7
A scatenare la riflessione dell’autore fu, com’è noto, una recensione ai 
Promessi sposi uscita sulla rivista <<Ueber Kunst und Alterthum>>, 
sempre nel 1827, a cura di A.F.C. Streckfüss ma in realtà ispirata da 
Goethe e dai suoi colloqui con Eckermann. Manzoni decise di 
redigere un trattato sotto forma di lettera al Goethe in cui esponeva in 
maniera articolata il cambiamento di rotta intervenuto sulla sua 
visione del genere romanzesco. Una prima testimonianza di questo 
lavoro risale ad una lettera del Rosmini del marzo 1828, il quale dice 
che ormai quest’opera è quasi compiuta. Evidentemente le cose non 
stavano esattamente così, visto che il Manzoni fece sapere nel giugno 
del ’29 al Goethe, tramite il Cattaneo, di essere impegnato in 
un’analisi del rapporto tra storia ed invenzione, ma di procedere a 
rilento, per questioni di salute. Questa è la giustificazione più 
frequente, messa in campo dal Manzoni, per celare disagi culturali e 
morali sulle questioni che più lo coinvolgevano. Che l’argomento gli 
procurasse problemi e tormenti ne reca testimonianza illuminante lo 
storico tedesco Karl Witte che, nell’ottobre del 1831, recatosi a 
Brusuglio e intrattenutosi col Manzoni su questa materia, così descrive 
la reazione del Manzoni di fronte all’argomento: <<[…] una strana 
inquietudine, un’espressione particolare quasi dolorosamente ferita, un 
tremore sensibile agli angoli della bocca, mi fecero capire quale 
indesiderato oggetto di discorso avevo scelto e come il Manzoni 
riteneva il massimo che alla sua singolarità era concesso e di cui era 
già pentito, l’aver fatto stampare scritti che, come egli diceva, e i suoi 
mi confermarono, nel momento in cui erano compiuti avevano perduto 
ogni interesse per lui, gli erano diventati noiosi, insoddisfacenti, anzi 
quasi odiosi.>>
2
  
                                                           
2
 Cito dalla traduzione di M.Puppo, Karl Witte a colloquio con A.M., in Poesia e 
verità: interpretazioni manzoniane, Messina, 1979.  
 8
La colorita descrizione del Witte lascia sgomenti per il livello di 
partecipazione sofferta con la quale il Manzoni viveva una questione 
letteraria – fondamentale sì, ma pur sempre letteraria… - che tanto 
aveva contato nella sua carriera artistica. E sgomenta ancora di più 
costatare che tale condizione di disagio era il risultato della revisione 
del romanzo, che invece avrebbe dovuto portare a soddisfazione e 
sollievo, visto che terminava una gestazione lunghissima con la 
creazione di un capolavoro tanto atteso dal mondo culturale italiano.  
Ma cosa aveva detto di tanto sconvolgente il Goethe sul romanzo 
manzoniano, per provocare reazioni così violente? Le sue parole sono 
eloquenti, e non hanno bisogno di commento:  
<<Il romanzo del Manzoni supera tutto ciò che noi conosciamo in 
questo genere. L’elemento interiore, tutto ciò che deriva dall’anima 
del poeta, è perfetto, e l’elemento esteriore, le descrizioni dei luoghi e 
simili, non la cede di un capello alle grandi qualità interiori… 
L’impressione che si riceve alla lettura è tale che si passa 
continuamente dalla commozione alla meraviglia, e dalla meraviglia 
alla commozione: così che non si esce mai da uno di questi due grandi 
effetti. Credo che non si possa andare più in là. In questo romanzo si 
vede per la prima volta davvero chi è Manzoni… 
E nella trattazione e nella pittura dei particolari egli è luminoso, come 
il cielo stesso d’Italia. In lui c’è sentimento, ma senza sentimentalità. 
