4
            Fin dagli esordi della sua produzione filosofica, Merleau-ponty 
riconobbe nel linguaggio musicale il “modello della significazione”
2
, l’ambito 
più idoneo per condurre l’analisi della creatività artistica e, in generale, del 
processo di formazione dei significati: con maggior evidenza rispetto alle 
altre arti, infatti, la musica testimonia, nell’inseparabilità del senso dalla 
concretezza dei suoni e del loro svolgimento, quell’immanenza del contenuto 
nel segno
3
 che caratterizza la dimensione percettiva originaria dell’essere-nel-
mondo. In Fenomenologia della percezione (1945), Merleau-Ponty dimostrò 
infatti che ogni autentico atto espressivo si dà innanzitutto nel vissuto 
percettivo della corporeità, in un livello in cui vengono meno le dicotomie 
cartesiane
4
, in quell'indistinzione di soggetto e oggetto e di attività e passività 
descritta da Arthur Rimbaud nella lettera del “veggente” del 1871, testo che 
inaugurò, come riconobbe lo stesso Merleau-Ponty, l’attitudine creativa di 
parecchie generazioni di poeti, pittori e musicisti, tra cui lo stesso Schönberg.  
            Il visibile e l’invisibile, rivisitazione “nella prospettiva dell’ontologia”
5
 
delle tematiche affrontate nelle precedenti opere, rimanda fin dal titolo alla 
contrapposizione platonica tra un mondo intelligibile, invisibile, e un mondo 
                                                 
               
            
2
 “La musica come modello della significazione – di quel silenzio di cui è fatto il 
linguaggio. Musica che dipana [volute] di motivi, avvolti attorno ad un Etwas – 
invertendosi, facendo dello sfondo figura e di figura sfondo. Interpretare tutta la 
percezione, tutta la sua eloquenza in questo silenzio. In ogni caso la musica, come la 
pittura, sta al mondo sensibile come la filosofia al mondo intero” (Nota inedita di 
Merleau-Ponty, datata 15 novembre 1959, pubblicata in Chiasmi International 3, 
Mimesis, 2001, p. 18).  
 
            
3
 In particolare in alcune pagine della Recherche di Marcel Proust, Merleau-Ponty, 
come esporrò più ampiamente nel secondo capitolo, ravvisò l’abbozzo di una sorta di 
vera e propria concezione antiplatonica della significazione. 
  
            
4
 La filosofia di Cartesio è la base comune delle due teorie scientifiche osteggiate 
da Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione, l’intellettualismo, che tende a 
privilegiare l’aspetto soggettivo della percezione, e l’empirismo, che insiste invece 
sull’aspetto oggettivo. 
 
            
5
 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'Invisibile, op. cit., p. 186. 
  
 5
sensibile, visibile
6
: Merleau-Ponty si ripropose di rivisitare gli esordi del 
pensiero occidentale al fine di reimpostarne i presupposti ontologici, 
rifiutando innanzitutto la priorità causale dell’Idea sul sensibile, 
dell’invisibile sul visibile, e dimostrando la loro coappartenenza ad un’unica, 
più fondamentale dimensione esistenziale. Ai dualismi platonico-cristiani 
risaliva inoltre quella concezione mimetica
7
 del linguaggio che influenzò a 
lungo la teoria e la pratica musicale; tuttavia, con il crollo novecentesco di 
questo sistema dicotomico, venne meno anche la funzione rappresentativa
8
 
                                                 
            
6
 E’ nel Fedone che Platone imposta esplicitamente la dicotomia tra intelligibile e 
sensibile in termini di visibile e invisibile: “E non è forse vero che, mentre queste cose 
mutevoli tu le puoi vedere e toccare o percepire con gli altri sensi corporei, quelle, 
invece, che permangono sempre identiche non c’è altro mezzo di coglierle, se non col 
puro ragionamento della mente, perché queste cose sono invisibile e non si possono 
cogliere con la vista?” .... Poniamo dunque , se vuoi – egli soggiunse -, due forme di 
essere: una visibile e l’altra invisibile” (Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, p. 
89).  
             
