1. Introduzione
L’esigenza di procedere ad una profonda revisione della Legge Fallimentare era già sentita 
da anni, in quanto essa non era ritenuta più rispondente alle mutate situazioni socio-
economiche del Paese, in quanto dalla sua emanazione avvenuta con Regio Decreto n. 267 del 
16 marzo 1942, non erano state introdotte rilevanti modifiche.
Un primo intervento normativo di rilievo si è avuto con il d.l. 30 gennaio 1979, n. 26 
convertito in Legge 3 aprile 1979, n. 95, la cosiddetta legge Prodi, che ha introdotto l’istituto 
dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi che, al fine di salvaguardare 
valori di interesse sociale, ha di fatto sottratto tali imprese al fallimento. L’istituto è stato 
radicalmente riformato dal d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, la cosiddetta Prodi bis, che pur 
mantenendo le impostazioni di salvaguardia dell’occupazione e della conservazione del 
patrimonio produttivo, per l’ammissione all’istituto ha introdotto, oltre ai requisiti 
dimensionali, anche una valutazione circa l’effettiva possibilità di recupero dell’equilibrio 
economico aziendale. Il sistema procedurale introdotto con le richiamate leggi non è stato 
ritenuto idoneo ad affrontare la crisi di del gruppo Parmalat, pertanto con la legge 18 febbraio 
2004, n. 39 che ha convertito con modifiche il d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, il c.d. decreto 
Marzano, è stata prevista una procedura accelerata per gestire lo stato di insolvenza di 
imprese di dimensioni ancora più grandi. Il citato decreto Marzano è stato modificato nel 
2008 dal d.l. 28 agosto 2008, n. 134 convertito in legge 27 ottobre 2008, n. 166 per consentire 
l’applicazione della procedura d’urgenza anche al gruppo Alitalia. 
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Per quanto concerne la procedura concorsuale, il cammino della riforma della legge 
fallimentare è iniziato con il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge 14 maggio 2005, n. 
80, noto come Decreto competitività che, oltre a riformare direttamente alcuni aspetti, 
conteneva la delega al Governo a procedere ad una riforma organica della materia. Il decreto 
legislativo approvato il 9 gennaio 2006, n. 5, ha novellato, riscrivendola, quasi del tutto la 
legge fallimentare del 1942. Il decreto di riforma, entrato in vigore il 16 luglio 2006, è stato 
parzialmente modificato con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, il c.d. decreto correttivo, che 
ha apportato aggiustamenti alla riforma nella sua prima fase di attuazione.
La riforma, giunta a compimento il 1° gennaio 2008, con l’entrata in vigore delle norme 
contenute nel richiamato d.lgs. 169/07, ha sostanzialmente modificato il fine ultimo delle 
procedure concorsuali, dapprima caratterizzate da una connotazione prettamente liquidatoria 
dei beni aziendali al fine di assicurare il maggior soddisfacimento possibile dei creditori e 
afflittiva nei riguardi del fallito, reo di non essere stato in grado di gestire in modo adeguato il 
patrimonio aziendale e personale, per assumere dei lineamenti più aderenti al mutato assetto 
socio economico, per cui in caso di insolvenza aziendale, sia, per quanto possibile, preservata 
l’integrità della struttura aziendale, in modo da salvaguardare sia gli interessi dei creditori che 
quelli più generali della collettività.
Dalla novellazione operata dal decreto legislativo del 2006 è rimasta immune la parte 
riguardante i reati fallimentari che, se fino al 2005 mostrava i segni del tempo, adesso risulta 
non più coerente con l’impianto “civilistico” del diritto fallimentare uscito dalla riforma.
Al fine di colmare tali lacune il Governo in data 2 ottobre 2008, ha presentato alla Camera 
un disegno di Legge dal titolo “Delega al Governo per il riordino della legislazione in materia 
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di gestione delle crisi aziendali” in cui è contenuta anche la delega per la riforma dei reati 
fallimentari. 
Il presente progetto di ricerca si propone di fornire un visione d’insieme delle norme penali 
fallimentari attualmente in vigore, con le prospettive di modifica proposte dal Governo con il 
citato disegno di Legge, evidenziandone gli aspetti di criticità emersi nel corso dei lavori delle 
Commissioni riunite della Camera dei Deputati, II Giustizia e X Attività produttive, nel corso 
dei quali sono state effettuato numerose audizioni delle associazioni di categoria, di esperti di 
settore e delle parti sociali.