Le circostanze sono sentite virilmente e schiettamente… 
Lo storico ha giocato al poeta in brutto tiro; poiché il Manzoni sveste 
(nell’ultima parte del romanzo) d’un tratto l’abito di poeta, e ci si 
presenta per troppo tempo nella sua nudità di storico. E ciò accade 
nelle descrizioni della guerra, della carestia e della peste; cose già 
ripugnanti per sé, e che, nel minuzioso particolareggiare d’un’arida 
rappresentazione di cronista, diventano insopportabili… 
Si dovrebbe abbreviare per una buona parte la descrizione della guerra 
e della carestia, e di due terzi quella della peste; così che resti soltanto 
quello che è necessario ad intendere l’azione dei personaggi… 
 9
Ma, appena i personaggi del romanzo ricompaiono, il poeta ci sta di 
nuovo dinanzi in tutta la sua gloria e ci costringe alla consueta 
ammirazione.>>
3
 [il corsivo è mio] 
La critica garbata alla presenza eccessiva d’inserti storici nei Promessi 
sposi, fatta da un personaggio dalla grande levatura artistica come il  
Goethe, dovette essere un colpo mortale per il Manzoni artista, il 
quale stava maturando, proprio in quel periodo, la convinzione che era 
proprio la storia a fare grande l’arte, e il fine morale a cui essa deve 
costantemente tendere. Ma, a nostro parere, fu anche un’altra 
questione sollevata dal Goethe a turbare profondamente il Manzoni: il 
passo in cui l’autore tedesco sottolinea lo stretto rapporto fra lo 
scrittore e i suoi personaggi. 
Già in passato il Goethe ebbe a notare che la creazione dei personaggi 
in un’opera poetica è semplice tramite alla rappresentazione del 
mondo dell’autore (<<per il poeta nessun personaggio è storico; egli si 
compiace di rappresentare il suo mondo morale, e a questo scopo fa a 
certe persone della storia l’onore di prestare i loro nomi alle sue 
creature.>>
4
) E il Manzoni arrivò a scusarsi per l’insistente storicità 
dei suoi personaggi in una lettera al Goethe del 23 gennaio 1821: 
<<Deggio però confessarle che la distinzione dei personaggi in istorici 
e in ideali è un fallo tutto mio, e che ne fu cagione un attaccamento 
troppo scrupoloso all’esattezza storica, che mi portò a separare gli 
uomini della realtà da quelli che io aveva immaginati per 
rappresentare una classe, una opinione, un interesse. In un altro lavoro 
recentemente incominciato io aveva già omessa questa distinzione, e 
mi compiaccio di aver così anticipatamente obbedito al suo avviso.>>
5
 
                                                           
3
 G.P. Eckermann, Colloqui col Goethe. trad. di E.Donadoni, Bari, Laterza, 1912, 
vol.I, pgg., 261-262, 264. 
4
 W. Goethe, Il Conte di Carmagnola. Tragedia di Alessandro Manzoni, in P. 
Fossi, La critica del Manzoni ed altre note critiche, Sansoni, Firenze 1937. 
5
 Alessandro Manzoni, Tutte le lettere; a cura di Cesare Arieti, Adelphi 1986. 
 
 10
La questione sollevata dal Goethe è molto chiara, e riaffiora in 
entrambe le occasioni in cui si trovò a discutere dei personaggi creati 
dal Manzoni. Egli dice in sostanza che i personaggi svelano la vera 
natura di chi li ha creati, e quelli dei Promessi sposi ci mostrano 
<<davvero chi è Manzoni>>. È nostra intenzione dimostrare che 
questa visione del rapporto autore-opera è ciò che il Manzoni 
maggiormente aborriva, e che il suo rifiuto del romanzo è un tentativo 
di riportare nell’ombra quel poeta che, invece, a causa dei suoi 
personaggi <<ci sta […] dinanzi in tutta la sua gloria>>. 
Ma perché i personaggi rivelano in maniera così pericolosa il suo 
autore? Goethe lo dice esplicitamente: attraverso di essi, il poeta <<si 
compiace di rappresentare il suo mondo morale>>. Questo principio, 
se applicato all’opera manzoniana, porta a conseguenze molto gravi. 