            
7
 Nello Ione, Platone manifestò inequivocabilmente la sua ammirazione per il 
potere creativo dell’arte: l’atteggiamento dell’autore nei confronti della musica e delle 
arti in generale presenta tuttavia, nel corso dell’intera sua produzione filosofica, 
un’ambiguità di fondo. Come esporrò nel capitolo dedicato a quest’argomento, il 
dibattito del Cratilo (il dialogo in cui, attraverso la separazione tra livello eidetico e 
pragmatico, Socrate nega valore conoscitivo della musica) rimane aperto: Platone non 
propose una soluzione univoca, limitandosi a rilevare le contraddizioni intorno a cui 
prendono forma varie posizioni teoriche. Infatti, da una parte la necessità di una 
rappresentazione esatta delle cose attraverso il linguaggio (presupposto di una filosofia 
improntata sull’intellegibilità e sulla trasparenza dell’Essere) e, dall’altra, l’impossibilità 
di cogliere l’aspetto pragmatico generano, come avrò modo di esporre più estesamente 
nel capitolo secondo, un paradosso inestricabile entro la cornice ontologica platonica. 
 
            
8
 Un’interessante obiezione a questa concezione di un’arte capace di ripensare il 
reale oltre il paradigma imitativo platonico-cristiano viene mossa da Andrea Piras in 
una recensione a Il suono incrinato di Lisciani-Petrini: egli riconduce a un conflitto 
dialettico di stampo hegeliano il rapporto tra idea ed espressione, interpretando i 
risultati della musica e dell’arte del Novecento come un tentativo di ricomposizione 
delle due dimensioni in vista del recupero (piuttosto che dell’abbandono, come 
sosteneva invece Merleau-Ponty) delle possibilità rappresentative. “In termini filosofici 
potremmo dire che accade la frattura tra linguaggio (sia esso quello delle parole, dei 
suoni, delle forme sensibili) e l'essere, o meglio, il pensiero dell'essere. Nel tentativo di 
superare tale frattura, ma più spesso per dissimulare ogni credenza in una sua 
consistenza, gli artisti hanno tentato vari percorsi” (A. Piras, Musica e Filosofia. Il suono 
incrinato di E. Lisciani-Petrini, in XÁOS. Giornale di confine, n.2 luglio-ottobre 2002, URL: 
 6
della musica, giacché il linguaggio armonico-tonale (avviato, soprattutto a 
partire dal cromatismo wagnariano, alla sua dissoluzione, operata 
definitivamente dall’atonalità schönberghiana) risultava ormai del tutto 
incapace di esprimere la specificità del nuovo rapporto instaurato dall’uomo 
con un Essere non più identificabile con la sostanza eidetica platonica; come 
sintetizzò Paul Klee nella celebre frase che apre La confessione creatrice: "l'arte 
non ripete le cose visibili, ma rende visibile"
9
, compenetrandosi, quindi, e 
confondendosi con le trame del reale per coglierne dall’interno il dinamismo, 
superando così il tradizionale atteggiamento creativo basato sul rapporto 
meramente esteriore tra soggetto e oggetto riprodotto. In questa direzione, 
maturò in tutte le arti uno "spostamento graduale dal campo dell'estetica a 
quello dell'etica, della conoscenza"
10
, verso la profondità di quella 
dimensione apertasi oltre le apparenze del visibile e dell’udibile mediante la 
drastica rottura nei confronti dei vecchi criteri di rappresentazione e di 
verosimiglianza (tema del celebre racconto di Honoré de Balzac Il capolavoro 
sconosciuto, del 1831, che “prefigurando gli esiti estremi della crisi primo-
novecentesca della dicibilità” descriveva il “rovesciamento di realtà e 
rappresentazione”
11
, nella sintesi tra disegno e colore).  
                                                                                                                                                                  
www.giornalediconfine.net/n_2/art_13.htm). Secondo questo punto di vista, quindi, lo 
scarto incolmabile tra rappresentazione sensibile e contenuto ideale avrebbe quindi 
condotto alla “morte dell'arte” prevista da Hegel, intesa come la perdita progressiva e 
irrimediabile della funzione rappresentativa. 
 
