Introduzione 
 
Con un’accelerazione inaudita negli ultimi vent’anni, dovuta soprattutto al 
pervasivo ed inarrestabile integrarsi dell’economia mondiale realizzatosi grazie 
all’assolutamente straordinaria evoluzione delle tecnologie, delle telecomunicazioni e 
dei trasporti, il nostro mondo si è di fatto rimpicciolito assumendo la configurazione di 
un villaggio globale. 
Il consolidamento di questo processo (cominciato già nelle epoche più remote
1
) 
ha portato alla ribalta nell’ultimo decennio nuovi protagonisti e nuovi Paesi, che per le 
loro caratteristiche sono riusciti in breve tempo a ridisegnare e ridimensionare equilibri 
stabilizzatisi nel corso degli ultimi decenni. In particolare la costante ascesa dei Paesi 
del cosiddetto B.R.I.C.
2
, unita all’incerta traiettoria di crescita di qualche gigante degli 
ultimi 20 anni (Giappone in primis), sembra ancora capace di generare degli effetti di 
lungo termine e perduranti.  
Ciò che colpisce riguardo ai Paesi in forte sviluppo in particolare, è che il loro 
processo di crescita sembra essere in grado di perpetuarsi ancora per diverso tempo, 
merito essenzialmente delle caratteristiche intrinseche degli stessi, ma anche della 
caparbietà con cui essi sembrano aver intrapreso la via verso la crescita. Da ciò 
traggono origine elementi di riflessione, d’osservazione ma anche d’inquietudine nei 
confronti di questi nuovi Giganti dell’economia globalizzata, che fino a ieri altro non 
sembravano che meri spettatori (ed in un certo senso vittime) di equilibri costruiti e 
consolidatisi nel corso del tempo.  
Una certa preoccupazione nasce innanzitutto dalla considerazione di come per la 
prima volta da decenni, i Paesi occidentali più sviluppati rischino di essere chiamati a 
mettere in discussione il livello di vita (inteso in primis ma non esclusivamente nella 
sua dimensione economica) dei propri cittadini.  
Lo straripante processo di crescita di questi Paesi è ben descritto da uno studio 
condotto dalla Camera di commercio di Ancona dall’inequivocabile titolo: ne Il futuro è 
BRIC
3
, si nota come i tempi di sorpasso fra il blocco dei Paesi emergenti ed il c.d. G6 
(aggregato composto da quelle che oggi sono ritenute le 6 economie più sviluppate al 
mondo ovvero USA, Giappone, Francia, Germania, Regno Unito e Italia) si stiano 
                                                 
1
 Si veda a tal proposito la pubblicazione Nuovi scenari per i professionisti HR, pag. 4, consultabile alla 
pagina web http://www.aidp.it/Congresso/docs/atti/dambrosio_1.pdf  
2
 Acronimo indicante il gruppo formato da Brasile, Russia, India e Cina. 
3
 Scaricabile alla pagina 
http://www.an.camcom.it/layout/informazioni/allegati/STATISTICA%203_2007.pdf  
 6
avvicinando, stimando già il biennio 2038/2039 come data approssimativa per 
quest’evento. Inoltre si rileva come la Cina abbia già superato Italia e Regno Unito, e 
nel giro di 4 anni potrebbe sorpassare a questi ritmi la Germania.  
Cambiamenti di tale portata stanno avendo ripercussioni sulla nostra economia, 
che in questo momento attraversa un periodo di disagio, in cui tutte le sue carenze 
strutturali sembrano essere venute alla luce. L’Italia oggi più che mai si trova di fronte a 
delle sfide impegnative, che se mal affrontate rischiano di comportare un drastico 
ridimensionamento del profilo economico del Paese. D’altro canto questa situazione è 
ben espressa e ben indicata da una serie di dati elaborati da organismi internazionali.  
Una prima preoccupante constatazione riguarda la stagnazione del PIL italiano 
degli ultimi anni (complici anche evidentemente i nuovi scenari competitivi a cui il 
sistema economico è stato sottoposto): in particolare si evince dal grafico sottostante 
(indicante il tasso medio di crescita del PIL per decennio) in Italia il prodotto interno 
lordo è cresciuto a ritmi sempre meno sostenuti ( con un particolare rallentamento 
registrato nell’ultimo decennio). 
 
