni più ricche del Nord. Lo rileva il ‚Rapporto sull’economia 
del Mezzogiorno 2009″, presentato da Svimez
1
. 
Questo lavoro si propone, in primo luogo di esaminare la vasta letteratura 
sul Brain Drain, dove vengono sottolineati i gravi svantaggi economici di 
un esodo di lavoro altamente qualificato per l’economia dell’area di 
origine: l’analisi di tale fenomeno si avvale, da un lato, della letteratura sul 
capitale umano- sia a livello micro (accumulazione come investimento) 
che macro (per spiegare il ruolo nella crescita economica e nello sviluppo)- 
dall’altro, dei modelli che analizzano le motivazioni dei flussi migratori. Il 
concetto e le questioni relative al sottoutilizzo di capitale umano 
(overeducation) verranno poi esaminati per comprenderne i legami con il 
fenomeno del brain drain. Dal punto di vista empirico verrà, infatti, 
riformulato il modello preso a riferimento, relativo alla mobilità 
interregionale dei laureati (Capparucci, Giffoni, 2010) dove si indaga, in 
particolare, sulle determinanti del brain drain del Mezzogiorno italiano. 
Nello studio sono stati esaminati (come verrà meglio specificato in 
seguito) i flussi migratori netti dei laureati che hanno interessato le regioni 
del Mezzogiorno italiano negli anni dal 1983 al 2002 sia per stimare 
l’influenza delle variabili di push e pull che per osservare il relativo 
impatto che tali flussi possono avere sul sistema economico dell’area che 
                                                             
1
 Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno
7 
 
subisce la perdita di capitale umano (così come è stato assunto dalle varie 
teorie in relazione ai trasferimenti di individui dotati elevati livelli di 
istruzione).  
Le determinanti dei flussi migratori utilizzate nella stima dell’equazione 
di regressione con variabile endogena ‚saldo migratorio dei laureati‛ sono 
le esplicative inerenti il livello retributivo mensile reale dei laureati, il 
tasso di disoccupazione, l’indice della presenza di criminalità organizzata 
e la spesa per ricerca e sviluppo (R&S).  
In questo contesto invece verranno introdotte ulteriori variabili, tra le 
quali un indicatore soggettivo di overeducation, e la domanda potenziale, 
per ampliare così il numero di possibili motivazioni del fenomeno della 
fuga dei cervelli. L’approccio statistico che si intende seguire è quello 
dell’analisi per componenti principali (ACP)
2
 con la quale vengono messi 
in evidenza i fattori che maggiormente contribuiscono alla spiegazione del 
fenomeno in esame. 
L’ipotesi di fondo è che l’overeducation, più che essere un fattore 
esplicativo dei flussi in uscita dalle regioni del Mezzogiorno, diviene una 
variabile ‚residuale‛ delle opzioni migratorie. Vale a dire: laddove il 
fenomeno del sottoutilizzo del lavoro qualificato risultasse relativamente 
più basso nella ripartizione meridionale (evidenza già comprovata dai dati 
sottoposti al vaglio quali quelli derivanti dall’indicatore soggettivo 
rivelato dall’Isfol), ciò andrebbe spiegato non tanto come esito di un 
relativamente migliore matching tra domanda e offerta riscontrabile nelle 
aree del Sud rispetto a quelle del Centro-Nord, quanto come patologia 
attenuata dal deflusso di laureati provenienti dal Sud. 
 