Per conoscerle, è sufficiente un semplice sillogismo derivato dalle 
parole di Goethe: se i personaggi rappresentano il mondo morale 
dell’autore e nei Promessi sposi si vede per la prima volta chi è 
davvero Manzoni, allora – per Goethe – i personaggi del romanzo ci 
mostrano il vero mondo morale del Manzoni. Il punto è: Manzoni se 
la sentiva di farsi rappresentare moralmente da alcune delle sue 
creature, forse le più rappresentative del romanzo, ma anche quelle 
moralmente più discutibili? Ci riferiamo naturalmente ad una monaca 
criminale, un libertino diabolico, un ribaldo satanico (soprattutto a 
questo…), un prete pusillanime. Evidentemente no. E il suo timore 
risulta essere più che giustificato, quando costatiamo che Don 
Abbondio, l’Innominato e compagni furono i personaggi nei quali la 
critica si compiacque maggiormente di rilevare forti accenti 
autobiografici.  
La situazione si complica se volgiamo lo sguardo alla prima stesura 
del romanzo. In essa è possibile ravvisare una visione più fosca del 
mondo; si tratteggiano a tinte forti personaggi decisamente più 
violenti, oscuri, corrotti. Ma anche per il Fermo e Lucia vale il 
 11
principio goethiano sopra esposto. Ne verrebbe fuori, dunque, un 
mondo morale per nulla limpido. 
Questa visione dei fatti ha anche delle conseguenze in ambito 
letterario. Sarà nostra cura dimostrare quanto la prima stesura del 
romanzo rientri in un’eccentrica tradizione romanzesca, forse 
nell’ambito della più discussa, contrastata, condannata tradizione 
letteraria. Attraverso la creazione di personaggi e situazioni 
romanzesche tutti gli autori che hanno intrapreso il cammino della 
narrativa hanno messo in esposizione il proprio mondo morale. La 
moralità di queste operazioni letterarie è sempre stata, infatti, al centro 
delle polemiche, degli attacchi di cui il romanzo è stato fatto oggetto. 
All’epoca dell’inizio del Fermo e Lucia, il genere romanzesco non 
godeva di molti precedenti accettati dalla morale comune. Vedremo in 
seguito che il romanzo veniva attaccato e condannato a prescindere 
dalla reale moralità dei suoi intenti. E scegliere questo genere 
letterario, proponendosi – al contempo – fini morali, appariva agli 
occhi di molti, ancora una contraddizione. Inoltre è possibile 
affermare che il Fermo e Lucia risponde, molto più del suo 
successore, ai canoni della tradizione romanzesca più radicale. Perché 
è quello che Manzoni chiama esprit romanesque il vero oggetto del 
problema. Nella lettera del 29 maggio 1822 al Fauriel (lettera che 
citeremo più volte, nell’ambito di questo lavoro) il Manzoni definisce 
in questa maniera l’abitudine degli autori di opere narrative di 
costruire la trama con avvenimenti inverosimili, fantastici, inattesi, al 
solo scopo di creare suspense, curiosità nel lettore, di affascinarlo.  
 
 12
 
1.2 LA CONTRADDIZIONE MANZONIANA 
 
 
Il termine romanesque Manzoni l’aveva preso da un’inveterata 
abitudine dei letterati di utilizzare roman e tutte le parole con questa 
radice in senso dispregiativo, verso quelle opere letterarie che avevano 
il meraviglioso come oggetto. Questa parola fu reietta, sin da quando 
fece la sua prima apparizione nella lingua. Serviva a distinguere le 
opere scritte in volgare romanzo, da quelle composte in latino 
letterario.  
Roman venne subito utilizzato per definire le storie che riprendevano 
vecchi racconti dell’antichità, in quanto costituivano volgarizzamenti 
di famose opere della letteratura latina. Il primo del genere è il Roman 
d’Alexandre, risalente al 1130. Il genere ebbe molta fortuna e fu 
seguito da altre opere che s’ispiravano, più o meno esplicitamente, alla 
letteratura latina, come il Roman de Thèbes, che riprende la Tebaide di 
Stazio, il Roman d’Eneas, rifacimento dell’Eneide di Virgilio, oppure 
il Roman de Brut che parla della migrazione di Bruto, pronipote di 
Enea, dal Lazio alla Gran Bretagna.   