            
9
 P. Klee, La confessione creatrice, in M. Spagnol e F. Saba Sardi, Teoria della forma e 
della figurazione, vol. I, Feltrinelli, Milano 1976, p. 76. La stessa formula veniva impiegata 
da Erwin Straus a proposito della pittura di paesaggio: essa "non rappresenta ciò che 
vediamo, o meglio, ciò che notiamo osservando una determinata regione, bensì - e il 
paradosso è inevitabile - essa rende visibile l'invisibile, però come un che di lontano" (E. 
Straus, Vom Sinn der Sinne, Springer, Berlin 1956, p. 340). 
 
            
10
  M. Luzi, Discorso sulla poesia del Novecento, in "il Pensiero", 1997/I, p. 7. 
 
            
11
 Cfr. S. Pietri, “Le Chef-d’ouvre inconnu” e la poetica del genio in Balzac, in “Studi di 
estetica”, 16, 1997. 
 
 7
            In questo contesto, Arnold Schönberg e i suoi allievi Alban Berg e 
Anton Webern, si adoperarono, nella ricerca di una “nuova sonorità” volta 
ad “esprimere sentimenti nuovi e inauditi”
12
, a cogliere il senso della crisi 
globale nella quale il crollo del fondamento ontologico platonico-cristiano 
aveva gettato la cultura occidente. Con l’emancipazione della dissonanza, 
stabilita l’equivalenza gerarchica tra le note del totale cromatico, Schönberg 
svincolò il materiale compositivo dalle leggi di attrazione tonale recuperando 
in tal modo quell’autenticità espressiva che rischiava di venir compromessa 
dal ricorso ad un linguaggio ormai saturo: si aprirono insomma di fatto 
quelle sconfinate possibilità che il compositore aveva legittimato a livello 
teorico nel suo Manuale di armonia, scritto tra il 1909 e il 1911, definito da 
Luigi Rognoni “una vera e propria fenomenologia della tecnica musicale 
continuamente soggetta alle modificazioni dell’esperienza viva dell’arte”
13
, 
opera in cui la pretesa universalità e naturalità del sistema armonico-tonale 
veniva confutata mediante la storicizzazione, e quindi la relativizzazione, 
delle sue leggi e dei suoi concetti fondamentali (tra i quali innanzitutto la 
distinzione tra consonanza e dissonanza). Le prime composizioni prive di 
centro tonale incontrarono la resistenza delle abitudini uditive consolidate 
del pubblico, suscitando incomprensioni e aspri dissensi: l’“improvviso 
smarrimento”
14
 causato dalla novità assoluta di queste opere, come ha 
rilevato Adorno
15
, risiedeva innanzitutto nella presentazione non mediata, e 
per questo provocatoria e inaccettabile, dell’angoscia; in termini non 
                                                 
            
12
 A. Schönberg, Manuale di armonia, II, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 500. 
 
            
13
 L. Rognoni, Fenomenologia della musica radicale, Milano, Garzanti, 1974, p. 113. 
 
            
14
 L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna, Einaudi, Torino 1974, p. 40. 
 
            
15
 Come suggeriva Adorno, il meccanismo può essere spiegato in termini 
psicanalitici (le stesso Schönberg, d’altronde, non fu del tutto indifferente alle coeve 
scoperte freudiane) come rifiuto, da parte della coscienza collettiva, di un rimosso che 
erompeva senza filtri formali.   
 8
dissimili, Henri Maldiney ricondusse l’effetto spaesante dei paesaggi di Paul 
Cézanne (di cui Merleau-Ponty si occupò in particolare nel saggio sulla 
pittura L’occhio e lo spirito) alla loro capacità di restituire allo sguardo dello 
spettatore l’impatto disorientante dell’incontro originario dell’uomo con il 
mondo in quel livello pre-oggettivo nel quale è possibile percepire le cose nel 
loro stato nascente, e nel quale, soprattutto, ha luogo l’esperienza-limite 
dell’angoscia, possibilità autentica d’accesso a quel nulla spaventoso 
subentrato con il venir meno del fondamento ontologico platonico-cristiano.  
            L’atonalità metteva infatti in discussione la fiducia plurisecolare nella 
naturalità del sistema armonico-tonale (corrispettivo musicale della fiducia 
in un’Essere eterno e immutabile), riaccendendo un dibattito sulla naturalità 
o la convenzionalità dei codici che rimanda, in termini filosofici, alle 
tematiche affrontate fin dal Cratilo, l’opera platonica in cui ebbe luogo quella 
separazione tra livello eidetico e livello pragmatico che la fenomenologia, a 
partire da Husserl, e certa arte e musica di inizio Novecento si sforzarono di 
ricomporre.      
 
