L’integrazione economica è alla base per una convergenza delle economie 
meno sviluppate alle più ricche e si può realizzare solo in presenza di una 
liberalizzazione degli scambi e di istituzioni in grado di supportarla. 
La prima globalizzazione, oggetto del primo capitolo, si è sviluppata tra il 1870 
ed il 1914, sulle direttrici della seconda rivoluzione industriale. In questo periodo, 
l’avvento e la diffusione di nuove tecnologie, quali le macchina a vapore, il 
telegrafo e la refrigerazione, agevolarono notevolmente i flussi tra il Vecchio 
Continente e il Nuovo Mondo.  
Dopo la fase di deglobalizzazione del “trentennio di guerra”, risorse nuovamente 
una forte spinta ai flussi internazionali, guidata ancora una volta dalla discesa 
dei costi di trasporto e di comunicazione. Tra il 1950 ed il 1980 l’economia Nord 
americana, europea e giapponese conversero velocemente. Da questa seconda 
globalizzazione, proposta nel secondo capitolo, rimasero fuori molti paesi, in 
particolare quelli in via di sviluppo, che assunsero un trend divergente rispetto a 
quelli economicamente avanzati. 
Dagli anni ’80, lo sviluppo umano è stato investito dalla terza rivoluzione 
industriale: è nata l’era dell’elettronica.  
Il motore trainante della nuova ondata di integrazione economica non è 
consistito tanto nell’abbattimento dei costi di trasporto e di trasmissione delle 
informazioni, che pure sono scesi notevolmente nell’ultimo ventennio, bensì 
nella drastica riduzione dei costi dell’elaborazione delle informazioni, generata 
dall’uso pervasivo dei computer e dalla nascita di internet. L’elaborazione di 
diverse statistiche relative alla terza globalizzazione, discussa nel terzo capitolo, 
è stata volta a far luce se attualmente i paesi in via di sviluppo, che inglobano 
più della metà della popolazione mondiale, abbiano intrapreso o meno un 
sentiero di convergenza relativa e/o assoluta agli standard di vita dei paesi 
ricchi. 
Parallelamente all’indagine sulle dinamiche empiriche delle diverse 
globalizzazioni, nelle appendici ai primi tre capitoli sono stati analizzati i modelli 
di riferimento nel commercio internazionale che si sono susseguiti, 
simmetricamente agli sviluppi dell’integrazione economica internazionale. Si è 
partiti da Adam Smith fino ad arrivare alle moderne teorie del commercio 
internazionale, passando attraverso il modello neoclassico di Hecksher e Ohlin, 
 2
delle economie di scala di Krugman, del ciclo del prodotto di Vernon ed altri 
ancora. 
Nel quarto capitolo, dall’impostazione aggregata e storico-economica dei primi 
tre capitoli, si è passati ad esaminare più nel dettaglio le diverse aree 
geoeconomiche protagoniste della terza globalizzazione, ponendo in risalto i 
differenti vantaggi comparati, gli stili economici e le crisi che hanno attraversato 
e che attraversano i differenti paesi in connessione alla liberalizzazione dei 
mercati.  
Nel quarto capitolo, inoltre, vengono proposti degli studi econometrici che 
rilevano quali possano essere i futuri scenari globali, alla luce dei consistenti 
squilibri economici, finanziari e  valutari che si sono delineati nell’ultimo 
decennio. 
Nel quinto capitolo, l’indagine sull’attuale globalizzazione, iniziata in ambito 
storico-economico, proseguita in campo macro e geoeconomico, incrementa il 
grado della lente di ingrandimento, passando ad un ambiente microeconomico 
ed aziendalistico, andando a rilevare le diverse strategie e comportamenti posti 
in essere dalle aziende del globo di fronte alle medesime pressioni competitive.  
Questo studio, ispirato dall’indagine svolta tra il 2000 ed 2005 dal MIT, su 500 
grandi aziende del globo, si è mosso sulla direttrice dei settori fast e slow tech, 
una suddivisione più cogente all’indagine in specie, rispetto alla tradizionale 
ripartizione in high e low tech.  
 
 3
1 LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE 
 
1. Aspetti generali 
 
La globalizzazione
1
 o mondializzazione
2
 che dir si voglia, è un fenomeno 
multidimensionale.  
In senso lato rappresenta la crescita di scambi e relazioni di diverso tipo su 
scala mondiale, includendo cambiamenti di carattere sociale, culturale, 
tecnologico, politico ed economico.  
In senso stretto la globalizzazione è inerente prevalentemente agli aspetti di 
integrazione economica. 
Sotto quest’ultima accezione la globalizzazione è un fenomeno attraverso il 
quale l’economia internazionale e le economie nazionali tendono ad integrarsi 
sempre più, arrivando alla creazione di un mercato unico mondiale. 
Questa macro-integrazione è riducibile all’integrazione di tre mercati, quello dei 
beni e servizi , della manodopera e dei capitali. 
Una forte apertura dei confini nazionali consente ai prezzi dei beni e servizi, 
della manodopera e del capitale dei paesi più poveri di mettere sotto pressione 
prezzi, salari e tassi d’interesse dei paesi più ricchi, spingendoli a convergere 
con quelli dei paesi meno sviluppati. “Al pari di un sistema idrico di vasi 
comunicanti, i prezzi dei fattori produttivi e i rendimenti tenderanno ad 
equalizzarsi”
3
. 
La realizzazione di un mercato unico mondiale comporterebbe l’identità dei 
prezzi dei prodotti, dei salari per lo stesso tipo di lavoro, e dei tassi d’interesse in 
funzione dei diversi livelli di rischio, in tutti i paesi. Certamente l’economia 
                                                 