Gli autori di queste opere sono dei chierici che conoscono bene il 
latino e sanno tradurlo. Essi affermano con orgoglio la verità storica 
dei propri racconti, e si gloriano delle proprie competenze storiche e 
filologiche. Il genere romanzesco, che diventerà il più libero fra i 
generi letterari, è dunque all’inizio costretto nello spazio limitato della 
traduzione, e l’unica ambizione rivendicata è la verità storica. Riceve 
il titolo di roman semplicemente perché si definisce una mise en 
roman, appunto una traduzione dal latino in lingua romanza. 
Caratteristiche di queste primissime opere di narrativa sono la forte 
riduzione dell’elemento mitologico e un appello sempre più frequente 
al meraviglioso che sconfina nella magia o nella negromanzia. Ma 
soprattutto, esse concedono uno spazio del tutto nuovo all’amore, 
 13
amplificando gli episodi amorosi che trovano nelle fonti o 
inventandone di nuovi, dipingendo con prolissità e compiacimento 
estremi la nascita dell’amore, il turbamento del cuore inesperto che 
stenta a riconoscerlo, la timidezza degli amanti, le astuzie, i sotterfugi, 
le audacie, i tradimenti, le confidenze, le confessioni. Questa 
attenzione particolare verso l’amore lo renderà molto presto aperto 
all’amor cortese. Ma questo interesse è ancora mascherato dalla 
preoccupazione ostentata di scrivere storia. Il Brut di Wace – ad 
esempio - è essenzialmente un rifacimento della Historia regum 
Britanniae pubblicata nel 1136 dal chierico, poi vescovo, gallese 
Goffredo di Monmouth. 
Risulta chiaro, dunque, che l’associazione delle parole romanzo, 
romanzesco con il meraviglioso che trae spunto da fatti storici ha 
radici antichissime, ed ha mantenuto una tradizione sempre vitale. 
Contemporaneamente roman e le parole con questa radice hanno 
conservato, nel corso dei secoli, l’accezione negativa con la quale 
erano nate, in contrapposizione alla nobiltà del latino. L’associazione 
con il meraviglioso (in principio necessario alla letteratura romanza, 
per conquistare la porzione di pubblico popolare alla quale faceva 
riferimento, visto il volgarizzamento della lingua) contribuì a 
decretare la fortuna di questo termine come indicatore della letteratura 
fantastica, non realistica. Quando il romanzo cominciò ad affermarsi 
come genere letterario autonomo, troviamo nella letteratura inglese la 
parola romance, distinta dal termine novel proprio per sottolineare la 
differenza tra opere di argomento fantastico e racconti realistici. Sotto 
la definizione di romance finivano, infatti, tutti quei prodotti narrativi 
che prediligevano l’elemento fantastico, in cui l’attenzione era rivolta 
alla trama piuttosto che ai personaggi e c’era un interesse 
predominante per il suspense e le complicazioni narrative. Novel, 
invece, indicava le narrazioni in cui personaggi e azioni realistici 
erano presentati in una trama più o meno complessa e verosimile. 
Questa distinzione fu formulata per la prima volta, in maniera ordinata 
 14
e articolata da Clara Reeve nelle sue prime sistemazioni antologiche 
della narrativa inglese (The Progress of Romance, 1785). 
Proprio a questa definizione di romance pensava Manzoni, quando 
definì l’esprit romanesque; egli, infatti, attribuisce ai romanzi che ha 
letto l’intenzione di <<stabilire relazioni interessanti e imprevedibili 
tra i diversi personaggi, per presentarli insieme sulla scena, per trovare 
avvenimenti che influiscono contemporaneamente e in modo diverso 
sui destini di tutti, in sostanza una unità artificiale che non si trova 
nella vita reale>>. 
Quando Manzoni prospettò lo svolgimento del proprio romanzo al suo 
amico Fauriel, si preoccupò subito di sottolineare la sua distanza 
rispetto alla tradizione romanzesca – a parer suo – più logora, che si 
serviva delle caratteristiche del romanzesco per colpire il lettore, 
proclamando la sua fede per il vero, la sua necessità di realismo, e 
giustificando il verosimile (necessario per un romanzo, anche se 
definito <<storico>>) con la volontà di raccontare quello che la storia 
non dice, attraverso una ricostruzione fedele dei costumi, della società 
dell’epoca in cui è ambientata la storia.  
