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Introduzione 
 
-Perché scrive?- si domanda spesso allo scrittore. 
-Dovreste saperlo,- potrebbe rispondere lo scrittore  
a coloro che lo interrogano. -Dovreste saperlo 
dal momento che leggete ciò che scriviamo; 
se infatti ci leggete e se continuate a leggerci, 
la ragione è che avete trovato qualche cosa, 
un nutrimento, qualche cosa che corrisponde 
ai vostri bisogni. Perché dunque avete questo  
bisogno, e che specie di nutrimento siamo noi? 
Se io sono scrittore, perché voi siete miei lettori? 
È in voi stessi che troverete la risposta alla 
domanda che mi avete posto. 
Eugène Ionesco, Note e contronote. 
 
Una domanda, un autore teatrale e otto parole sono i personaggi principali di questo 
elaborato. 
 
 La domanda è vertiginosamente ampia: quale rapporto possiamo tracciare tra 
linguaggio e natura umana, cosa comporta il fatto che la nostra specie parli, e in che 
senso la facoltà di articolare parole dischiude la possibilità della nostra genesi - di ogni 
nostra genesi? L’ipotesi che ho scelto di sostenere e di sondare in ogni sua conseguenza 
teoretica e pratica è la seguente: non possiamo immaginare l’animale razionale al di 
fuori dell’orizzonte linguistico, e, anzi, animale proposizionale è il modo più onesto in cui 
ritengo che ci sia consentito dirci uomini. Ho condotto la mia indagine da una 
prospettiva politica e teatrale: non riesco infatti ad immaginare una riflessione 
sull’uomo che prescinda dalla politica, né una politica lontana dalla scena del 
fenomenico. 
 
 L’autore teatrale è un signore rumeno di nascita e francese di adozione, che, prima di 
diventare drammaturgo, detestava sinceramente il teatro: Eugène Ionesco (1909-1994). 
Attivo tra gli anni ’50 e gli anni ’80, egli è famoso come principale esponente del teatro 
dell’assurdo; nonché per aver dissezionato, nelle sue opere, il linguaggio e le tradizionali 
norme dell’estetica, della scrittura e della messa in scena teatrale. Sono state proprio le 
sue opere - e in particolare il suo primo testo, la Cantatrice calva, il cui sottotitolo, La 
tragedia del Linguaggio, dà il titolo a questa tesi - e le sue Note e contronote sul teatro, 
sul linguaggio e sull’uomo ad ispirare e a dare corpo alle pagine che seguono.
6 
 
 
 Ognuna delle otto parole apre un capitolo di questa tesi, e ne costituisce il nucleo 
tematico.  
 La prima parola è λόγος, e cioè, appunto, la parola che struttura il pensiero lineare, 
fondamento rassicurante e apparentemente saldissimo di ogni umanità, che però 
nasconde ombre e contraddizioni, e che non è affatto un punto di partenza assodato.  
 La seconda parola è margine, termine che designa tutto ciò che sfugge non appena 
viene raggiunto, e in particolare la pericolosa terra di nessuno nella quale è possibile 
l’incontro con gli altri e con se stessi.  
 La terza parola è solipsismo, la condizione di isolamento totale nel proprio ipse, 
l’ignoranza senza scampo del mondo e degli ipse altrui, e dunque l’impossibilità di 
comunicare, il naufragio di ogni parola.  
 La quarta parola è πρα̃ξις, e cioè la prassi che, attivando la facoltà di linguaggio,  ci 
genera come esseri umani. Questa prassi, in primo luogo teatrale, sarà lo spunto per 
abbozzare una proposta politica.   
 La quinta parola è gregge, ovvero la condizione collettiva che disattiva la politica e 
comporta l’appiattimento dell’uomo alla sua funzione sociale. Il belato del gregge è il 
linguaggio convenzionale automatico che interrompe e sovverte ogni antropogenesi.  
 La sesta parola è malapropismo, e indica una situazione linguistica in cui il parlante, 
consapevolmente o meno, pronuncia un termine inadatto al contesto con l’intenzione di 
suggerirne un altro al suo interprete. L’errore impedisce davvero la comprensione 
reciproca? L’infrazione delle convenzioni va evitata ad ogni costo?     
 La settima parola è racconto, il gioco di dirsi che sta al cuore di ogni pratica umana. 
Pensiero, conoscenza, storia e identità non sono altro che racconti. Il rapporto tra λόγος 
e μυ̃θος (tra pensiero razionale e mito) è più complicato di quel che può sembrare.   
 L’ottava e ultima parola è τράγος ώ̨δή, e cioè la tragedia che traspare fin dal titolo di 
questa indagine. La tragedia dell’uomo e del suo linguaggio non va negata, ma vissuta e 
raccontata fino in fondo, perché l’eroismo di essere soltanto uomini (e di articolare 
parole come unica risorsa  per coesistere, e quindi per esistere) consiste nell’accettare la 
crisi che rende instabile e precaria ogni genesi. Questo, peraltro, è il punto focale della 
mia tesi, il nodo che non mi propongo di sciogliere, ma almeno di mostrare.  
 