  Tasso di crescita del PIL italiano negli ultimi 50 anni 
 
 
Ciò che stupisce inoltre è come il tasso ( anche per i risultati negativi dei primi 
anni 2000, con lo spettro incalzante della recessione a lungo presente negli scenari 
economici mondiali) si sia stabilizzato sotto la soglia critica dell’1,5% (segno di un 
rallentamento effettivo).  
 7
Risulta duro inoltre il raffronto con i dati riguardanti la crescita del PIL in Europa 
nel m a più di 25 anni 
ormai, i nostri tassi di crescita sono inferiori a quelli espressi dal consesso degli altri 
Paesi; sembra quindi che la macchina Italia stia viaggiando sistematicamente al di sotto 
di ciò che fanno i nostri principali partner europei. Negli ultimi anni il divario ha 
raggiunto livelli non pronosticabili fino a qualche anno fa, attestandosi su una differenza 
fra i trend di crescita attorno al 25%
4
, quando fino agli anni ’70 l’Italia cresceva con un 
tasso del 40% superiore a quello medio europeo.  
 
 Tasso di variazione del PIL italiano rispetto al PIL europeo 
edesimo arco temporale. Come riportato a seguito nel grafico, d
 
 
Ciò che emerge da questi 2 grafici quindi, è in linea con le impietose diagnosi 
(ma a quanto sembra motivate) degli osservatori esteri sullo stato di salute del nostro 
Paese, che vedono sempre più nell’Italia i sintomi di una crisi per certi versi 
irreversibile come testimoniato anche nelle scorse settimane dal lungo pamphlet di Ian 
                                                 
4
 Il dato necessita di essere meglio inquadrato poiché può risultare ingannevole: il -25% non si riferisce 
alla differenza semplice fra i 2 tassi di crescita, ma al rapporto percentuale fra questi 2. In termini 
numerici non significa che se l’Italia è cresciuta dell’1% annuo, l’Europa invece ha registrato un +26%, 
ma che se il PIL italiano è aumentato mediamente dell’1%, il tasso medio europeo è stato del 25% 
superiore (il 25% indica quindi il surplus di crescita rispetto al dato nazionale) attestandosi quindi 
all’1,25%. 
 8
Fisher sul New York Times
5
, le cui critiche al Belpaese hanno suscitato numerose 
reazioni anche da parte di esponenti delle istituzioni (il presidente Napolitano in primis).  
he le muove (sostanzialmente si tratta di spingere 
l’ipote
 tra cui la burocrazia, la pressione 
fiscale
i a un livello paragonabile a quello dei 
primi 
A prescindere dalle visioni più o meno stereotipate riguardo al nostro Paese, 
rimane il fatto che il sistema economico appare sofferente sotto molteplici aspetti, colti 
questi da statistiche e da rilevazioni a tema. Per esempio nella periodica graduatoria 
sulla competitività stilata dal Wef (il World Economic Forum), l’Italia si ritrova in una 
non proprio lusinghiera 46esima posizione
6
; rispetto al 2006 sono state perse tre 
posizioni, ed incalzano a breve distanza l’Ungheria, la Giordania e le Barbados (non 
propriamente delle potenze economiche di primo livello, ne quantomeno delle realtà a 
cui idealmente si associano idee di efficienza e prosperità). 
 Queste graduatorie si prestano chiaramente ad una serie di obiezioni, vista la 
natura prettamente business oriented c
tico investitore internazionale verso il luogo ideale dove trovare le condizioni 
migliori, e ciò esclude altri aspetti), ma non possono venire derubricate in quanto 
considerano un numero di variabili molto ampio
, i servizi finanziari, la ricerca di base e la spesa pubblica per la formazione
7
. 
Inoltre è indicativo vedere come i principali Paesi dell’Unione Europea, per forza di 
cose nostro termine di paragone, figurano quasi tutti nelle prime posizioni ad eccezione 
della Spagna (il cui 29esimo posto è in ogni modo migliore di ben 17 posizioni del 
nostro, ed è stabile da qualche anno). 
Questi dati trovano conferma nei numeri del commercio internazionale: in una 
pubblicazione intitolata Quote di mercato delle esportazioni italiane e composizione 
della domanda estera
8
 testualmente si nota come:  
“La crescita delle esportazioni italiane nella seconda metà degli anni novanta si 
è mantenuta costantemente al di sotto di quella del commercio mondiale, facendo 
arretrare la quota di mercato dei prodotti italian
anni ottanta. La flessione è visibile sia nei dati sulle quantità esportate, sia in 
quelli sui valori. Si tratta di un fenomeno che, in misura diversa, ha accomunato i 
                                                 