1
 “Globalizzazione” è un termine che fu coniato nell’aprile del 1959 in un articolo dell’Economist in 
riferimento ai contingentamenti delle importazioni automobilistiche (Globalized quota). Comparve quindi 
nel Webster’s New International Dictionary nel 1961. Dagli anni 60 è divenuto di uso comune nel mondo 
anglosassone.  
2
 Vi è stato un lungo dibattito sulla differenza tra globalizzazione e mondializzazione. Molti esperti 
sostenevano che la prima fosse la faccia economica, mentre la seconda la faccia omnicomprensiva degli 
aspetti inerenti a trasformazioni economiche, politiche e sociali  della stessa medaglia dell’integrazione 
internazionale. Successivamente si concluse che che la differenza tra i due termini risiede solo nella 
lingua: in francese si usa il termine mondializzazione, mentre in inglese  si usa globalizzazione. Nello 
scritto, ambo i termini sono considerati sinonimi e viene enunciata la loro multidimensionalità ed 
interdisciplinarietà se considerati in senso lato. Alla luce sia dell’origine economica, che del frequente 
riferimento a temi economici di ambo i termini,  in senso stretto e nel seguente scritto, sono da considerasi 
in esclusivo riferimento all’economia. 
3
Gozzini G., Le migrazioni di ieri e di oggi – una storia comparata, Milano, Bruno Mondadori, 2005, 
pag.105. 
 4
globale è ancora lontana da questi traguardi, né è possibile dire se questi 
saranno mai raggiunti
4
.  
Una maggiore concretezza impone di considerare la globalizzazione come 
un’accelerazione dei processi in atto nelle economie nazionali e nell’economia 
internazionale per l’unificazione dei mercati planetari
5
. 
 
2. Cenni storici 
 
L’attuale aumento dell’integrazione economica a livello mondiale vede due 
precedenti globalizzazioni
6
.  
La prima  globalizzazione è compresa nel periodo tra il 1870 e il 1914. 
Questa fu una fase in cui i paesi dell’Area Atlantica sperimentarono un 
incremento della mobilità del capitale, di interscambio commerciale e di flussi 
migratori che sotto taluni aspetti fu più elevato di quello odierno.  
La seconda globalizzazione è collocabile tra 1945 ed il 1980. Essa parte 
dalla fine della seconda guerra mondiale e passando attraverso i mainframe
7
 
degli anni ’70 termina con l’avvento della progettazione microcomputerizzata
 
 e 
al personal computer negli anni ‘80
8
.  
 
 
                                                 
4
 Un attento esame del rapporto tra globalizzazione e internazionalizzazione è consultabile su Hirst P.e 
G.Thompson, Globalization in Question, 2° ed., Polity Press, Cambridge, 1999 e in M.Wolf, Why 
Globalization Works, Yale University Press, New Haven 2004. 
5
 Berger S., Mondializzazione:come fanno per competere?, Milano, Garzanti, 2005,pag. 21. 
6
 Nella storia umana possono ravvisarsi, nell’accezione ampia del termine, diverse globalizzazioni. Basti 
pensare all’integrazione culturale tra nazioni differenti. Questa si verificò sotto il grande impero di 
Alessandro Magno nel quarto secolo a.C., sotto l’Impero Romano, ormai consolidato, che arbitrariamente 
è collocato tra il primo sec. a.C. e il quarto sec. d.C., sotto l’Impero Arabo tra il settimo e il dodicesimo se. 
d.C, o durante l’Impero Mongolo nel tredicesimo secolo, o ancora quando l’Impero Portoghese e 
Spagnolo raggiunsero tutti gli angoli del mondo. Ma la globalizzazione divenne un fenomeno 
prevalentemente economico nel diciassettesimo secolo, quando venne creata la prima multinazionale in 
Olanda, la Vereenigde Oostindische Compagnie o VOC – conosciuta anche come United East Indian 
Company. Tuttavia, la letteratura definisce “La prima era della globalizzazione” il fenomeno di rapida 
crescita nei commerci, investimenti e flussi migratori avutosi nel processo di liberalizzazione del 
diciannovesimo secolo tra le potenze imperiali europee e le colonie. 
7
 Il mainframe, macchina risalente agli albori dell’informatica, era un grande assemblato contenente il 
processore centrale e il complesso dei dispositivi di ingresso/uscita. Questo strumento veniva 
prevalentemente utilizzati nelle grandi aziende. 
8
 Nel corso degli anni ’80 le aziende trovarono sempre più efficaci i server basati sulla progettazione 
microcomputerizzata, che costavano molto meno dei mainframe e offrivano agli utenti maggior controllo 
sui sistemi. Così i terminali usati per dialogare con i mainframe vennero via via sostituiti dai PC, 
abbreviazione di Personal Computer così chiamato proprio per sottolineare l’uso dell'apparecchio da parte 
del singolo utente in contrapposizione ai mainframe. Il primo Pc venne annunciato dalla IBM il 12 agosto 
1981 ed il mese successivo iniziarono le consegne. Il successo fu così strepitoso e i materiali usati erano 
così facilmente reperibili sul mercato, che subito dopo pochi mesi dal lancio spuntarono innumerevoli 
cloni del PC IBM, i noti PC IBM compatibile. 
 5
3.  Cause ed  effetti macroeconomici della prima globalizzazione (1870-1914) 
 