 Chiudo questa Introduzione chiarendo che ogni errore o imprecisione rintracciabile 
nelle pagine seguenti è imputabile soltanto alla mia disattenzione. Spero di non averne 
commessi troppi.
7 
 
CAPITOLO 1 
 
“Non c’è qualcosa come il linguaggio”: c’è qualcosa come l’Uomo? 
 
Λόγος è una parola rassicurante. Nel pronunciarla e nel richiamare alla mente le sue 
sfumature, l’intrecciarsi dei suoi significati, abbiamo l’impressione di avere sulle labbra 
la chiave per accedere alla nostra identità profonda di esseri umani. Λόγος è la prima 
parola che diciamo se siamo chiamati a spiegare in che cosa non siamo soltanto animali 
e, guarda caso, λόγος mette insieme “parola” e “ragione”, è il racconto della nostra 
facoltà intellettiva, è un discorso sul pensiero come carattere distintivo ed 
inequivocabile della nostra specie, è un capolavoro di sintesi e di ordine, e ciò che 
sintetizza e ordina è il fondamento ultimo dell’Uomo.  
 Il λόγος è proprio al nostro inizio: “In principio era il λόγος, e il λόγος era presso Dio, e il 
λόγος era Dio”
1
, scrive Giovanni in apertura del suo Vangelo.  
 La parola, dunque. Parlo, quindi penso, quindi sono. Un uomo.  
 Proseguendo su questa linea argomentativa, certamente galvanizzante per noi “cosi con 
due gambe”
2
, si finirebbe però per intonare un Inno al λόγος simile a quello da cui trasse 
ispirazione Giovanni per il suo incipit, e di cui forse ora non abbiamo un gran bisogno. 
Proviamo quindi a fermarci, e chiediamoci se il doppio filo che lega la nostra natura al 
linguaggio non abbia per caso implicazioni più inquietanti, ma anche più interessanti. 
Potremmo cominciare con una domanda la cui risposta appare scontata: il linguaggio è 
un meccanismo interamente razionale?  
 La tentazione sarebbe quella di esclamare un sì deciso, ribadendo che “parola” è, fin 
dall’inizio, solo un altro modo per dire “ragione”. Ma non facciamo come Oscar Wilde, e 
proviamo a resistere. 
 
 
 
 
                                                           