5
 Ma già nel maggio del 2005 l’Economist indicava il nostro Paese come The real sick man of Europe, 
riassumendo le argomentazioni del dossier in una significativa copertina (con l’articolo tradotto alla 
pagina internet http://pesanervi.diodati.org/pn/index.asp?a=76 ). 
6
 La graduatoria completa insieme al rapporto dettagliato è consultabile al sito 
http://www.weforum.org/pdf/Global_Competitiveness_Reports/Reports/gcr_2007/gcr2007_rankings.pdf  
7
 Per avere un’idea dei temi di confronto e delle graduatorie relative si veda anche Le due sfide del Made 
in Italy, di Fortis M., ed. Il Mulino, pag. 94 
8
 Curata da Iapadre E. e Rodano L., scaricabile alla pagina 
http://www.liuc.it/didattica/eco/IapadreICE.pdf  
 9
princi
. 
pali paesi sviluppati, il cui peso sulle esportazioni mondiali si è andato 
progressivamente ridimensionando, a vantaggio di un gruppo di paesi emergenti verso i 
quali si sono spostate porzioni sempre più rilevanti della produzione manifatturiera 
mondiale. In altri termini si tratta, almeno in parte, della contropartita fisiologica di 
mutamenti nella divisione internazionale del lavoro, connessi anche al crescente grado 
di terziarizzazione delle economie più avanzate
Tuttavia, nel caso italiano, il cedimento di quota è stato particolarmente forte e si 
è manifestato anche nei confronti di altri paesi sviluppati, inclusi quelli dell’Unione 
Europea. Si è aperto perciò un intenso dibattito sulle ragioni di quest’indebolimento
9
” 
Il fatto quindi che la quota delle esportazioni mondiali del nostro Paese sia calata, 
è in parte dovuto al mutamento degli scenari competitivi a cui si accennava nelle prime 
pagine ( è naturale che un gruppo di Paesi demograficamente più rilevanti riesca, in un 
momento d’apertura dei mercati, a scalare le posizioni di questa graduatoria), ma anche 
ad una sostanziale perdita di competitività del nostro apparato industriale (come risulta 
in termini più rilevanti dall’indagine del Wef). 
La situazione appare quindi grave, e porta a considerare un ventaglio di possibili 
cause per queste criticità del sistema Italia: una delle più ricorrenti riguarda 
essenzialmente la composizione del tessuto produttivo italiano, formato per la maggior 
parte da imprese di piccola e media dimensione, incapaci proprio per questo di 
sostenere le crescenti sfide della competizione internazionale. A tal proposito si può 
citare un’interessante articolo di Stefano Scarpetta
10
: facendo riferimento ai cosiddetti 
vincoli alla crescita dimensionale del business environment italiano (che 
condizionerebbero lo sviluppo dimensionale ed in seconda battuta la crescita del sistema 
economico nel suo complesso), egli in particolare osserva come nei confronti d’altri 
contesti internazionali come “…le piccole imprese non crescono nel nostro paese, non 
solo per una preferenza verso il piccolo a conduzione familiare, ma anche perché è 
costoso espandere l’impresa, assumere nuovi addetti e adottare tecnologie innovative 
che, pur potendo apportare miglioramenti produttivi, richiedono una maggior 
esposizione finanziaria e rischi addizionali” aggiungendo inoltre come questo influisca 
negativamente su tutto il sistema economico italiano. In Italia verrebbero meno quei 
meccanismi di selezione naturale delle imprese capaci di far sopravvivere le più 
                                                 