                                                             
2
 Vd. Bolasco S., “Analisi multidimensionale dei dati”, Carocci (1999).
8 
 
 
Organizzazione del lavoro 
Il fenomeno del brain drain viene affrontato nella teoria economica sia per 
individuare le determinanti di spinta dei lavoratori fuori dalla terra 
d’origine sia per computare la derivante perdita di capitale umano e il suo 
effetto sul sistema economico. Ed è per questo motivo che nel presente 
lavoro si intende fare, in primo luogo (nel Capitolo 1) riferimento alle 
teorie del capitale umano e a quelle sulle motivazioni economiche dei 
flussi migratori. 
Nel Capitolo 2 invece verrà riesaminato il fenomeno a livello empirico 
oltre che le spiegazioni date dalla teoria alle principali tendenze. Più 
attentamente si guarderà anche al Modello di mobilità interregionale che 
sarà preso a riferimento per l’intero lavoro. L’ipotesi di partenza trae la 
sua ragion d’essere dall’osservazione dei dati empirici, così come hanno 
fatto gli autori Capparucci e Croce, quindi il fenomeno che si vuole 
spiegare viene qui ripresentato nei suoi aspetti quantitativi. 
Inoltre il capitolo 3 si concentrerà sulla questione dell’educational mismatch 
e del sottoutilizzo del capitale umano (overeducation) con la rassegna dei 
relativi problemi metodologici e di misurazione. Spazio verrà dato anche 
alla questione della domanda potenziale dei laureati, nonché  agli indici di 
dotazione infrastrutturale, anch’essi inseriti nell’analisi. Ciò al fine di 
rendere noto l’intento di introdurre queste variabili come ulteriori 
probabili fattori di push per la forza lavoro. 
Il Capitolo 4 darà spazio alla metodologia seguita per la ri-esplorazione 
del fenomeno ex-novo nonché all’interpretazione dei risultati ottenuti dopo 
l’applicazione alle variabili utilizzate del metodo statistico dell’ACP
9 
 
effettuata sia a livello regionale che nella più dettagliata analisi 
provinciale.  
Si concluderà con il tentativo della dimostrazione dell’ipotesi di lavoro 
circa la collocazione dell’overeducation all’interno del complesso fenomeno 
del brain drain.
10 
 
 
 
Capitolo primo 
CAPITALE UMANO E FLUSSI MIGRATORI 
 
 
1.1 Il capitale umano nella teoria economica 
 
La rassegna della letteratura che segue pone in rilievo, dapprima, i contributi 
di coloro che, nell’ambito della teoria economica, si sono occupati del capitale umano 
studiandone l’aspetto microeconomico e poi di coloro i quali hanno cercato di 
valutare l’impatto che le perdite nette di capitale umano hanno sulla crescita 
economica
3
;   successivamente verranno presentate le teorie degli studiosi che si sono 
interessati all’aspetto economico delle migrazioni con il particolare intento di 
individuare le determinanti di spinta dei lavoratori fuori della loro terra d’origine
4
 . 
 
 
1.1.1 Il capitale umano alle origini della teoria 
 
L’idea che il bagaglio di esperienze e conoscenze proprio di una persona sia 
qualcosa di paragonabile ad un patrimonio materiale si può rintracciare sin nelle 
origini del pensiero economico moderno. Adam Smith ne ‚La Ricchezza delle 
Nazioni‛(1776) evidenziava una similitudine tra gli strumenti di produzione e 
l’uomo. Egli sosteneva: ‚Quando si impianta una macchina costosa ci si deve attendere che 
il lavoro straordinario che essa farà prima di dover essere messa fuori uso per deperimento 
ricostituirà il capitale impiegatovi, oltre, almeno, i profitti ordinari. Un uomo istruito al costo 
di molto lavoro e molto tempo ad una di quelle occupazioni che richiedono destrezza ed abilità 
                                                             
3
Si veda  anche a riguardo Adams. 1968, Borjas, Freeman. 1992, Reichlin 2010, Faini 2007, Record, Mohiddin 
2006, Hagopian, Thompson, Fordyce, Johnson e Hart, 2004. 
4
Si veda anche Pissarides e McMaster, 1990, Borjas 1994, Dustmann 1999, Kir-chkamp 2001
11 
 