La “prima globalizzazione” trova le sue radici nelle innovazioni tecnologiche 
della prima (1700-1760) e della seconda rivoluzione industriale (1800-1860).  
Le rivoluzioni industriali decollarono nei paesi che sperimentarono una 
crescita della produttività agricola. Altro fattore rilevante fu la presenza istituzioni 
in grado di sfruttare questa disponibilità di manodopera, non più indispensabile 
per il lavoro nei campi a seguito dei nuovi processi, che scaturivano dal rapido 
passaggio da invenzioni a innovazioni e queste ultime, in nuove tecnologie 
aventi carattere rivoluzionario nelle applicazioni industriali
9
.  
Nella prima rivoluzione industriale furono introdotte le macchine a vapore per 
usi fissi, con un conseguente aumento della produttività nell’estrazione 
mineraria
10
, nella macinazione del grano e nella filatura del cotone
11
. In questo 
periodo nacque la fabbrica moderna. 
Nella seconda rivoluzione industriale furono utilizzate le macchine a vapore 
nei trasporti rendendo questi, insieme alle comunicazioni, più rapidi  e meno 
costosi. 
 
3.1.1. I flussi nel mercato dei beni e servizi 
 
Le navi a vapore diedero un enorme contributo alle tecniche di navigazione 
del diciannovesimo secolo. Sostanzialmente erano gli aeroplani di oggi e 
trasportavano passeggeri, posta e beni ad elevato valore
12
 con grande rapidità e 
maggiori volumi rispetto ai velieri.  
Vi furono grandi migliorie fluviali e portuali, inoltre, la realizzazione del canale di 
Suez nel 1869 conferì maggiori opportunità di commerciare e competere con 
l’Asia. 
                                                 
9
 I cambiamenti tecnologici si dividono in tre tipi in funzione della fase che stanno attraversando. Le 
invenzioni sono novità brevettabili, che non hanno ancora alcun  significato economico, divengono 
innovazioni se sono inserite in un processo economico ed infine si parla di diffusione delle nuove 
tecnologie nel caso in cui un’innovazione si propaghi nell’industria. 
10
 Nel 1712 viene introdotta nelle miniere la pompa a vapore atmosferico di Newcomen. 
11
 Nel 1760 Watt, con la creazione di un condensatore separato, diminuisce le perdite di vapore delle 
macchine a vapore e contribuisce all’aumento di produttività dell’industria agricola e tessile. Lo sviluppo 
di quest’ultimo settore aveva già raggiunto ritmi elevati: nel 1733 John Kay inventò la navetta volante, che 
permetteva a un tessitore di svolgere il lavoro di due; nel 1764  la “giannetta filatrice” di Hargreaves, non 
richiedeva energia meccanica, ma permetteva a una persona di svolgere il lavoro di molti; nel 1769 
Arkwright introdusse il filatoio idraulico, nel 1793 Whitney inventò la sgranatrice automatica. 
12
 Cameron R., A Concise Economic History of the World from Paleolithic Imes to the Present, New 
York, Oxford University Press, 1989. 
 6
Un notevole contributo alla mobilità delle merci venne dato anche 
dall’incessante sviluppo delle ferrovie. Dopo il 1830, anno in cui aprì al pubblico 
linea ferroviaria Liverpool-Manchester, vi fu una diffusione delle linee ferroviarie 
in Belgio, Francia e Germania. Negli U.S.A., le ferrovie furono il presupposto per 
la creazione di un mercato nazionale e favorirono la nascita di società pan-
statunitensi.  
Tra il 1834 ed il 1861 venne sviluppata un’altra innovazione molto importante 
per i commerci: la refrigerazione. Questa permise l’accesso ai mercati mondiali 
di carne e prodotti caseari locali, che precedentemente erano stati tagliati fuori 
dalle grandi tratte commerciali a causa della loro deperibilità. 
Gli effetti positivi delle innovazioni tecnologiche sul commercio furono esaltati 
dal progressivo passaggio, dopo le severe restrizioni del periodo napoleonico, 
dal mercantilismo
13
 al libero scambio. Solo successivamente, a partire dal 1890 
in poi, iniziarono ad inasprirsi i dazi a causa dei contraccolpi interni dovuti alla 
concorrenza internazionale. 
Pertanto, la “prima globalizzazione” trovò le proprie radici nelle innovazioni 
tecnologiche e i minori costi di trasporto, i veri artefici dell’impennata degli 
scambi commerciali. Inoltre, gli effetti positivi dei progressi tecnico-scientifici 
furono amplificati per più di un ventennio dalle politiche liberoscambiste che, 
tuttavia, scemarono progressivamente col trascorrere degli anni, a causa delle 
pressioni interne alle nazioni da parte dei settori più colpiti dalla concorrenza, 
                                                 