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2. I reati fallimentari - lineamenti.
La Legge Fallimentare, approvata con R.D. 16 marzo 1942, n. 267, risulta caratterizzata da 
connotati di estrema specialità, che emergono in maniera palese dalla specifica disciplina 
sanzionatoria, che ne è parte integrante. Come affermato dalla dottrina essa, contenendo al 
suo interno sia disposizioni penali che disposizioni di procedura penale, rappresenta un 
“corpus iuris” autonomo ed autosufficiente.
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Lo scopo della normativa fallimentare, così come concepita dal legislatore del 1942, va 
individuato nel sanzionare quei comportamenti dell’imprenditore fallito, che abbiano 
danneggiato tutti coloro con i quali ha avuto dei rapporti commerciali, ossia il ceto creditorio. 
Quest’ultimo, viene tutelato in modo pieno da parte del legislatore che, oltre a prevedere un 
procedura esecutiva, finalizzata alla ricostruzione del passivo e dell’attivo fallimentare per la 
distribuzione tra i creditori, ha delineato un sistema sanzionatorio per le condotte illecite.
Nel sistema della legge penale fallimentare, è possibile intravedere, nelle sue linee 
fondamentali, il modello francese del” Code de Commerce” dell’epoca napoleonica (1807), 
che ruota sulla figura centrale della bancarotta, nelle sue due forme di bancarotta fraudolenta 
e di bancarotta semplice, che può essere propria, quando si applica all’imprenditore 
individuale e, impropria, quando si applica agli amministratori e agli altri organi delle società.
Un altro elemento caratterizzante della disciplina penale fallimentare è sicuramente il suo 
rigore sanzionatorio, che ad esempio, per la bancarotta fraudolenta è prevista la pena della 
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 Piero Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, 1998
reclusione da tre a dieci anni, che può arrivare addirittura, nei casi in cui vengano applicate le 
aggravanti previste dall’art. 219 l.f., fino a quindici anni.
I reati fallimentari sono contenuti nel Titolo VI della Legge Fallimentare, dove al Capo I 
troviamo i reati commessi dal fallito, mentre nel Capo II sono contemplate le fattispecie di 
reato attribuibili a persone diverse dal fallito. 
Tali reati sono costituiti in gran parte da figure di reato proprie, ossia applicabili 
all’imprenditore fallito ed agli altri soggetti presenti nella procedura concorsuale, quali ad 
esempio il curatore ed i creditori, per fatti compiuti nel periodo antecedente o durante la 
procedura concorsuale.
Proprio l’esistenza di una procedura concorsuale, che trae origine dalla declaratoria 
fallimentare da parte del Tribunale, rappresenta la “conditio iuris” dei reati in argomento ed in 
particolare di quello di bancarotta, come sostenuto dalla Corte di Cassazione che ha 
individuato nella sentenza di fallimento un elemento costitutivo dei reati pre-fallimentari, 
concetto affermato e ribadito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 145 del 27 luglio 
1982.
La sentenza di fallimento, oltre ad essere, come abbiamo visto, elemento costitutivo dei 
reati concorsuali, rappresenta anche condizione pregiudiziale di procedibilità. Infatti l’art. 238 
L.F., prevede che, salvo le circostanze previste dall’art. 7 L.F. (fuga, irreperibilità o latitanza 
dell’imprenditore) e sempre che sia stata presentata o contemporaneamente venga presentata 
istanza di fallimento, l’azione penale è esercitata dopo la comunicazione della sentenza di 
fallimento.
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Dalla norma contenuta nell’art. 238 L.F. si evince anche che il risultato dell’accertamento 
del giudice in ambito civile, circa lo stato di insolvenza, la qualifica di imprenditore 
commerciale e la sua assoggettabilità alle disposizioni sul fallimento e sul concordato 
preventivo (mancato possesso dei requisiti di non fallibilità previsti dal secondo comma 
dell’art. 1 L.F.), ha carattere vincolante per l’esercizio dell’azione penale. Condizione che 
rappresenta uno dei pochi casi di pregiudiziale delle decisioni assunte in sede civile, 
vincolante per il giudice penale.
Appare opportuno evidenziare che sul ruolo della sentenza di fallimento nella struttura del 
reato non vi è accordo tra la giurisprudenza che, come abbiamo già visto, la considera quale 
elemento costitutivo del reato, mentre la dottrina sostiene si tratti di una condizione obiettiva 
di punibilità.  