straordinarie può essere paragonato ad una di quelle macchine costose. Ci si deve attendere 
che il lavoro che egli impara a fare oltre agli usuali salari del lavoro comune, gli ricostituisca 
la intera spesa della sua istruzione, oltre ai profitti ordinari, di un capitale di uguale valore. E 
deve anche ricostituire in un tempo ragionevole, considerata la sai incerta durata della vita 
umana, nello stesso modo in cui si considera la più certa durata della macchina‛ *Smith 
1776]. Nella sua opera Smith sviluppò a più riprese il valore delle competenze e 
conoscenze quali sorgenti di ricchezza economica e mise in rilievo come il loro 
sviluppo sia strettamente connesso alla divisione del lavoro; quindi si può affermare 
che è da Smith che nasce il concetto di investimento in capitale umano (anche se si 
deve ad Arthur Cecil Pigou il primo esplicito utilizzo del termine capitale umano nel 
1928). 
 
L’investimento nell’apprendimento del soggetto viene, dunque, valutato in 
base ai suoi tassi di rendimento netto attualizzati. In altre parole, si ipotizza di essere 
in grado di determinare l’opportunità di prendere una certa decisione di studio sulla 
base del parametro della profittabilità. 
 
A partire dagli anni sessanta la teoria del capitale umano comincia ad 
affermarsi nella letteratura economica. L’elaborazione è operata da esponenti della 
cosiddetta ‚scuola di Chicago‛. Schultz, Mincer e Becker possiedono una 
impostazione metodologica che discende dall’analisi marginalista, anche se 
storicamente esistono, tuttavia, dei precedenti alla teorizzazione americana. 
Sono infatti da sottolineare i contributi come quello del 1682 di Petty, il quale 
sostiene che la crescita demografica costituisce uno dei fattori per l’aumento del 
benessere della popolazione, in quanto la singola persona è un fattore produttivo di 
ricchezza.  
Nella seconda metà del Settecento la scuola classica italiana individua 
nell’educazione delle persone la modalità più efficace per raggiungere la pubblica 
felicità. D’altronde, Smith e la scuola classica inglese (1776-1870) mettono in luce
12 
 
l’importanza dell’istruzione e della formazione: la prima ha il compito di trasmettere 
nozioni e insegnamenti elementari nella prospettiva dell’introduzione nel mondo 
produttivo, mentre la seconda deve essere finalizzata alla specializzazione settoriale, 
per massimizzare i benefici derivanti dalla divisione del lavoro.  
Infine, la scuola neoclassica inglese (1870-1890) considera la cultura uno 
strumento per promuovere il protagonismo dei cittadini, la stabilità sociale, 
l’aumento della ricchezza e la mobilità nel mercato del lavoro.  
Non si può di certo affermare, però, che sia reperibile una dottrina chiara e 
sistematica fin quando si giunge ai  primi contributi di Solow (1957, 1959, 1962) , la 
cui funzione di produzione Y include un elemento innovativo: il progresso 
tecnologico A (t). Essa può essere approssimativamente scritta con l’espressione:  
Y = f (A(t) K, L).  
Emerge, dunque, che A(t) aumenta con il trascorrere del tempo, 
incrementando lo stock di capitale C e non incidendo sull’aggregato del lavoro L. In 
proposito, Griliches (1959)  osserva che la concezione del fattore tecnico come 
endogeno alla funzione di produzione rappresenta il nesso tra le elementari 
intuizioni classiche e neoclassiche sul capitale umano e le considerazioni di Denison 
(1962).  
Questi, infatti, dimostra matematicamente che, nell’analisi del PIL degli Stati 
Uniti tra il 1929 e il 1957, esiste un ‚residuo‛ non imputabile ai parametri 
tradizionali. Si evince per esclusione, allora, che tale parte di reddito nazionale sia 
attribuibile all’aumento del livello dell’istruzione nella popolazione. In aggiunta, 
qualche anno dopo, l’autore precisa: «Più istruzione dovrebbe contribuire alla crescita in 
due modi diversi. Primo, dovrebbe aumentare la qualità della forza lavoro *…+ ciò dovrebbe 
generare un incremento della produttività lavorativa *…+ Secondo, un maggiore livello 
culturale della popolazione dovrebbe accelerare il tasso di accumulazione dello stock di   
conoscenza nella società » [J. VAIZEY e E.A.G.ROBINSON, 1966]
13 
 