13
 Il mercantilismo fu la politica economica più diffusa in Europa tra il sedicesimo e diciottesimo secolo. 
Essa partiva dall’assunto che il potere economico di una nazione aumentava di pari passo all’aumento 
delle esportazioni e al contenimento delle importazioni. Nella prima metà del diciannovesimo secolo 
questa politica economica, di fatto, continuò a perdurare sotto il nome di protezionismo. Ad essa si 
contrapponeva il liberalismo, teoria economica impostata sui binari della libera iniziativa e del libero 
commercio, che enfatizzava l’abolizione dei dazi.  
La disputa intellettuale tra le due forme di politica economica è stata vinta dal liberalismo, che tutt’oggi 
risulta essere il sentiero su cui sta avanzando l’economia contemporanea. Tuttavia, diversi economisti 
sottolineano che a fronte di dichiarazioni ufficiali di stampo liberista, diversi paesi, in particolare quelli 
economicamente più avanzati, talvolta pongono in essere comportamenti che in concreto sono di tipo 
mercantilista. Viene spesso portato l’esempio degli elevati sussidi e tariffe protettive per l’agricoltura nel 
mondo sviluppato, che si traducono in prezzi più elevati per i consumatori dei paesi sviluppati. Inoltre ciò 
comporta una diminuzione della competizione ed efficienza nei mercati anche a scapito dei paesi in via di 
sviluppo, che spesso sono specializzati nel settore agricolo ed in esso contano la maggioranza dei prodotti 
esportabili. Altro esempio è costituito dalla Cina, il cui Pil è completamente sbilanciato sul fronte delle 
esportazioni e la mancanza di uno sviluppo della domanda interna contiene le importazioni, limitandole 
prevalentemente a semilavorati utili per la produzione destinata all’esportazione.  
Gli intellettuali, politici e pensatori più noti assertori del mercantilismo furono: Giovanni Botero (1533-
1617), Bernanardo Davanzati (1529-1606) tra gli italiani; Jean Bodin (1530-1596), Jean-Baptiste Colbert 
(1619-1683) tra i francesi, Thomas Mun (1571-1641), William Petty (1737-1805) tra i britannici, l’anglo-
francese John Law (1671-1729). 
 7
che reclamavano, e pian piano ottennero, l’innalzamento di barriere 
protezionistiche.  
I commerci ebbero dunque una vera esplosione, la quota media delle 
esportazioni in rapporto al Pil aumentò dal 5,9% del 1870 all’8,2% del 1913
14
. 
(Vds. Fig.1) 
 
Fig.1. Quote di commercio, 1870-1913 (esportazioni di merci in rapporto al Pil a prezzi del 1985). 
 
 1870 1913
Australia 6,3% 10,9% 
Austria 9,0% 13,9%
Belgio 7,0% 17,5%
Canada 12,8% 12,9% 
Danimarca 6,6% 10,1%
Finlandia 10,5% 17,0%
Francia 3,4% 6,0% 
Germania 7,4% 12,2%
Italia 3,3% 3,6%
Giappone 0,2% 2,1% 
Olanda 14,6% 14,5%
Norvegia 9,3% 14,6%
Svezia 8,0% 12,0% 
Svizzera 10,4% 22,3%
Regno Unito 10,3% 14,7% 
U.S.A. 2,8% 4,1%
Media ponderata in funzione del 
Pil di ciascun paese 
5,9% 8,2%
 
Fonte: Maddison A., Dynamic Forces in Capitalists Development: A Long-Run Comparative View, 
Oxford, Oxford University Press, 1991 in O’Rourke K. e Williamson J.G., Globalizzazione e Storia-
l’Evoluzione dell’Economia Atlantica nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005 pag. 48. 
 