Nel 1821, mise dunque mano ad un romanzo. A livello teorico 
proclamò la sua estraneità con la tradizione romanzesca, ma a livello 
pratico la situazione fu ben diversa. Analizzando il primo risultato 
della penna del romanziere lombardo è possibile ricostruire un fitto 
intreccio di corrispondenze, più o meno velate con opere e temi 
romanzeschi molto sfruttati dalla narrativa di tutti i tempi e luoghi. 
Questi temi, risalenti a tradizioni letterarie e ad autori noti e meno noti 
possono essere ricondotti tutti al meraviglioso inteso in senso lato, 
come creazione fantastica tesa al coinvolgimento del lettore. Essa è la 
materia dell’arte, il tramite attraverso il quale la letteratura stabilisce il 
suo contatto con il lettore…il fine ultimo della comunione artistica.  
Risulta necessario allora, recuperare i temi romanzeschi che hanno 
avuto maggiore fortuna nella letteratura, individuarne le fonti, 
stabilirne i fini, in modo da dimostrare che essi si fondono con l’arte 
 15
letteraria, costituendone l’essenza. Senza di essi non è data letteratura 
degna di questo nome. Stabilito questo, risulta evidente che i nemici 
del romanzesco, coloro che ne hanno messo in discussione la moralità, 
quando ne hanno ravvisato la presenza nei vari generi letterari, sono 
da considerarsi nemici della letteratura tout court. Per questo, tutti 
quelli che hanno intrapreso battaglie contro coloro che limitavano la 
libertà del pensiero si sono serviti di questo mezzo per combattere. Fra 
di essi bisogna inserire anche Alessandro Manzoni, in quanto erede 
italiano del romanzo europeo e dei suoi temi più fortunati. Egli si 
serve a piene mani della tradizione del romanzo per comporre la sua 
opera, ancora inconsapevole del fatto che non poteva esistere arte 
senza invenzione poetica. È qui che nasce la grande contraddizione 
dell’arte manzoniana. Contraddizione che porterà il Manzoni alla 
profonda crisi ideologica che abbiamo visto scatenarsi alla fine della 
revisione del romanzo e all’<<anarchia, per non dire alla distruzione 
dell’arte medesima>>, secondo la testimonianza della lettera del 16 
febbraio 1829 al conte Francesco Guicciardini.  
<<La “crisi” sarà originata da una critica interna al concetto stesso di 
poesia, dapprima aggredito con una contestazione radicale e poi 
riformulato – nella lettera al giovane banchiere veneziano Marco Coen 
del 2 giugno 1832 – tramite la ripresa della distinzione operata dal 
Parini nel Discorso sopra la poesia (e già fatta propria da Manzoni nel 
giovanile sermone Della poesia) tra attività umane necessarie e 
attività non assolutamente indispensabili: “[…] pensi di che sarebbe 
più impacciato il mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti, 
quali di queste due professioni serva più non dico al comodo ma alla 
coltura dell’umanità!”. Nel momento in cui Manzoni, con risposta 
tattica al giovane che si sentiva impedito nelle aspirazioni alla 
letteratura dal lavoro di banchiere impostogli dalla coazione paterna, 
sembra assegnare alla poesia una posizione subalterna nel consorzio 
sociale, non fa che consumare fino in fondo la sua avversione alle 
 16
“lettere […] che vivon di sé e da sé”>>
6
 Di nuovo la questione morale. 
Probabilmente il punto controverso è proprio questo: la finzione 
letteraria non è di utilità morale. Questo fu un tormento per Manzoni, 
finché visse. Ne abbiamo un esempio nella querelle che nacque tra 
Manzoni e Tullio Dandolo, all’epoca in cui lo storico veneziano 
pubblicò un saggio (1855) che conteneva carte del processo a 
Marianna de Leyva, il personaggio storico che ispirò la monaca di 
Monza. In quel saggio il Dandolo parlava anche in maniera malevola 
del Manzoni. Così Manzoni gli rispose, quando venne a conoscenza di 
quello che lo storico aveva detto sul suo conto:  
<<Nel libro offertomi da Lei in dono questa mattina, trovo un 
giudizio, che non può riguardare altro che me. 