9
 Quote di mercato delle esportazioni italiane e composizione della domanda estera, Pagina 189 
10
 L’articolo intitolato Perché le imprese restano piccole è consultabile alla pagina web 
http://www.lavoce.info/articoli/-relazioni_industriali/pagina1759.html  
 10
produttive e le più innovative, garantendo dinamicità al mondo industriale: citando una 
tesi di Schumpeter egli conclude che: “…il processo di "creazione distruttrice" evocato 
da Joseph Schumpeter come motore fondamentale del progresso tecnico sembra non 
funzio
. Le differenze sono ancora più marcate se ci si concentra sui settori a più 
alto c
ero di addetti nei primi anni di vita. In Italia, ma 
anche
ità e di capacità di progredire innovando. Ed è forse su questi temi che è 
necess
umentare la capacità di un sistema economico di 
“produrre” miglioramenti sistematici dell’efficienza produttiva. E’ intuitivo come, per 
io disporre di una quantità adeguata di finanziamenti 
(sia dal settore pubblico e privato): ma a questa condizione devono affiancarsi degli 
invest
Questo concetto in particolare ha assunto negli ultimi tempi molteplici 
interpretazioni e sfaccettature a seconda di chi lo chiama in causa e dei contesti di 
                                                
nare a pieno nel nostro paese: molte piccole imprese sono create, ma quelle più 
produttive non sembrano in grado di espandersi e acquisire nuove quote di mercato. 
Allo stesso tempo, la selezione del mercato è meno efficace con le imprese meno 
produttive
ontenuto tecnologico – quelli cioè con più elevate potenzialità di crescita 
produttiva. Nel settore high tech le nuove imprese americane entrano già con 
produttività superiori alla media di quelle esistenti – e le imprese che sopravvivono il 
test del mercato raddoppiano il num
 in alcuni altri paesi europei, anche le start up del settore high tech hanno 
crescite dimensionali più contenute.” 
Scarpetta quindi imputa al mancato sviluppo dimensionale delle piccole imprese 
(a sua volta generato a suo dire dagli scadenti meccanismi di selezione naturale del 
mercato italiano) una ruolo fondamentale per la definizione dell’attuale scenario 
italiano.  
Nei suoi scritti però emergono ulteriori elementi interessanti: la selezione del 
mercato infatti si attuerebbe in termini di migliori performance, in termini di 
produttiv
ario focalizzare l’attenzione. 
Negli ultimi tempi si sente sempre di più e da sempre più parti sostenere come il 
nostro Paese debba fare leva sulla ricerca e l’innovazione per ritornare competitivo: la 
questione sembra come dice anche Daveri,
11
che oggi è necessario più che mai porsi la 
domanda in che modo sia possibile a
implementare questo, sia necessar
imenti a più largo respiro, tesi a migliorare la qualità dello stock di capitale 
umano.  
 
11
 Innovazione cercasi,Edizioni Laterza, 2006,  pag. 22 
 11
dibatti
rie della crescita. 
1. Il c
prio a 
sottolinearne l’importanza ai fini della crescita e dello sviluppo) appare già negli scritti 
di Ada
ch he learns to perform, it must be expected, over 
and ab
rammazione degli 
invest
tradizionalmente considerato, che come tale prevede dei tassi di ritorno e che la cui 
accumulazione dipende dall’ammontare degli investimenti in esso
14
. 
                                                
to. Nelle pagine che seguono si proporranno degli spunti di riflessione su questa 
nozione, cercando di sottolinearne la natura trasversale ed il perché sia ritenuta così 
importante nelle teo
 
oncetto di capitale umano 
 
Il concetto di capitale umano appare oggi più che mai di difficile definizione, 
visto il notevole numero di studi ed analisi che sono stati realizzati in merito ad esso. 
Tuttavia una primitiva nozione di capitale umano (tendente pro
m Smith
12
 : 
 
"A man educated at the expenses of much labour and time to any of those 
employments which require extraordinary dexterity and skill, may be compared to [an] 
expensive machin[e]. The work whi
ove the usual wages of common labour, will replace to him the whole expenses of 
his education, with at least the ordinary profits of an equally valuable capital."  
 