In questo periodo il ritmo d’incremento dei movimenti internazionali di merci si 
attestò mediamente al 3%
15
. (Vds Fig. 2
16
)  
Il grado di apertura dei paesi europei passò mediamente dal 25% al 40%
17
. 
                                                 
14
 La globalizzazione dei mercati è rappresentata da una diminuzione di fattori che creano distorsioni nello 
scambio, oltre che da valori reali o assoluti in riferimento ai flussi crescenti di capitali, manodopera, beni e 
servizi, che possono essere l’effetto di componenti estranee all’integrazione. Nel commercio di beni e 
servizi il volume preso singolarmente può essere un indice insoddisfacente, addirittura fuorviante in alcuni 
casi, per misurare la globalizzazione. L’accento è da porsi anche sul costo di movimentazione delle merci, 
scomponibile in costi di trasporto e dazi, che costituiscono il cuneo che fa divergere i prezzi nei differenti 
paesi. Una trattazione molto lineare, che spiega la globalizzazione dell’Ottocento e si concentra sul divario 
tra i prezzi di coppie di mercati è quella di O’Rourke K. e Williamson J.G., Globalizzazione e Storia-
l’Evoluzione dell’Economia Atlantica nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005 pag. 47 e segg. 
15
  Per i dati di raffronto cfr. Maddison A., The World Economy, OECD Online Bookshop, 2003 
16
 Per i dati di raffronto cfr. Maddison A., Dynamic Forces in Capitalists Development: A Long-Run 
Comparative View, Oxford, Oxford University Press, 1991. 
17
 Il grado di apertura è l’indicatore con cui in genere si misura la globalizzazione, esso è dato dalla 
somma delle importazioni ed esportazioni fratto il Pil. Bairoch P., Economics and World History, 
Harvester-Wheatsheaf, London, 1993. In Baldwin R.E. e Martin P., Two Waves of Globalization: 
Superficial Similarities, Fundamental Differences, 1999, vengono riportati i dati di Kuznets sull’apertura 
delle diverse economie europee nel 1870. In Norvegia esso era pari al 56%, in Danimarca al 52%, nel 
 8
Fig.2. Tassi medi annui di crescita delle esportazioni per blocchi continentali. 
 
 1870-1913 
Europa Occidentale 3,24% 
Europa Orientale 4,71% 
Paesi del Nuovo Mondo colonizzati dall’Occidente 
(U.S.A., Canada, Australia, Nuova Zelanda) 
3,37% 
Asia 3,29%
America Latina 2,79% 
Africa 4,37%
Mondo 3,40%
 
Fonte: Maddison A., The World Economy. A Millenial Perspective, OECD, Paris, 2001, pag.127-128 in 
Gozzini G., Le migrazioni di ieri e di oggi – una storia comparata, Milano, Bruno Mondadori, 2005, 
pag.151. 
 
3.1.2. I flussi nel mercato dei capitali 
 
Anche i mercati mondiali dei capitali, al cui centro c’era la “city” di Londra, 
vissero una forte ascesa. I principali paesi esportatori di capitali erano il Regno 
Unito, la Francia e la Germania (Vds. Fig.3
18
).  
 
Fig.3. Investimenti esteri in rapporto al risparmio nazionale (I numeri tra parentesi sono relativi a valori 
correnti  contrariamente agli altri corretti in funzione della parità aurea). 
 Regno Unito Germania Francia 
1850-1854 (12,3%) - (20,1%)
1855-1859 (30,2%) - 21,6% 
1860-1864 (21,5%) (1,4%) 24,8%
1865-1869 (32,2%) (3,4%) 25,9% 
1870-1874 38,0% (7,4%) 29,0%
1875-1879 16,2% (13,1%) 18,7% 
1880-1884 33,2% 18,3% -1,1%
1885-1889 46,5% 19,3% 11,3% 
1890-1894 35,3% 12,6% 10,0%
1895-1899 20,7% 11,5% 23,0% 
1900-1904 11,2% 9,0% 16,1%
1905-1909 42,7% 7,6% 22,0% 
1910-1914 53,3% 7,3% 15,5%
 
Fonte: Jones M.T. e Obstfeld M., Saving, Investiment, and Gold: A Reassessment of Historical Current 
Account Data, National Bureau of Economic Research, Working Paper n. 6103, Cambridge, MA, luglio 
1997 in O’Rourke K. e Williamson J.G., Globalizzazione e Storia - L’Evoluzione dell’Economia Atlantica 
nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005, pag.288. 
 
I due terzi degli investimenti andavano oltreoceano, verso il Nuovo Mondo,  
precisamente per il 67% negli Stati Uniti, in America Latina e nell’Impero del 
Nuovo Mondo; l’8% verso l’Europa Orientale(Vds. Fig.4). 
                                                                                                                                                                  
Regno Unito al 41%, in Francia al 33%, in Italia al 21%. Nel Nuovo Mondo e negli stati extra-europei il 
livello era pari al 50% per l’Australia, al 14% negli U.S.A. e al 10% in Giappone. 
18
 I dati tra parentesi anziché esser corretti per la parità aurea, sono stati calcolati usando i valori correnti 
originari. Fonte: K.O’Rourke e J. Williamson, Globalizzazione e Storia-L’Evoluzione dell’Economia 
Atlantica nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005 pag. 288 e segg., dati tratti da.  
 9
 Fig.4. Ammontare di capitali stranieri nei paesi in via di sviluppo. 
 