1
 “Έν άρχήν η̈́ν ο̈́ λόγος, κα ο̈́ λόγος η̈́ν πρός τόν θεόν, κα θεός η̈́ν ο̈́ λόγος”, recita il testo greco. È 
interessante notare il ruolo di άρχή che viene ad assumere il λόγος in questa formulazione: per i 
filosofi presocratici l’άρχή  era il principio, il fondamento della realtà. Giovanni richiama questo 
concetto, e conferisce al λόγος la sua dignità. 
2
 Così Guido Gozzano definisce i suoi simili ne La Signorina Felicita ovvero la Felicità, in I Colloqui, 
1911, ora in Guido Gozzano, Poesie, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1997, pp. 181-187.
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1.1 Arbitrarietà del segno linguistico 
Cosa fa sì che le parole che pronunciamo si riferiscano a qualcosa nel mondo? Dove sta il 
nesso? C’è una motivazione razionale per cui un cavallo si chiama “cavallo”? C’è 
qualcosa di speciale in questa concatenazione di fonemi, qualcosa che rimanda per sua 
natura all’animale in carne e ossa? Evidentemente no. Non c’è nessuna qualità 
intrinseca al segno linguistico che istituisca un legame necessario tra di esso e la cosa 
reale designata, sostenere il contrario è strapparsi gli occhi, e condannarsi al tormento 
teorico davanti a un dato ovvio come la diversità dei nomi utilizzabili per indicare la 
stessa cosa nelle varie lingue, nella stessa lingua in epoche diverse e persino nella stessa 
lingua nello stesso momento. Il legame tra parole e oggetti reali non è motivato 
razionalmente, esso è pura convenzione, è totalmente arbitrario. Pertanto, un elemento 
irrazionale insidia il cuore stesso del linguaggio: l’arbitrarietà è una caratteristica 
innegabile del segno linguistico. Credo sia opportuno precisare che cosa intendiamo, 
perché la questione è capitale.  
Introduciamo dunque un po’ di termini, basandoci sulla fondamentale riflessione del 
linguista ginevrino Ferdinand de Saussure. Il segno linguistico è l’unione di un 
significante e di un significato. Per significante si intende l’immagine acustica, che è la 
traccia psichica del suono materiale che percepiamo a livello sensoriale; il significato è 
invece il concetto. Quindi, sottolineiamolo, il segno linguistico non unisce una cosa e un 
nome, ma un concetto e un’immagine acustica.  
Ecco, Saussure colloca l’arbitrarietà proprio all’interno del segno linguistico, sostiene 
cioè che il legame tra l’immagine acustica che ruminiamo col pensiero quando udiamo o 
leggiamo la sequenza di fonemi “cavallo” sia indipendente dal concetto di cavallo, che 
sia cioè puramente convenzionale il fatto che applichiamo quel particolare significato a 
quel particolare significante. Abbiamo usato il termine convenzionale, ed esso ha un 
certo peso: per arbitrario infatti non intendiamo “legato esclusivamente alla volontà del 
singolo parlante”. Saussure si spiega così: 
La parola arbitrarietà richiede anche un’osservazione. Essa non deve dare l’idea che il significante 
dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante (si vedrà più in basso che non è in potere 
dell’individuo cambiare in qualcosa un segno una volta stabilito in un gruppo linguistico); noi 
vogliamo dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, col quale non ha 
nella realtà alcun aggancio naturale.
3
 
Questa precisazione del ginevrino potrebbe autorizzarci a mettere in discussione parte 
della sua tesi. È stato Émile Benveniste a dare voce a questa obiezione, che suona 
pressappoco così: benissimo, Ferdinand, il segno linguistico è arbitrario. Ma la sua 
arbitrarietà non risiede nel legame tra concetto e immagine acustica, bensì nella 
relazione che intercorre tra il segno linguistico stesso e l’oggetto che esso designa.        
                                                           
3
 Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura di Tullio de Mauro [tr. it. di Cours de 
linguistique générale, Paris, Édi ons Payot, 1916], Bari, Biblioteca Uni versale Laterza, 2009, p. 87.
9 
 
Tu stesso, mio caro, chiarendo cosa intendi per “arbitrarietà”, tiri in ballo la “realtà”, 
l’”aggancio naturale”, che più sopra avevi escluso dalle definizione di “segno linguistico”. 
In effetti il segno linguistico non è l’unione di una cosa e di un nome, ma di un 
significante e di un significato, nell’accezione che abbiamo specificato. Se togli di mezzo 
l’oggetto materiale, togli di mezzo l’arbitrarietà: infatti, non è per niente arbitrario il 
legame che io, parlante francese, istituisco tra l’immagine acustica “cheval” e il concetto 
di cavallo. Come tu stesso sostieni, essi non sono che il recto e il verso di uno stesso 
foglio di carta. Non c’è il concetto di cavallo prima dell’immagine acustica “cavallo”        
(o “cheval”), semplicemente perché non ci sono concetti silenziosi, anche questo è un 
punto che tu stesso hai precisato, non si dà pensiero senza parole. Il legame tra 
significante e significato è dunque in mo, necessar io. È invece arbitrario, cioè 
convenzionale (stabilito da una regola sociale), che io associ il segno linguistico “cavallo” 
nel suo complesso (unione di significante e significato) all’animale che mi sta davanti. 
Scrive Benveniste:  
È possibile delimitare la zona dell’arbitrario così individuata. Ciò che risulta arbitrario è che un 
certo segno, e non un altro, venga applicato a un certo elemento della realtà e non a un altro. In 
questo senso,e soltanto in questo, è lecito parlare di contingenza.
4
  