Un primo riutilizzo del concetto di capitale umano nell’ambito delle teorie 
neoclassiche del XX secolo lo si è avuto grazie a Jacob Mincer che in una sua 
pubblicazione datata 1958 ( titolata "Investment in Human Capital and Personal Income 
Distribution") sottolineava pioneristicamente l’importanza della prog
imenti nelle risorse umane 
13
. 
Successivamente altri economisti hanno cercato di formulare delle definizioni 
coerenti del concetto: fra gli altri va sicuramente ricordato il contributo del Nobel per 
l’economia Gary S. Becker che in una delle sue opere più importanti (Human Capital, 
del 1964) dedicata appunto allo sviluppo di tale concetto nelle teorie economiche 
moderne, definisce il capitale umano semplicemente come una variante del capitale 
 
12
 Si veda anche la pubblicazione di Gori E., L’investimento in capitale umano attraverso l’istruzione, 
2004, presente alla pagina www.econ.univ.trieste.it/AA_2005_06/SVILUPPO_HC.doc  
13
 Si veda anche la pubblicazione di Lovaglio P., Investimento in capitale umano e disuguaglianze 
sociali,2003, alla pagina www.statistica.unimib.it/utenti/lovaglio/19.pdf  
14
 Reperibile anche al sito web www.econlib.org/library/Enc/HumanCapital.html  
 12
In una sua più recente pubblicazione del settembre del 2005
15
 il capitale umano 
viene definito con “ciò che ha a che fare con le competenze, l’istruzione, la salute e la 
forma
ione quantitativa potevano essere individuati negli anni di 
educa
i è fatta quindi strada l’idea che il capitale umano debba essere sempre 
consid
enso, una definizione sicuramente esaustiva del capitale umano, 
è quella fornita da Dagum e Vittadini nel 1996 , secondo cui
17
 :  
in istruzione, formazione, salute, contesto familiare e socio 
econo
                                                
zione degli individui”. Tale definizione seppur delineando in linea di massima gli 
elementi considerabili per la determinazione del capitale umano, non fornisce tuttavia 
una stima utile alla misurazione dello stesso; in altri termini si poneva a partire dagli 
anni delle pubblicazioni di Becker e Mincer, il problema circa la misurazione di questa 
tipologia di capitale, che di fatto era stato solo definito in termini qualitativi (indicando 
di cosa si trattava sostanzialmente)
16
.  
Indici di misuraz
zione dell’individuo (pari sostanzialmente all’ammontare dell’investimento) e nel 
flusso di reddito generato dall’individuo una volta inserito nel contesto lavorativo 
(indicante il tasso di ritorno dell’investimento). Ma tali misurazioni difettavano del fatto 
di non tenere in conto il costo sociale dell’investimento per la formazione dell’individuo 
(con il relativo effetto attualizzato), e la formazione e le competenze che il soggetto va 
ad acquisire on the job.  
S
erato come un elemento fortemente riconducibile alla soggettività della persona, 
la cui misurazione in termini assoluti debba partire da indagini statistiche a livello 
individuale e familiare, al fine di considerare al meglio tutti gli elementi caratteristici di 
questo concetto. In tal s
 
Il capitale umano è un costrutto multidimensionale non osservabile generato 
dall’investimento 
mico, tale da comportare un effetto sulla produttività, osservabile dal reddito da 
lavoro nel ciclo vitale. 
 
I 2 economisti pongono l’accento in particolare sull’incremento della produttività 
del lavoro generato dall’apporto del capitale umano, e sul reddito individuale che va a 
darne una misura. 
 