 
 1870 1914 
Stock a prezzi correnti (Mld di dollari) 4,1 19,2 
Stock a prezzi del 1990 (Mld di dollari) 40,1 235,4 
Stock/Prodotto Nazionale Lordo dei paesi in via di 
sviluppo 
8,6% 32,4% 
 
Fonte: Maddison A., The World Economy. A Millenial Perspective, OECD, Paris, 2001, pag 127-128 in 
Gozzini G., Le migrazioni di ieri e di oggi – una storia comparata, Milano, Bruno Mondadori, 2005, 
pag.151. 
 
Gli investimenti erano di portafoglio (azioni ed obbligazioni) con prevalenza 
obbligazionaria. Ad esempio, gli investimenti britannici erano composti per il 
79% in America Latina e per l’85% in Nord America da obbligazioni
 19
.  
A favorire gli scambi sul mercato dei capitali furono la tecnologia, le istituzioni e 
la politica. 
La trasmissione delle informazioni tra i diversi centri finanziari subì 
un’enorme spinta con la diffusione del telegrafo. Il primo cavo sottomarino 
venne istallato nel 1851 tra Dover e Calais, successivamente nel 1864 vennero 
collegate New York e San Francisco e quindi nel 1866 si installò un cavo tra le 
due sponde dell’Atlantico. Alla fine del XIX secolo tutto il mondo era cablato. Per 
piazzare un ordine di acquisto/vendita oltreoceano si passò da un tempo medio 
di tre settimane a pochi minuti di sfasamento. 
Gli investimenti diretti esteri (IDE
20
) furono rilevanti, in termini relativi al Pil dei 
paesi destinatari, raggiunsero un livello pari a quello odierno. Erano per la 
                                                 
19
 Come accennato in nota 14 , nel valutare l’integrazione del mercato dei beni e servizi è inopportuno 
considerare unicamente le quote dell’interscambio commerciale senza analizzare i trend di convergenza 
dei prezzi. Maggiore è l’integrazione, minore deve essere il gap dei prezzi, la correlazione tra i prezzi sui 
diversi mercati e la varianza dell’output dovrebbe aumentare a causa dei vantaggi comparati e delle 
dinamiche della specializzazione. Stessa cosa vale per i flussi di capitale e i prezzi delle variabili 
finanziarie. Di recente, il metodo che si è diffuso maggiormente per misurare l’integrazione dei mercati 
dei capitali ha posto l’accento più sulle quantità che sui prezzi. M.Feldstein e C.Horioca in Domestic 
Saving and International Capital Flows, “Economic Journal”,90,giugno 1980, p.314 e segg.e Robert Zevin 
in Are World Financial Markets More Open? If so, Why and With What Effects?, in T. Banuri e J.B. 
Schor, Financial Openess and National Autonomy: Opportunities and Constraints,Oxford, Claredon Press, 
1992 hanno dimostrato con queste metodologie che il mercato dei capitali era più integrato 100 anni fa.  
20
 Le tipologie di investimenti contemplate dalle Bilance dei Pagamenti sono essenzialmente di due tipi: 
investimenti di portafoglio e investimenti diretti. 
I primi racchiudono tutte le transazioni finanziarie di strumenti finanziari negoziabili che permettono 
all’investitore un disinvestimento rapido del capitale impiegato. I secondi, seguendo la definizione data 
dal Fondo Monetario Internazionale, vengono definiti “diretti” se sono orientati a stabilire un legame 
economico di tipo durevole tra l’investitore e l’impresa oggetto dell’investimento. L’investitore può 
quindi esercitare una notevole influenza sulla gestione aziendale. Il Dipartimento del Commercio 
statunitense considera investimenti diretti quegli investimenti che permettono di esercitare almeno il 10% 
delle partecipazioni con diritto di voto. 
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maggior parte di origine inglese,  ma furono consistenti anche quelli francesi, 
tedeschi e svedesi. Il flusso era del tipo Nord-Sud e seguiva i flussi commerciali 
e dei fattori; era ad essi complementare. Anche in questo caso il loro sviluppo 
venne favorito dalla tecnologia: il telegrafo permise un maggior potere di 
controllo e coordinamento tra la casa madre e le consociate estere.  
Gli IDE  erano scarsamente concentrati nelle manifatture e nei servizi. La loro 
prevalenza si riscontrava nel settore agricolo, in quello minerario e ferroviario. 
Dal punto di vista istituzionale una forte spinta all’integrazione dei mercati 
finanziari venne data dal gold standard
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, il sistema monetario attraverso il quale 
ciascuna nazione ancorava la propria divisa ad un rapporto fisso con l’oro, 
quindi automaticamente tra le diverse valute si instaurava un regime di cambi 
fissi, con l’eliminazione del rischio di cambio e con la garanzia che il paese 
importatore di capitali avrebbe perseguito politiche monetarie e fiscali 
conservatrici
22
. 
                                                 