1.1.2 Il concetto di capitale umano: alcune specificazioni 
 
Il termine capitale umano racchiude tutte le conoscenze, le esperienze e le 
capacità che un individuo acquisisce e che ‚offrirà‛ al mercato in cambio di 
remunerazioni. Dal punto di vista delle aziende, il capitale umano rappresenta tutte 
le risorse umane qualificate che partecipano ai processi produttivi. L’individuo 
accumula conoscenze e, a fronte di uno stock di capitale umano, otterrà un flusso di 
redditi relazionato ai costi di acquisizione sostenuti. Così come avviene per il capitale 
fisico, il capitale umano è una risorsa prodotta e può essere accumulato, ricorrendo a 
un processo di investimento che porta a rinunciare ai redditi presenti e al consumo 
immediato in cambio di benefici futuri. 
Inoltre, analogamente al capitale fisico, anche quello umano, se non 
costantemente esercitato, potrebbe andare incontro a fenomeni di obsolescenza e 
deprezzamento, dovuti sia al progresso delle conoscenze sia alla possibilità di 
perdere informazioni nel tempo [Praussello e Marenco, 1996]. 
Nell’ambito della definizione dello stock di capitale umano, una distinzione 
fondamentale è utile effettuare tra le due componenti: capitale generale e capitale 
specifico. 
Il capitale umano generale è costituito dall’insieme delle conoscenze 
trasferibili in qualunque ambito lavorativo senza perdita di valore: ciò significa che 
un soggetto con un consistente bagaglio di capitale umano generale interesserà un 
elevato numero di datori di lavoro. 
Il capitale umano specifico, invece, rappresenta la componente di capitale 
umano che può essere sfruttata in modo produttivo solo all’interno dell’impresa, in 
cui è maturata: di conseguenza un lavoratore dotato di un certo livello di capitale 
specifico risulterà appetibile per l’impresa che lo occupa, ma meno interessante per le 
altre aziende. 
La formazione dei due tipi di capitale acquista importanti connotazioni sia per 
quanto riguarda la distribuzione dei costi sia per i soggetti investitori. Nel caso di un
14 
 
lavoratore dotato unicamente di capitale umano generale e nell’ipotesi di mercato del 
lavoro perfetto,  questi avrà un’elevata capacità produttiva e sarà un soggetto 
interessante per tutte le imprese. In condizioni di perfetta concorrenza, il salario 
eguaglierà la produttività marginale e, nel caso in questione, lo stock di capitale 
posseduto permetterà al lavoratore di ottenere il maggior salario possibile. Poiché 
però il soggetto potrà cambiare lavoro in qualsiasi istante e senza costi, l’impresa non 
sarà incentivata a partecipare ai costi dell’investimento perché il lavoratore potrebbe 
trasferire in un’altra impresa le conoscenze acquisite. L’impresa non interviene nella 
formazione di capitale umano generale, questo quindi risulterà unicamente a carico 
del singolo lavoratore [Praussello e Marenco, 1996]. 
Se consideriamo il lavoratore che desideri aumentare la componente di 
capitale umano specifico, l’aumento della produttività ricadrà non solo su lavoratore 
(in termini di aumento del salario) ma anche sull’impresa in cui lavora, quindi essa 
dovrà contribuire ai costi di formazione. In questo secondo caso quindi il costo 
dell’investimento viene ripartito tra il lavoratore e l’impresa, poiché entrambi 
ottengono benefici. 
In questo contesto, la distinzione tra capitale umano generale e quello 
specifico risulta importante in quanto spiega perché lo studente rinunci a un reddito 
nel periodo in cui è impegnato a tempo pieno per investire in capitale umano. 
 