            La svolta decisiva della carriera compositiva di Schönberg, il 
passaggio dall’atonalità alla dodecafonia, venne spiegato da Theodor 
Adorno, in Filosofia della musica moderna, secondo una prospettiva dialettico-
sociologica. Venuto a mancare, con l’abolizione del centro tonale, qualsiasi 
criterio costruttivo, l’estrema contrazione ed essenzializzazione che ne 
conseguì (il cui esito più radicale era la forma aforistica di composizioni 
come l’op. 19) sembrava aver ormai condotto l’esperienza atonale ai limiti del 
silenzio e dell’annichilimento. A questo punto ebbe luogo il movimento 
dialettico decisivo: dalla libertà assoluta dell’atonalità, risultato di un 
desiderio di controllo totale sul materiale compositivo, si ricadde 
nell’altrettanto totale costrizione della dodecafonia, la tecnica inventata dal 
musicista, paradossalmente, proprio per realizzare pienamente quello stesso 
 9
controllo. Rivoluzione mancata, insomma, la musica atonale "nonostante le 
pretese di un radicalismo estremo ... ha finito per rientrare nell’orizzonte 
delle apparenze, dei valori sicuri"
16
: il progressivo esaurirsi del potenziale 
eversivo iniziale determinò così la ricaduta in quello sterile tecnicismo 
combinatorio che, stando al giudizio espresso dal filosofo nel 1954 in un altro 
celebre saggio, Invecchiamento della nuova musica, caratterizzerà anche le 
avanguardie postweberniane. 
            La demonicità di questo rovesciamento fu colta pienamente nel 
romanzo di Thomas Mann, Doctor Faustus (1947)
17
, nel cui protagonista, 
Adrian Leverkuhn, l’autore riassunse molti tratti della personalità e della 
teoria musicale di Arnold Schönberg, offrendo una nuova chiave di lettura di 
quelle problematiche filosofiche, morali e politiche connesse al rapporto tra 
naturalità e artificialità, tra libertà e necessità, che le innovazioni del maestro 
della seconda scuola viennese avevano riproposto. L’atonalità, celebrata 
                                                 
            
16
 A. Serravezza, Filosofia, società e musica in Th. W. Adorno, Dedalo, Bari 1976, p. 
224. Pierre Boulez, esponente radicale dell’avanguardia postweberniana, sostenne che 
Schönberg, con il passaggio dall'organizzazione tonale all'organizzazione seriale, non 
fece altro che erigere "opere simili a quelle dell'universo sonoro appena abbandonato" 
(P. Boulez, Note di apprendistato, Einaudi, Torino 1968, p. 236). “I giovani delle ultime 
generazioni di musicisti non riconoscono in Schönberg un maestro, e alla rivoluzione 
dodecafonica della scuola viennese attribuiscono un valore del tutto marginale. La 
dodecafonia per essi non è altro che l’estrema propaggine di un mondo musicale che 
appartiene per intero al passato e che essi rifiutano. La dodecafonia non ha rinnegato il 
diatonismo; la serialità applicata solo all’altezza delle note è un modo di reintrodurre il 
tematismo che rievoca il mondo musicale di ieri, con la sua retorica, con il suo 
ineliminabile soggettivismo, con il suo formalismo, con le sue convenzioni più o meno 
stereotipe, e soprattutto è una riconferma della concezione della musica come discorso 
coerente, cioè come linguaggio” (E. Fubini, L'estetica musicale dal Settecento a oggi, 
Einaudi, Torino 1987, p. 358). 
 