15
 Becker G.S., Il valore del capitale umano. Apulia, 2005 
16
 L’articolo è consultabile al sito www.bpp.it/Apulia/html/archivio/2005/III/art/RO5III014.html  
17
 Si veda anche le pubblicazioni presenti sul sito http://www.novauniversitas.it/System/1981  
 13
Sembra utile inoltre ribadire la distinzione vigente fra i concetti di capitale umano 
e capitale sociale che talvolta possono essere erroneamente scambiati fra di loro.  
Il concetto di capitale sociale è stato sviluppato da molti autori nel corso del XX 
secolo 
18
; tale nozione, pur concernendo come il capitale umano degli aspetti intangibili 
ed immateriali legati all’individuo, considera il soggetto nell’ambito relazionale in cui 
esso 
siede e può mobilitare per perseguire i propri fini e migliorare la propria 
posizione sociale. È essenzialmente legato alla classe sociale d’appartenenza degli 
individ
 e possono costituire un importante vantaggio per bambini e 
adolescenti nello sviluppo del loro capitale umano”. 
 questa definizione quindi, il capitale sociale appare per certi versi 
compl
opera economicamente. A tal proposito possono essere indicative alcune 
definizioni relativamente recenti di capitale sociale; il sociologo francese Bordieu lo 
indica nel 1980 come “la rete delle relazioni personali e sociali che un attore (individuo 
o gruppo) pos
ui e si distingue dal capitale economico e culturale.” 
Più vicina al concetto di capitale umano appare in verità la visione di Loury: nella 
sua concezione di capitale sociale trova collegamento alla funzione formativa ed 
educativa che è alla base della dotazione del capitale umano dell’individuo. Egli infatti 
afferma che: 
 
“Il capitale sociale è l’insieme delle risorse che ineriscono alle relazioni 
familiari e all’organizzazione sociale della comunità e che sono utili per lo sviluppo 
cognitivo o sociale di un bambino o di un giovane. Queste risorse differiscono da 
persona a persona
 
In
ementare al capitale umano, andando a fornire con le relazioni familiari quelle 
basi su cui successivamente l’attività educativa e formativa della scuola e del lavoro 
andrà ad investire. 
 
2. Capitale umano e crescita: considerazioni teoriche 
 
Il modello classico nella teoria della crescita economica è ancora oggi quello 
sviluppato da Solow negli anni cinquanta. È da qui che bisogna partire per comprendere 
                                                 
18
 Per ulteriori definizioni del concetto di capitale sociale è interessante la pubblicazione di G. Rossi, Il 
capitale sociale, Univ. Cattolica Milano, 2005 presente al sito 
www.acton.org/ital/publocat/il_capitale_sociale.pdf 
 
 14
come il capitale umano influenza la crescita economica. Nell’analisi di Solow 
un’economia capitalistica tende a collocarsi all’interno di un sentiero di crescita 
equilibrata e stabile. In altri termini il tasso di crescita del prodotto tende ad essere 
costan
 termini economici come la dinamica della popolazione e quella delle 
scoper
ngere l’equilibrio. In 
fin dei
d’avvicinamento al sentiero d’equilibrio. Questa fase di transizione può essere 
molto
provato a verificare empiricamente le predizioni del modello ma, se si fanno ipotesi 
                                                
te nel tempo e lo stesso dicasi di quello dei fattori produttivi come capitale e 
lavoro che determinano la produzione complessiva dell’economia. Quando l’economia 
percorre questo sentiero il suo tasso di crescita non dipende da quello dei fattori che 
possono essere accumulati come il capitale ma, piuttosto, dall’evoluzione di fattori non 
controllabili in
te scientifiche e tecnologiche. L’accumulazione del capitale è un fattore 
determinante solo nella fase transitoria di aggiustamento dell’economia verso il sentiero 
di crescita equilibrata ma, una volta che tale sentiero è stato raggiunto, la crescita del 
capitale deve adeguarsi a quella dei fattori esogeni indicati in precedenza
19
. 
Qualora se ne discosti si crea un’eccessiva disponibilità di capitale che riduce i 
profitti e l’incentivo ad investire. Oppure se lo stock di capitale è inferiore a quello 
ottimale gli incentivi all’accumulazione aumentano fino a raggiu
 conti il capitale ha un ruolo passivo, nel senso che si adegua al comportamento di 
altre variabili. 
Questa ipotesi teorica ha implicazioni di notevole rilevanza. Se la dinamica dei 
fattori esogeni è simile in economie diverse fra loro, esse dovrebbero tendere verso un 
unico e comune tasso di crescita. Nella realtà questo non accade, l’evidenza empirica 
mostra che i tassi di crescita sono molto diversi fra le varie economie anche nel lungo 
periodo. Il modello di Solow offre in ogni caso una spiegazione a quest’anomalia. Le 
economie possono infatti trovarsi al di fuori del sentiero di equilibrio. In questo caso la 
crescita di ciascuna dipende dalla sua lontananza da tale sentiero. 
Un’economia dunque che avrà uno stock di capitale molto basso sarà 
caratterizzata anche da forti incentivi all’investimento perché il capitale è scarso e la sua 
produttività elevata (anche i profitti saranno di conseguenza elevati); l’accumulazione 
del capitale sarà più rapida e questo farà aumentare il suo tasso di crescita durante il 
processo 
 lunga e ciò spiegherebbe la variabilità dei tassi di crescita rilevata empiricamente. 
Purtroppo questa spiegazione è tutt'altro che soddisfacente. Vari economisti hanno 
 