 
1.1.3 Approccio microeconomico al capitale umano 
 
L’istruzione veniva tradizionalmente considerata dagli economisti come un 
bene di consumo, legato alle preferenze degli agenti, al reddito delle famiglie e ai 
costi ad esso associati. Bisognerà aspettare fino alla pubblicazione del testo di Becker 
(1964), per passare dal concetto di bene di consumo a quello di bene su cui investire. 
In generale, gli agenti economici razionali operano in modo da massimizzare 
la propria utilità: ogni volta che essi effettuano una scelta, data una certa
15 
 
disponibilità di risorse, mirano a selezionare l’alternativa che rende massima l’utilità. 
La domanda di un bene esiste solo se esso genera utilità. Ciò è quanto accade per 
l’istruzione: lo studente ‚domanda‛ istruzione non solo per ottenere oggi una 
gratificazione istantanea (bene di consumo), ma, in un’ottica di lungo periodo, per 
acquisire le conoscenze necessarie ad aumentare la propria produttività sul lavoro e 
le remunerazioni future attese (bene di investimento); l’agente, investirà in capitale 
umano fino a quando i benefici e i costi marginali dell’investimento si eguaglieranno.  
Vi sono però alcuni elementi che distinguono l’istruzione da un qualsiasi altro 
bene durevole. Innanzitutto, per quanto riguarda la misurazione del rendimento 
dell’investimento si può affermare che, tralasciando l’elemento di consumo, al 
crescere del livello di istruzione crescerà anche il valore attuale dei redditi da lavoro. 
  Il secondo elemento che contraddistingue l’istruzione dagli altri beni durevoli 
è rappresentato dai costi per l’investimento: nel caso dell’istruzione, infatti, i costi 
riguardano un orizzonte temporale ben più lungo rispetto all’acquisto di un qualsiasi 
altro bene; ciò comporta una spesa sia in termini di tempo (costo opportunità) che di 
denaro.  
L’ultimo elemento è costituito dai benefici: le conoscenze e la capacità 
risultano particolarmente durevoli in quanto, se costantemente esercitate, non sono 
soggette a deprezzamento. 
Tutti e tre gli aspetti considerati sono caratterizzati da un fattore comune: il 
tempo. Quando si parla di istruzione non si può limitare l’orizzonte temporale al 
presente, ma il processo di investimento in istruzione e formazione professionale 
deve essere inserito in una prospettiva temporale ben più lunga che coinvolge i flussi 
attualizzati di costi e benefici futuri. 
  Indicazioni molto forti in questa direzione vengono dalle analisi di tipo 
microeconomico che analizzano le decisioni di investimento in capitale umano e il 
loro rendimento. Il principale esponente di questo filone di analisi è Jacob Mincer il 
quale ha cercato di stimare la relazione esistente fra il livello di istruzione di ciascun 
individuo e la remunerazione della propria attività lavorativa. Mincer (1974) ha
16 
 