            
13
 "Nonostante le ‘affinità’ che Mann dichiarò di aver trovato in Adorno alla 
lettura del saggio su Schönberg ancora manoscritto, è opportuno tener distinto il 
pensiero del filosofo dalla sottile e suggestiva interpretazione letteraria data dal grande 
scrittore tedesco alla crisi della musica come crisi di una civiltà e dal significato 
‘demoniaco’ attribuita all’individuazione dodecafonica" (cfr. L. Rognoni, La musicologia 
filosofica di Adorno, saggio introduttivo a Th. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, 
Einaudi, Torino 1975). 
 
 10
come una vittoria dello spirito sulla materia, realizzava di fatto la liberazione 
dalla necessità naturale “impedendo attivamente alla tonalità di 
manifestarsi”
18
, mediante accorgimenti volti intenzionalmente, come osserva 
Hans Einrich Eggebrecht, a paralizzare, tramite l’uso sistematico ed esclusivo 
di dissonanze, la tendenza spontanea dei suoni a risolversi in consonanze; 
con l’invenzione della tecnica dodecafonica, Schönberg perfezionò e 
razionalizzò questa tendenza prescrivendo che ciascuna delle dodici note 
non venisse ripetuta prima della conclusione della serie, in modo da evitare 
che, con il costituirsi di un primato gerarchico di un suono rispetto agli altri, 
si ripristinasse la funzione centripeta della tonica. La demonicità di Adrian 
Leverkuhn consisteva appunto nella tentazione demiurgica di una creatività 
assoluta: stabilita a proprio arbitrio la serie ancor prima di accingersi alla 
composizione vera e propria, il musicista aboliva la differenza tra artificiale e 
naturale
19
.  
 
Calore e gelo dominavano entrambi nella sua opera, e talvolta nei momenti 
più geniali, si compenetravano, di modo che l’’espressivo’ afferrava il rigido 
contrappunto, l’oggettivo si tingeva di sentimento, e si aveva l’impressione 
di una costruzione arroventata che, come nessun’altra cosa, mi suggeriva 
l’idea del demoniaco
20
.  
 
            Il protagonista del Doctor Faustus si esimeva così dalla sottomissione 
alla natura, ricreandola dall'interno come produzione sua, artificialmente, 
                                                 
            
18
  H. H. Eggebrecht, Musica in Occidente, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 629. 
 
            
19
 "Tentazione che si può ben qualificare come demoniaca, se si assume a 
caratteristica della demonicità, la tendenza di far apparire qualche cosa come ciò che 
non è" (R. Vlad, Demonicità e dodecafonia, Archivio di filosofia, Roma 1955, p. 88). 
 
            
20
 Th. Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkuhn narrata 
da un amico, Mondadori, Milano 1980, p. 221. 
 
 11
combinando l'intensità espressiva con la minuziosa esattezza della tecnica
21
: 
questa sintesi demoniaca di naturalità e artificialità, di libertà espressiva e 
coercizione tecnica, riproponeva in termini nuovi la dialettica adorniana, 
aprendo una nuova, feconda possibilità interpretativa di quel miracoloso 
“farsi uomo della dissonanza”
22
 che Leverkuhn realizzò attraverso un patto 
diabolico in base al quale la rigenerazione veniva offerta in cambio del 
sacrificio (a questo proposito, va ricordato che la vicenda del Doctor Faustus si 
colloca sullo sfondo storico-politico della frantumazione del sogno di 
egemonia del popolo tedesco e del suo capovolgimento nella barbarie del 
nazismo hitleriano
23
). 
            Il concetto di autenticità, connesso da Adorno alla scelta 
schönberghiana di un confronto diretto e polemico con la crisi epocale, 
nettamente contrapposta alla via inautentica, rappresentata da Igor 
Stravinskij, dell’accettazione e del rispecchiamento passivo di quella 
medesima crisi, consiste, in termini musicali, nella capacità di un’espressione 
non trasfigurata del dolore e dell’angoscia, in quella coraggiosa rinuncia alla 
loro rimozione psicologica che ha il suo corrispettivo, a livello compositivo, 
nella rinuncia alla conciliante compiutezza formale. L’angoscia veniva 
                                                 
            
21
 "Se il nuovo linguaggio formale fosse presentato semplicemente come tale, il 
fatto di essere prodotto di una assoluta posizione demiurgica umana sarebbe di una 
satanicità, per dir così, innocua. E' la presunzione di trovare, per quella strada formale, 
artificiale, la natura stessa della vita, la profondità del nostro essere, il significato 
dell'universo, ciò che rende quell'assunto esplicitamente luciferino" (V. Mathieu, Il 
demoniaco nella musica, G. Giappichelli, Torino 1976, p. 64). 
 