Dal diverso ruolo attribuito alla sentenza di fallimento discendono notevoli conseguenza in 
merito alla sussistenza del nesso causale e del nesso psicologico tra le condotte poste in essere 
e il verificarsi del fallimento.
Abbiamo detto che la legge fallimentare possiede dei connotati di assoluta specialità, che 
in modo particolare possiamo rinvenire nella parte penale, infatti, condotte normalmente 
lecite come il pagamento di un debito, dopo la sentenza di fallimento possono essere 
considerate reato, integrando la fattispecie come quella della bancarotta preferenziale, ed 
essere punite anche pesantemente.
A questo punto occorre soffermarsi sulla cosiddetta “zona di rischio penale”, che 
rappresenta l’ambito temporale in cui talune condotte poste in essere dall’imprenditore 
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diventano, in virtù della dichiarazione di fallimento, penalmente rilevanti e, come già detto, 
pesantemente sanzionate.
Due sono le strade per giungere ad una ragionevole delimitazione della “zona di rischio 
penale”, la prima che passa attraverso la valorizzazione dell’elemento psicologico, vale a dire 
nel dolo specifico finalizzato a recare pregiudizio ai creditori, mentre la seconda insiste sulla 
natura obiettiva dei fatti, che assumono rilevanza penale solo qualora sia stati posti in essere 
in presenza del dissesto o che lo abbiano determinato.
Relativamente ai soggetti ai quali possono essere attribuite le responsabilità penali 
derivanti dalle condotte incriminate, occorre chiarire che sia la giurisprudenza che la dottrina 
sul punto si sono trovate d’accordo nel ritenere che tali soggetti non debbano essere 
identificati in base alle loro qualifiche formali di imprenditore, amministratore, direttore 
generale ecc, bensì sulla base delle funzioni svolte che ineriscono tali qualifiche e al loro 
concreto ed effettivo esercizio. 
Ci troviamo di fronte al problema del cosiddetto amministratore di fatto, figura che sovente 
è presente nelle imprese in dissesto, che è bene precisarlo, può essere identificato come tale 
colui che, in mancanza della relativa qualifica giuridica, eserciti concretamente e con 
continuità le funzioni proprie dell’amministratore dell’azienda, che si sostanziano nelle 
funzioni di controllo, sia contabile che amministrativo, e nella gestione dell’azienda, che si 
estrinseca attraverso l’emanazioni di direttive sull’organizzazione interna, alla messa a punto 
dei programmi e delle scelte di politica commerciale.
Ovviamente la presenza di un amministratore di fatto non esclude la responsabilità per gli 
amministratore di diritto, salvo il caso in cui la gestione dell’amministratore di fatto sia 
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talmente completa da estrometterlo del tutto dalle sue funzione, riducendolo a mera “testa di 
legno”. In questo caso l’amministratore di fatto risponderà dei reati fallimentari direttamente e 
non quale “extraneus” in concorso con l’amministratore di diritto e con gli altri organi 
ufficiali di gestione.   
Un ultimo accenno merita la figura del curatore fallimentare ed in particolare sulla 
relazione ex art. 33 L.F., con cui deve riferire al giudice delegato sulle cause e circostanze del 
fallimento, delle responsabilità del fallito o di altre persone, e “su quanto può interessare 
anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale.”
La previsione del citato art. 33 L.F. lascia intravedere ancora la vecchia visione penalistica 
del fallimento, evidente nel comma 4 dell’art. 16 L.F., abrogato dal decreto legislativo di 
riforma del 2006, che prevedeva la possibilità per il Tribunale Fallimentare di includere nella 
sentenza di fallimento l’ordine di “cattura del fallito o degli altri responsabili a carico dei 
quali sussistano le circostanze indicate dall'art. 7 o altri indizi di colpevolezza per i reati 
previsti” dalla legge fallimentare.
Per quanto concerne il valore probatorio della relazione del curatore fallimentare 
nell’ambito del processo penale, la Corte di Cassazione ne ha riconosciuto la natura di 
documento che, quindi, a norma dell’art. 234 del c.p.p. può essere acquisito al dibattimento ed 
utilizzato come prova, nonostante essa nasca al di fuori del processo penale essendo 
indirizzata al giudice delegato del fallimento o non al pubblico ministero.
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