scoperto che questa relazione è positiva e fortemente significativa. In altri termini chi 
è più istruito guadagna di più. I risultati di Mincer hanno superato brillantemente 
l’esame critico della comunità scientifica e sono considerati molto robusti. Dire che 
chi è istruito ottiene un reddito maggiore non equivale ad affermare a livello 
macroeconomico che più istruzione porta con sé più reddito, ma proprio perché la 
visione ‚macro‛ non scaturisce dalla semplice sommatoria dei fenomeni 
microeconomici, i risultati a livello micro sono da tenere in alta considerazione. 
E’ stato già fatto cenno ad una questione, considerata, di fondo nell’ambito 
della teoria economica: l’allocazione delle risorse tra consumo e risparmio. I soggetti 
razionali tendono ad allocare le risorse disponibili fra consumo e risparmio, tenendo 
conto dei redditi futuri e considerando un certo orizzonte temporale. 
Le teorie principali sull’allocazione delle risorse si devono a Friedman (1957) 
con la teoria del reddito permanente e a Ando-Modigliani (1963) con la teoria del 
ciclo vitale. Secondo Friedman, un soggetto razionale distinguerà il proprio reddito 
tra consumo e risparmio così da massimizzare l’utilità nei diversi intervalli di tempo 
presi in considerazione (allocazione intertemporale ottima della spesa). Ciò significa 
che l’individuo non pianifica il consumo in funzione del reddito corrente, ma in 
relazione a una stima del suo reddito permanente, atteso cioè nel lungo periodo. Ne 
consegue che una qualsiasi variazione del reddito giudicata transitoria non influisce 
sul consumo ma solo sul risparmio. 
Secondo la teoria del ciclo vitale di Ando-Modigliani, al contrario di Friedman 
che concentra la sua attenzione sulla formazione delle aspettative di reddito di lungo 
periodo, gli individui pianificano le decisioni di allocazione delle risorse in modo da 
assicurarsi un livello medio di consumo per tutta l’esistenza, risparmiando in 
gioventù così da poter consumare durante la vecchiaia. In base a questa 
impostazione, il soggetto durante la vita attiva risparmierà e accumulerà ricchezza 
per far fronte al periodo di vita non attiva di decumulo, ricorrendo, nella fase di 
formazione, anche all’indebitamento contro garanzia dei guadagni futuri.
17 
 
Il capitale umano rappresenta quindi una forma di impiego del risparmio: 
accumulato nella fase iniziale del ciclo di vita dell’individuo (che se necessario potrà 
anche indebitarsi), genererà lo stock di conoscenze tale da poter garantire un flusso 
di redditi durante la fase lavorativa e quindi un accumulo di ricchezza, soggetta a 
decumulo nella fase finale della vita. 
 
 
1.1.4 Approccio macroeconomico: il capitale umano e la crescita economica 
 
L’interpretazione più diffusa nella letteratura economica sul legame tra 
capitale umano e sviluppo è che questo ricopre una duplice funzione all’interno della 
crescita economica. Da una parte, inteso come stock di capacità derivanti dalla 
formazione e dall’addestramento, costituisce un input per la produzione totale di un 
paese (in termini di PIL), dall’altra, inteso come insieme di conoscenze, comporta una 
crescita dal punto di vista dell’innovazione [Mincer 1989]. 
Le teorie sul legame tra il capitale umano e lo sviluppo economico, tuttavia, 
non sono sempre concordi: alcuni, infatti, nell’era della globalizzazione, attribuiscono 
al capitale umano un valore determinante per il benessere e l’occupazione di un 
paese nella competizione mondiale [World Bank 1995], altri, invece, riconoscono al 
capitale umano il solo compito di assegnare forza lavoro ai posti disponibili. 
In ogni caso, non può essere sottovalutato il ruolo che capitale umano e 
istruzione rivestono nel processo di crescita. Tra i modelli dinamici che illustrano 
questi legami, sono interessanti quelli che descrivono il sentiero di equilibrio sulla 
base di ipotesi diverse di livello di capitale umano accumulato all’inizio del processo. 
Se tale soglia non supera un certo valore, si verifica una dinamica tale per cui le 
famiglie generano molti figli e investono poco in istruzione; al di là di tale soglia, 
invece, si ha il fenomeno opposto: maggiori investimenti in istruzione e famiglie più 
contenute in termini di numerosità. Nel primo caso il valore del tasso di crescita sarà 
più basso rispetto al secondo.
18 
 