            
22
 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1972, p. 162. “il musicista 
dionisiaco è senza alcuna immagine, egli stesso totalmente e unicamente il dolore 
originario stesso e l’eco originaria di esso” (Ibid., p. 42). 
 
            
23
 “La storia del musicista Leverkuhn è ... emblematica per le vicende dell’anima 
tedesca, che ripiegandosi su se stessa a scrutare le proprie profondità si è illusa di 
potersi innalzare sul mondo ed è finita ‘in un’ubriacatura e convulsione di arroganza e 
criminalità’ consegnandosi alla barbarie del nazismo” (G. di Stefano, La vita come musica, 
Saggi Marsilio, p. 241). 
 
 12
tuttavia interpretata da Adorno, in chiave marxista, come una conseguenza 
dell’alienazione, cioè come mancata presa di coscienza, o tutt’al più 
presentimento sonnambolico, della fondamentale dimensione socio-
economica del vivere e dell’operare: l’esperienza atonale, pur testimoniando 
autenticamente questo malessere, rimaneva perciò confinata nella pura 
negatività di una fase dialettica destinata al superamento. Questa 
interpretazione ignora tuttavia il potenziale conoscitivo e rivelativo 
dell’angoscia, fondamentale esperienza di verità secondo una tradizione 
esistenzialista inaugurata da Kierkegaard e ripresa in particolare da 
Heidegger in Essere e tempo. Sotto questa prospettiva, anche il concetto 
adorniano di autenticità necessita di una revisione: Merleau-Ponty, in 
Fenomenologia della percezione, rapportò l’autenticità espressiva alla 
fondamentale dimensione percettiva dell’essere-nel-mondo, proponendone 
un’interpretazione del tutto conforme, come cercherò di dimostrare, alle 
intenzioni
24
 e agli esiti della musica di Schönberg.  
 
            Nella sua interpretazione dell’espressionismo musicale
25
, Luigi 
Rognoni operò un’interessante sintesi tra il sociologismo di Adorno e la 
fenomenologia husserliana.  
                                                 
            
24
 Dedicherò un’attenzione particolare a quegli scritti di Schönberg nei quali è 
possibile rintracciare espliciti riferimenti all’attività percettiva, intesa come terreno 
privilegiato della ricerca di un accesso al vero essere delle cose, secondo una concezione 
che ha un diretto riscontro nella sua produzione teatrale e il cui significato presenta, 
come cercherò di illustrare, notevoli affinità con il percorso merleau-pontyano di 
individuazione della dimensione carnale della profondità.   
 
            
25
 L’approccio fenomenologico proprio di Rognoni è stato tentato anche dallo 
studioso e compositore francese René Leibowitz, secondo il quale "solo ponendoci in 
una prospettiva fenomenologico-esistenziale saremo in grado di comprendere ciò che 
costituisce la novità peculiare della tecnica dei dodici suoni" (R. Leibowitz, Introduction à 
la musique de douze sons, L'Arche, Paris 1949, trad. it. Fubini). Leibowitz, come Rognoni, 
aveva individuato nel metodo compositivo di Schönberg un'operazione di riduzione 
fenomenologica tipicamente husserliana, di messa tra parentesi dell'universo musicale 
che consentisse una sua totale riorganizzazione intenzionale. 
 
 13
L’atonalità, liberando l’intenzionalità creativa del soggetto, in crisi a 
causa della sedimentazione dei linguaggi, conseguenza del processo di 
mercificazione messo in luce dalla dialettica marxista, spezzò il circolo 
vizioso dell’alienazione recuperando l’immediatezza dell’espressione 
autentica:  
 
La crisi della soggettività era già stata chiaramente intravvista da Marx 
attraverso la riduzione dell’individualità operante nella collettività a forza-
lavoro anonima e ‘morta’ e quindi alla degradazione dell’esistenza 
dell’operaio ‘alla condizione di esistenza di ogni altra merce’
26
. 
 