Chi ha alzato un lembo di tal dramma spaventoso, dianzi sconosciuto, 
che scambia un monastero di vergini in caverna d’assassini: cosa che 
forse poté parere a rigoristi un argomento fornito à mali commentarii 
de’ nemici delle istituzioni monastiche; chi ne ha fatta clamorosa 
communicazione al pubblico; chi ha lanciata la fiera tragedia ad 
esser aggirata nel vortice della opinione, derelitta in balia ai contrari 
parlari degli uomini; chi ne ha fatto un tanto più facil ludibrio, e 
accetta pastura d’oziosi, di tristi, in quanto che notevol parte ne 
rimase in ombra, indefinito campo a commentarii sfrenati, avrei a 
esser io. La conclusione voluta dalle parole che ho dovute citare, 
sarebbe che il rimuovere del tutto la tenda insanguinata, era una cosa 
necessaria a riparare tutto quel male, al quale io avrei data occasione, 
e la più comoda occasione. Sono ben lontano dal voler discutere, né 
ora, né mai la giustizia d’una tale accusa; ma Ella non si maraviglierà 
che il libro che la contiene non possa rimanere presso di me come un 
dono.>>
7
 
                                                           
6
 S.Nigro, Manzoni, in Letteratura italiana Laterza. Bari, 1990. 
7
 A.Manzoni, Lettere,  op.cit. 
 17
Al Manzoni veniva contestata la moralità della sua operazione 
romanzesca, che – a parere del Dandolo – aveva infangato la 
reputazione delle istituzioni monastiche, rendendo pubblica una storia 
tanto triste, lasciando malignamente in ombra molti fatti, per 
accrescere il senso di orrore e dare la storia in pasto ai nemici degli 
ordini monacali. Manzoni non ebbe il coraggio di rispondere con 
argomentazioni valide a queste accuse e si limitò (con successo) a 
chiedere che i brani del saggio a lui riferiti, fossero espunti.  
Questa disputa non fa che riproporre una questione che il Manzoni 
stesso (probabilmente a causa di sollecitazioni esterne, seppure non 
così plateali come quelle del Dandolo…) aveva sollevato durante la 
stesura del romanzo e la sua revisione. In sede di correzione, l’autore 
cercò di confutare quella spietata legge goethiana che stabiliva il 
rigido rapporto tra personaggi, situazioni romanzesche e mondo 
morale dell’autore, attraverso un’opera di autocensura, attuata con 
strumenti artistici quali le reticenze, il distacco ironico dell’autore. 
Desideriamo affermare arditamente che molti elementi caratterizzanti 
i Promessi sposi, rispetto al Fermo e Lucia e il ripensamento 
ideologico sotteso ad essi furono provocati da questo tentativo di 
riportare l’autore dalla ribalta al buio. Il Barbi ha addirittura affermato 
che la stessa visione provvidenziale del mondo potesse essere 
attribuita soltanto ai personaggi, e non al narratore, il quale, neppure 
in una questione così vitale del romanzo, come la Provvidenza, volle 
più esporsi, e quindi invita a non attribuire al Manzoni ciò che sta 
<<tanto bene>> in bocca ai suoi <<attori>>. A riprova di questo 
radicale allontanamento stanno le manifestazioni della sua fede nella 
Provvidenza apertamente dichiarate nel Fermo e Lucia, fatte poi 
sparire in sede di revisione: <<[…] questo stesso difetto ci dà il campo 
di porre qui una riflessione consolante in mezzo ad un sì tristo 
racconto: che è un disegno sapientissimo della Provvidenza regolatrice 
del mondo, che le perfidie le più studiate a danno altrui non sono mai 
 18
tanto bene studiate, tanto bene eseguite che non rimanga sempre 
qualche traccia della mano che le ha ordite.>> 
Il sigillo di questa fuga dell’autore è sicuramente la distruzione ironica 
dell’idillio, alla fine del romanzo: <<[…] i guai vengono bensì spesso, 
perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più 
innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per 
colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per 
una vita migliore.>> Non possiamo fare a meno di pensare al 
sogghigno dell’autore nello scrivere questa frase…<<Questa 
conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che 
abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia>>. Forse 
non fu neppure un sogghigno, ma una sonora risata. Probabilmente il 
Manzoni non credeva neppure ad una di queste parole, ma le fece 
diventare ugualmente <<il sugo di tutta la storia>>, perché non 
credeva più alla poesia che aveva contribuito a costruirla. Per non 
parlare del naufragio dell’idillio che si riscontra in tutta la situazione 
in cui sono inseriti i discorsi finali dei due protagonisti, a causa 
dell’<<immissione massiccia dell’economico entro la topologia della 
favola domestica.>>
8
 Ma, parafrasando George Eliot, dobbiamo 
ammettere che le conclusioni rappresentano sempre il punto debole di 
un romanzo. Eppure non si può non scorgere in questo finale 
un’intenzione quasi crudele dell’autore…<<[…] si profila dietro ciò 
che pare un ragguaglio oramai stanco un disegno ironico che 
aggredisce proprio la struttura del lieto fine, il codice della favola 
secondo cui tutti i conti debbono alla fine tornare. Il paradigma della 
vita “felice e tranquilla” che attende i protagonisti viene ripreso 
soltanto per essere deformato e neutralizzato, ripetuto in più versioni a 
cui manca sempre qualcosa, in un seguito beffardo di sfasature, di 
contrattempi, di misuratissime dissonanze.>>
9
 L’ironia fu dunque uno 
strumento per liberarsi delle responsabilità morali che il romanzo 
                                                           
8
 Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio, Einaudi 1974, pg.221 
9
 E.Raimondi, Il romanzo senza idillio, cit.pg.220. 
 19
comportava. E il bilancio etico dei Promessi sposi è così leggero, 
proprio per far sì che nessuno possa pensare che l’autore lo condivida. 
Questo fu il sigillo. La formulazione teorica del distacco dalla poesia, 
moralmente troppo compromettente, fu il trattato sul romanzo storico.  
 
 
1.3 SUL ROMANZO STORICO 
 
Con questo trattato, ideato già all’epoca della prima edizione dei 
Promessi sposi, ma che ebbe una storia contrastata, poiché fu ultimato 
nel 1830 e pubblicato soltanto nel 1850, Manzoni decide di chiudere i 
conti con il romanzo. L’autore intavola una discussione con se stesso, 
attraverso la collaudata formula dell’interlocutore ideale. I riferimenti 
alla tecnica romanzesca sottintendono in maniera quasi sfacciata gli 
strumenti utilizzati dal Manzoni stesso, nella composizione del suo 
romanzo. Sembra quasi che l’autore voglia rispondere (e contraddire) 
le posizioni sostenute all’epoca della  Lettre allo Chauvet. Ne è una 
prova certa l’Avvertimento che l’autore pose a prefazione del trattato:  
<<L’autore sarebbe in un bell’impegno se dovesse sostenere che le 
dottrine esposte nel Discorso che segue, vadano d’accordo con la 
Lettera che precede
10
. Può dir solamente che, se ha mutato opinione, 
non fu per tornare indietro. Se poi questo andare avanti sia stato un 
progresso nella verità, o un principizio nell’errore, ne giudicherà il 
lettore discreto, quando gli paia che la materia e il lavoro possano 
meritare un giudizio qualunque.>>
11
 Una resa dei conti con se stesso, 
dunque. L’autore intendeva riassumere (per chiudere) tutte le 
questioni, i tormenti, i dubbi che il suo matrimonio difficile gli aveva 
procurato.  
                                                           
10
 Allude alla Lettre, che nell’edizione delle Opere varie (Milano, Redaelli, 1845) 
cui il Manzoni qui fa riferimento, era collocata immediatamente prima di questo 
Discorso. 
11
A.Manzoni, Scritti di teoria letteraria, Ed. Rizzoli, 1981, pg.196.