21
 Al vantaggio dato dal Gold Standard di poter avere un sistema di cambi fissi, si contrappone la difficile 
gestione dei deficit commerciali, nel caso in cui un paese acquisti da un altro beni e servizi per un valore 
superiore a quanto ne venda. In questo caso sono possibili due soluzioni. Nel Gold Standard  si regolava il 
deficit con l’oro. In base al principio secondo cui l’oro costituisce la base monetaria a fronte della quale 
corrisponde proporzionalmente la quantità di moneta del sistema, il paese che vede fuoriuscire le riserve 
auree deve diminuire proporzionalmente la quantità di moneta con conseguenti effetti deflativi 
(diminuzione di salari e prezzi). La diminuzione della domanda comporta una diminuzione delle 
importazioni e i minori costi di produzione e prezzi agevoleranno le esportazioni. Viceversa, nel caso in 
cui un paese abbia un avanzo commerciale, avrà un’espansione della base monetaria e dell’offerta di 
moneta con conseguenze inflazionistiche(aumento di salari e prezzi). In questo caso la maggiore domanda 
provocherà un incremento delle importazioni e i maggiori costi e prezzi una contrazione delle 
esportazioni.  
Tuttavia, le politiche deflazionistiche a seguito di deficit commerciali, avevano ingenti costi per i ceti 
deboli della popolazione che subivano decurtazioni salariali e l’aumento dei costi per le merci importate.  
Altro svantaggio era il finanziamento dell’espansione economica. Un’economia che cresce, necessita, 
come un motore del proprio lubrificante, di una maggiore quantità di moneta circolante per regolare i 
maggiori scambi che in essa avvengono. Ma emettere nuova moneta implicava un aumento della base 
monetaria aurea, quindi parte delle risorse pubbliche venivano assorbite dall’acquisto di oro, nel caso in 
cui ciò non fosse avvenuto, l’insufficienza di moneta per gli scambi e per il mercato creditizio, si sarebbe 
tradotta in un aumento dei tassi d’interesse, con conseguenze depressive su investimenti e consumi. 
Infine, nei casi in cui vennero scoperte nuove miniere d’oro, vi furono variazioni della quantità di moneta 
indipendenti dalle scelte delle autorità, spesso con  conseguenze inflative. Al contrario, nel caso in cui 
l’oro non fosse potuto giungere nelle nazioni che lo necessitavano, l’impossibilità di variare l’offerta di 
moneta comportava spesso effetti deflativi e recessivi. 
Pertanto, il Gold Standard era un sistema a cambi fissi che eliminava il rischio di cambio e che faceva 
tendere al pareggiamento le bilance commerciali, ma al contempo comportava elevati costi per la 
collettività. 
La Gran Bretagna fu la prima nazione ad adottare questo sistema monetario. Ufficialmente ciò avvenne 
nel 1816 a seguito della crisi del bimetallismo nel 1871. Successivamente venne progressivamente 
adottato da Germania (1871), Belgio (1873), Italia (1873), Svizzera (1873), Scandinavia (1874), 
Danimarca (1875), Norvegia (1875), Svezia (1875), Olanda (1875), Francia (1876), Spagna (1876), 
Austria (1879), Russia (1893), India (1898) e USA (1900).  
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 Bordo M.D. e Kydland F.E., The Gold Standard as a Rule: An Essay in Exploration, in “Explorations in 
Economic History”, 32, ottobre 1995, p423 e segg. e Bordo, M.D. e Rockoff H., The Gold Standard as a 
“Good Housekeeping Seal of Approval”, in “Journal of Economic History”, 56, 2, 1999 p.389 e segg. 
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Anche la politica svolse un ruolo importante. Stabilità e pace incoraggiarono 
la concessione di crediti a livello internazionale. Inoltre, il gold standard con la 
necessaria cooperazione tra Banche Centrali svolse anche un ruolo politico oltre 
che economico. La politica economica fu fortemente influenzata dalla parità 
aurea e per lungo tempo mise in secondo piano le ricadute occupazionali 
rispetto alla stabilità monetaria.  
 
3.1.3. Flussi migratori e il mercato del lavoro 
 
 
 
 Il mercato del lavoro e la mobilità della manodopera fu forse l’aspetto che 
caratterizzò maggiormente la globalizzazione dell’Ottocento rispetto all’attuale.  
Ben 60 milioni di europei emigrarono nel nuovo mondo, tre quinti di essi 
andarono negli U.S.A., ciò comportò un aumento della popolazione statunitense 
di un terzo e la diminuzione di un ottavo di quella europea. Altre mete furono 
l’Argentina, il Brasile, il Canada ed infine flussi minoritari si diressero verso 
l’Australia ed il Sud Africa. (Vds.Fig.5). 
 