            Il fallimento dialettico descritto da Adorno appariva, alla luce della 
posizione di Rognoni, come una sorta di improbabile “movimento 
intenzionale invertito”
27
 attraverso cui la volontà creativa del musicista 
avrebbe inspiegabilmente rinunciato al controllo assoluto sulla 
composizione, accontentandosi di operare all’interno della pre-datità del 
materiale e delle sue leggi: in tutt’altra direzione si mosse invece 
l’espressionismo, realizzando quel ritorno alla soggettività auspicato dalla 
fenomenologia husserliana. Questa tesi trova una decisiva conferma nelle 
teorie del Blauer Reiter, movimento fondato da Wassily Kandinskij, insieme 
con Schönberg e il pittore Franz Marc, che si proponeva l’indagine delle 
connessioni tra suono e colore, percezione visiva e percezione auditiva, per 
far “crollare i muri divisori fra le arti” e dimostrare così che “il problema 
dell’arte non è un problema delle forme ma un problema del contenuto 
                                                 
            
26
 L. Rognoni, Fenomenologia della musica radicale, op. cit, p. 191 (con riferimento a 
E. Paci, Fenomenologia e obiettivazione, in “Giornale critico della Filosofia italiana”, fasc. II, 
1961, pp. 143 sgg. che cita Marx dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it di N.  
Bobbio, Torino, 1948, pp. 27-28). 
 
            
27
 Ibid., p. 77. 
 14
spirituale”
28
, che cioè, al di là della specificità delle singole arti, ciascuna 
trovava la propria vera ragion d’essere nella soggettività ispirata, base 
comune, pertanto, di un rinnovato dialogo tra i diversi linguaggi artistici: 
nell’ambito di queste esperienze si inscrive il dramma musicale per baritono, 
coro e orchestra La mano felice che, proprio nel tentativo di stabilire un più 
intimo e motivato nesso tra le varie componenti dell’opera, segnava il 
definitivo distacco dalla concezione wagneriana. Sulla scia di questi 
esperimenti si colloca inoltre la tecnica vocale più tipicamente 
schönberghiana, lo Sprechgesang, anch’essa interpretata da Rognoni come un 
ritorno a quella dimensione prelinguistica e preconcettuale nella quale è dato 
alla soggettività creatrice di operare liberamente: il canto parlato, rivisitando 
il rapporto vigente tra testo e musica, consentiva infatti di trascendere i limiti 
convenzionali del linguaggio verbale per attingere a quel significato 
emotivo-gestuale, immanente all’essere sonoro e articolatorio della parola, di 
cui Merleau-Ponty trattò ampiamente.  
            A Luigi Rognoni va inoltre ascritto il merito di aver riconosciuto la 
continuità e la comunanza di intenti tra le composizioni atonali 
schönberghiane e le sue successive opere dodecafoniche, al contrario di 
Adorno, il quale vide invece, come ho accennato, una rottura radicale tra le 
due esperienze compositive: 
 
Si suole ... localizzare nell’immediato dopoguerra il periodo di una nuova 
organizzazione ‘razionale’ dello spazio sonoro mediante la dodecafonia, con 
la quale la posizione espressionista verrebbe ormai abbandonata come 
un’esperienza storica conclusa ... Eppure il fondamento espressionista, sia 
                                                 
 
            
28
 G. P. Minardi, Il cavaliere azzurro e la scuola di Vienna, «Quaderni del Teatro 
Regio», XXII, Parma 1989, p. 203. 
 
 15
come dimensione morale, sia come caratterizzazione di mezzi ‘espressivi’ 
non si smentisce affatto nello Schönberg dall’op. 25 al Moses und Aron
29
. 
 