Nei primi anni novanta, nuove teorie hanno sottolineato il significativo 
contributo del capitale umano nella crescita economica. La teoria della crescita 
endogena, ha portato alla definizione di nuovi modelli in cui la crescita viene 
spiegata mediante l’accumulo di uno o più fattori caratterizzati da rendimenti non 
decrescenti, anche in presenza di esternalità che vanno a vantaggio dell’intero 
sistema economico. 
Secondo tali teorie, il capitale umano è uno di questi fattori, caratterizzato anche da 
esternalità positive. Ad esempio, il fatto che in una determinata area geografica sia 
presente una buona università, comporta dei benefici per tutto il sistema produttivo 
di quella zona, che può contare su risorse umane di livello elevato [Praussello e 
Marenco 1996]. 
Nonostante le diverse teorie e i diversi approcci che la letteratura economica ci 
propone, si può affermare che esiste un forte legame tra capitale umano e sviluppo 
economico di un paese, anche se non sempre questa teoria appare empiricamente 
verificata. L’investimento in capitale umano ha un costo rappresentato dalla spesa 
per acquisire l’istruzione necessaria, e viene effettuato in vista di un rendimento 
costituito dalla differenza di salario che il lavoratore istruito è in grado di spuntare 
sul mercato del lavoro rispetto al lavoratore non istruito. Ciò avviene perché 
l’investimento in capitale umano ha l’effetto di accrescere la produttività del 
lavoratore esattamente come quello in capitale fisico. Questa intuizione ha dato 
luogo negli anni sessanta a una vasta letteratura empirica volta a misurare meglio il 
contributo dei vari fattori alla crescita economica attraverso una vera e propria 
contabilità della crescita stessa. 
  Il più importante esperimento di questo tipo è quello di Denison (1967,1979). 
La procedura di Denison consiste nella stima di una funzione di produzione che ha 
come input il capitale e il lavoro dove la qualità di quest’ultimo è misurata da un 
indice degli anni di istruzione mediamente acquisiti dai componenti della forza 
lavoro. Denison trova che l’istruzione contribuisce positivamente alla cre-scita del
19 
 
prodotto e che tale contributo può essere stimato pari a un valore compreso fra il 15% 
e il 25% della crescita complessiva, inoltre tale contributo è aumentato nel tempo.  
Più recentemente Mankiw, Romer e Weil (1992) hanno esteso in modo 
rigoroso il modello di Solow includendovi il capitale umano (misurato dei tassi di 
iscrizione alla scuola secondaria) e riuscendo a spiegare una quota abbastanza ampia 
(circa 2/3) della variabilità dei tassi di crescita fra le diverse economie nazionali. 
L’analisi di Mankiw, Romer e Weil è stata considerata da molti economisti 
come una rivalutazione della capacità esplicativa del modello di Solow in 
contrapposizione con le emergenti teorie della crescita endogena. Resta comunque il 
fatto che, nonostante questa estensione, la teoria di Solow è in grado di spiegare la 
crescita solo nelle fasi di transizione verso il sentiero di equilibrio. Il capitale umano 
infatti si comporta come quello fisico, ma con la differenza che la capacità trainante 
del capitale fisico tende a ridursi fino a scomparire via via che l’accumulazione 
procede, il capitale umano, invece, può essere un motore inesauribile della crescita. 
In altri termini l’investimento in capitale umano (che è il risultato di decisioni degli 
agenti economici) può dar luogo a una crescita continua nel tempo e dipendente da 
fattori interni alla logica di funzionamento del sistema economico. Per questo motivo 
la meccanica di questo processo di crescita può essere definita come ‚endogena‛.  
Che cosa rende il capitale umano così diverso da quello fisico? L’intuizione 
fondamentale sotto questo punto di vista si deve a Robert Lucas (1988): il primo, al 
contrario del secondo, produce esternalità positive. In generale una esternalità 
positiva si verifica quando le scelte di un agente economico causano benefici per un 
altro agente senza che il primo riceva alcuna ricompensa. 
Robert Barro (1991, 1997, 1998) ha svolto una analisi cercando di verificare 
l’esistenza di una correlazione fra tasso di crescita in un certo periodo e livelli di 
istruzione in un campione molto ampio di paesi. Egli trova che il tasso di crescita del 
prodotto nazionale lordo è positivamente correlato con il livello di istruzione della 
popolazione all’inizio del periodo considerato. Barro interpreta questo risultato nel