 
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 Fig.5. Tassi migratori decennali (valori per migliaia di unità di popolazione media) 
 
 
 
 1851-1860 1861-1870 1871-1880 1881-1890 1891-1900 1901-1910 
TASSI DI EMIGRAZIONE EUROPEA 
Austria-
Ungheria 
- - 2,9‰ 10,6‰ 16,1‰ 47,6‰ 
Belgio - - - 8,6‰ 3,5‰ 6,1‰ 
Isole 
Britanniche 
58,0 ‰ 51.8‰ 50,4‰ 70,2‰ 43,8‰ 65,3‰ 
Danimarca - - 20,6‰ 39,4‰ 22,3‰ 28,2‰ 
Finlandia - - - 13,2‰ 23,2‰ 54,5‰ 
Francia 1,1‰ 1.2‰ 1,5‰ 3,1‰ 1,3‰ 1,4‰ 
Germania - - 14,7‰ 28,7‰ 10,1‰ 4,5‰ 
Irlanda - - 66,1‰ 141,7‰ 88,5‰ 69,8‰ 
Italia - - 10,5‰ 33,6‰ 50,2‰ 107,7‰ 
Paesi Bassi 5,0‰ 5,9‰ 4,6‰ 12,3‰ 5,0‰ 5,1‰ 
Norvegia 24,2‰ 57,6‰ 47,3‰ 95,2‰ 44,9‰ 83,3‰ 
Portogallo - 19,0‰ 28,9‰ 38,0‰ 50,8‰ 56,9‰ 
Spagna - - - 36,2‰ 43,8‰ 56,6‰ 
Svezia 4,6‰ 30,5‰ 23,5‰ 70,1‰ 41,2‰ 42,0‰ 
Svizzera - - 13‰ 32,0‰ 14,1‰ 13,9‰ 
TASSI DI IMMIGRAZIONE DEL NUOVO MONDO 
Argentina 38,5‰ 99,1‰ 117,0‰ 221,7‰ 163,9‰ 291,8‰ 
Brasile - - 20,4‰ 41,1‰ 72,3‰ 33,8‰ 
Canada 99,2‰ 83,2‰ 54,8‰ 78,4‰ 48,8‰ 167,6‰ 
Cuba - - - - - 118,4‰
U.S.A. 92,8‰ 64,9‰ 54,6‰ 85,8‰ 53,0‰ 102,0‰ 
 
Fonte: Hatton, T.J. e Williamson J.G. , The Age of Mass Migration; An Economic Analysis, New York, 
Oxford University Press, 1998, in O’Rourke K. e Williamson J.G., Globalizzazione e Storia - 
L’Evoluzione dell’Economia Atlantica nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005, pag 171. 
 
Le emigrazioni ebbero luogo anche sul Pacifico: dall’Asia verso gli U.S.A., 
dall’India verso i paesi del Commonwealth e alcuni studiosi ritengono che 
queste abbiano avuto la medesima entità di quelle europee.( Vds Fig.6) 
Complessivamente, il numero degli emigrati nella prima globalizzazione costituì 
il 10% della popolazione mondiale
23
. 
 
 
 
                                                 
23
 Collier P., Dollar D., Globalizzazione, crescita e povertà – Rapporto della Banca Mondiale, Il Mulino, 
Bologna, 2003. 
 
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Fig. 6. Le direzioni dei flussi migratori volontari 1815-1914 
 
Fonte: Segal A., An Atlas of International Migration, Zell, London, 1993, pag 13 in Gozzini G., Le 
migrazioni di ieri e di oggi – una storia comparata, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pag.156. 
 
I migranti erano in maggioranza giovani adulti, provenienti dal settore 
dell’agricoltura e dell’artigianato ed apportarono un elevato tasso di 
partecipazione al lavoro nei paesi di immigrazione. I fattori che inducevano gli 
uomini ad emigrare erano numerosi e sono scomponibili in fattori push e pull.  
I fattori push, che spingevano all’emigrazione nell’Ottocento, erano l’eccesso 
naturale di popolazione nel Vecchio Continente e le condizioni di miseria e 
povertà dei paesi d’origine. I principali fattori pull, che attiravano gli immigrati nei 
paesi di destinazione, erano la prospettiva di migliori condizioni retributive e di 
vita. 
Anche in questo caso, come con le merci,  ad agevolare i flussi internazionali fu 
la notevole riduzione dei costi di trasporto.  
Tra il 1870 ed il 1910 il ritmo delle emigrazioni presentò un tasso di crescita del 
7% annuo. 
Dall’analisi socio-economica dei paesi europei appare evidente che i paesi latini, 
che versavano in condizioni di arretratezza, entrarono solo in un secondo tempo 
nel mercato globale del lavoro, solo dopo  essersi parzialmente affrancati dalla 
trappola della povertà. 
I dati storici complessivi hanno evidenziato che generalmente in tutti i continenti 
i tassi di emigrazione all’inizio della globalizzazione furono minori nelle nazioni 
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