            Pur avendo rilevato la centralità della dimensione percettiva nella 
creazione artistica, Rognoni era tuttavia convinto, sulle orme di Husserl, che 
“partire dalla percezione vuol dire cominciare sempre ... dal soggetto”
30
: la 
sua interpretazione dell’espressionismo e della dodecafonia risentiva 
insomma, come cercherò dimostrare, di quelle medesime contraddizioni che 
Merleau-Ponty rilevò nel pensiero husserliano.  
            Così scriveva Claude Lefort nella sua postfazione a L’occhio e lo spirito: 
  
E’ certo che il rifiuto di seguire Husserl nell’elaborazione di un nuovo genere 
di idealismo deriva dall’analisi delle contraddizioni nelle quali un simile 
tentativo si dibatte, nessun dubbio che esso si fondi anche sull’osservazione 
dei paradossi di cui si nutrono l’espressione, l’arte e la pittura in particolare. 
Questa non si adagia  nell’illusione di un puro ritorno all’esperienza muta, di 
una messa a nudo delle peculiarità in cui si riconoscerebbe l’opera della 
coscienza trascendentale. Il lavoro del pittore persuade Merleau-Ponty 
dell’impossibilità di dividere  la visione e il visibile
31
. 
  
            Merleau-Ponty, sul cui pensiero alcuni inediti husserliani esercitarono 
una notevole influenza, mise in discussione fin dagli esordi della sua 
produzione filosofica la possibilità di una riduzione totale del mondo alla 
coscienza trascendentale
32
, individuando una dimensione esistenziale 
                                                 
              
30
 L. Rognoni, Fenomenologia della musica radicale, op. cit., p. 217. 
 
 
            
31
 M. Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 74. 
 
            
32
 “Se noi fossimo lo spirito assoluto, la riduzione non sarebbe problematica. Ma 
poiché invece noi siamo al mondo, poiché anche le nostre riflessioni prendono posto nel 
flusso temporale che cercano di captare... non vi è pensiero che abbracci tutto il nostro 
pensiero” (Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 23). 
 
 16
primaria e originaria rispetto a quei dualismi di stampo platonico di cui la 
fenomenologia di Husserl conservava ancora le tracce. 
            In una prospettiva merleau-pontyana, non è allora l’husserliano 
ritorno al soggetto il vero scopo delle ricerche di musicisti e pittori di inizio 
Novecento, bensì l’esplorazione della profondità invisibile e inudibile che 
costituisce il tessuto carnale del reale, nel problematico tentativo di un 
superamento della limitatezza e della parzialità cui ogni cosa e ogni 
soggettività sono costretti (argomento di La Scala di Giacobbe
33
, oratorio di 
ispirazione biblica, il cui testo risale al 1917 e su cui Schonberg lavorerà fino 
al 1950 senza ultimarlo): la profondità, dimensione nella quale tutti gli 
opposti si trovano reciprocamente implicati in un rapporto di chiasma, 
detiene un primato ontologico sia rispetto all’oggetto sia, soprattutto, rispetto 
al soggetto, giacché presiede, mediante la reversibilità, al costituirsi di 
entrambi. Fin da Fenomenologia della Percezione, Merleau-Ponty dimostrò 
infatti che, così com’è errato ridurre il percepito a pura passività, cioé a 
correlato dell'attività percettiva di un soggetto, altrettanto errato è ridurre il 
soggetto a puro recettore, vuota apertura all’esistenza oggettiva del mondo. 
La cosa percepita, lungi dal possedere la determinatezza di un oggetto, si 
configura piuttosto come una concrezione provvisoria e mutevole, un nodo 
dell’ampia trama del sensibile che vive esclusivamente delle connessioni con 
ciò che la circonda: questa complessa interrelazionalità definisce il livello 
esistenziale pragmatico, la cui esclusione dall'impalcatura ideale platonica 
produsse l’inestricabile paradosso del Cratilo, di cui mi occuperò nel capitolo 
                                                 
            
33
 Così Alan Philip Lessem sintetizza il contenuto di quest’opera: "visione di una 
lotta spirituale che coinvolge l'intera specie umana nel suo passaggio attraverso il ciclo: 
agonia, morte e rinascita. Gli individui, colti in varie fasi del loro sviluppo etico e 
personale, descrivono e difendono le loro ambizioni, le tribolazioni e i successi, e, 
ciascuno è preparato dall'arcangelo Gabriele, consigliere e giudice, ad affrontare la 
morte e la reincarnazione" (A. P. Lessem, Schönberg espressionista. Il dramma, il gioco, la 
profezia, Marsilio, Venezia 1988, p. 228).