19
 Si veda anche Lodde S., Capitale umano e sviluppo: cosa sappiamo in teoria e nei fatti?, Università di 
Cagliari, 2000 consultabile al sito www.crenos.it/working/pdf/00-3.pdf  
 15
realistiche sulla quota del prodotto complessivo attribuita al capitale, non si riesce a 
spiegare - se non in misura molto ridotta - la variabilità dei tassi di crescita. Gran parte 
della 
ili a quelle del capitale fisico da un punto di vista economico. 
Così c
nomisti hanno cercato di definire 
quanti
                                                
crescita sembra dipendere da fattori non spiegati e misteriosi. Naturalmente il 
problema sarebbe risolto o attenuato se la quota del capitale fosse più ampia; da qui 
l’interesse degli economisti per un’estensione del concetto di capitale al di là di quello 
fisico
20
 . 
Il capitale umano rappresenta un ottimo candidato a questo scopo poiché ha 
caratteristiche molto sim
ome nel caso del capitale fisico l’accumulazione di capitale umano è il risultato di 
una decisione di investimento che risponde a criteri di redditività. 
L’investimento in capitale umano ha un costo rappresentato dalla spesa per 
acquisire l’istruzione necessaria, e viene effettuato in vista di un rendimento costituito 
dalla differenza di salario che il lavoratore istruito è in grado di spuntare sul mercato del 
lavoro rispetto al lavoratore non istruito. Ciò avviene perché l’investimento in capitale 
umano ha l’effetto di accrescere la produttività del lavoratore esattamente come quello 
in capitale fisico. 
Si è andata quindi a diffondere la convinzione che il capitale umano giochi un 
ruolo fondamentale nelle dinamiche dei processi di crescita e sviluppo delle economie 
mondiali; a partire dagli anni ’70 numerosi eco
tativamente il ruolo del capitale umano in funzione dei tassi di crescita: in tal 
senso un primo significativo tentativo è quello di Denison
21
 che stimava una funzione di 
produzione aventi come input il capitale e il lavoro dove la qualità di questo ultimo è 
misurata da un indice degli anni di istruzione mediamente acquisiti dai componenti 
della forza lavoro. Denison trovò che l’istruzione contribuisce positivamente alla 
crescita del prodotto e che tale contributo può essere stimato pari ad un valore compreso 
fra il 15% e il 25% della crescita complessiva, e che inoltre tale contributo è aumentato 
nel tempo, confrontando le serie storiche dei dati
22
. 
Più recentemente tre studiosi americani, Mankiw, Romer e Weil hanno cercato di 
reinterpretare il modello della crescita di Solow includendovi il capitale umano: in una 
 
20
 Fiorito R.,Barriere alla crescita e differenze di reddito tra Paesi,2003 alla pagina www.econ-
pol.unisi.it/pubdocenti/barriers.doc  
21
Denison E., Why Growth Rates Differ, The Brookings Institution, 1967  
22
 Si veda anche la pubblicazione di Lodde alla pagina www.crenos.it/working/pdf/00-3.pdf  
 16