La contingenza e l’arbitrarietà del segno linguistico, quindi, non riguarderebbero la sua 
costituzione interna, ma la sua presa sulla realtà. Questa necessità strutturale interna 
del segno linguistico sarebbe un buon nocciolo razionale su cui fondare il nostro 
linguaggio, ma, ahimè, non sono molto d’accordo con Benveniste.  
È certamente vero che non posso avere concetti muti, il mentalese di Pinker
5
 è un 
fantasma inconsistente, il pensiero non può essere silenzioso (e qui davvero basta 
esclamare “λόγος”!). Ma è altrettanto vero che non c’è nessun motivo, nessuna 
proprietà misteriosa che mi induce ad associare il concetto di cavallo ai fonemi c-a-v-a-l-
l-o pronunciati in sequenza (lo diciamo di passaggio, ma è un punto importante: il 
significante è lineare, cioè è formato da singoli elementi che si concatenano uno dopo 
l’altro nel tempo, e questo condiziona l’intero sistema della lingua). Non c’è un legame 
necessario. Io applico il significato di cavallo al significante “cavallo” perché sono stata 
addestrata a farlo, perché seguo una regola, una convenzione sociale che avrebbe 
potuto anche essere diversa. Non c’è razionalità in questo, solo contingenza.  
E ora selliamolo, questo cavallo, usciamo dal singolo segno linguistico e galoppiamo 
verso una prospettiva un po’ più ampia. 
                                                           
4
 Émile Benveniste, Problemi di linguistica generale [tr. it. di Problèmes de linguistique générale, 
Paris, Éditions Gallimard, 1966], Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 64. 
5
 Steven Pinker è il promotore della tesi secondo la quale il linguaggio sarebbe una sorta di 
prodotto della mente, il frutto di una traduzione tramite la quale ogni parlante attua il passaggio 
dal pensiero alla parola. Non provo alcuna simpatia per questa posizione, condivido invece la 
linea argomentativa opposta, cioè quella che fa scaturire la mente dal linguaggio (e non solo). 
Non riesco a concepire un pensiero puro, spoglio di parole.
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1.2 Faculté de langage, langue, parole 
Il linguaggio è naturale per l’uomo? Anche questa volta, la risposta è complessa e ricca di 
implicazioni. Ecco cosa ne pensa Saussure:  
Non il linguaggio parlato è naturale per l’uomo, ma la facoltà di costituire una lingua, vale a dire 
un sistema di segni distinti corrispondenti a delle idee distinte.
6
 
Il nostro linguista non approfondisce questa generica facoltà, perché la considera 
irrimediabilmente impregnata di elementi fisiologici e biologici, ma è opportuno far 
presente che è proprio questa potenza indeterminata, questa δύναμις, questa 
disposizione biologica dell’essere umano, quello che noi chiamiamo “linguaggio”, 
distinguendolo da ogni lingua particolare. Quello che è naturale per la nostra specie è il 
linguaggio così inteso, è il poter-dire. Prima o al di fuori di questo poter-dire non c’è 
umanità. Tornerò su questo punto, visto che, con Paolo Virno
7
, considero la faculté de 
langage lo sfondo troppo facilmente messo tra parentesi di ogni evento comunicativo, 
ma più in generale, di ogni prassi propriamente umana.  
Saussure si concentra invece sulla langue. Riflettiamo su quanto segue: 
Ma che cos’è la langue? Per noi, essa non si confonde con il linguaggio, essa non ne è che una 
determinata parte, quantunque, è vero, essenziale. Essa è al tempo stesso un prodotto sociale 
della facoltà del linguaggio e un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per 
consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui. Preso nella sua totalità, il linguaggio è 
multiforme ed eteroclito, a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, 
psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; non si lascia 
classificare in alcuna categoria di fatti umani poiché non si sa come enucleare la sua unità. La 
langue, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione.
8
 
Si tratta di una chiara delimitazione del campo di ricerca che compete alla linguistica. 
Mentre il linguaggio è uno strano ibrido, una sorta di ornitorinco che non si sa bene 
come incasellare, la langue “è classificabile tra i fatti umani” ed è un oggetto di studio 
omogeneo. Essa si identifica con quella particolare zona del linguaggio in cui 
un’immagine acustica si associa a un concetto. Abbiamo visto che questa associazione è 
arbitraria: la langue, dunque, non è assimilabile a una nomenclatura, cioè a 
un’accozzaglia di etichette da sempre e “naturalmente” appiccicate alle cose 
corrispondenti.  
Da questo deriva una conseguenza importantissima: la radicale socialità della lingua. 
Infatti, assodato il carattere arbitrario del segno, su cosa potrebbe basarsi una langue, se 
non su una convenzione stabilita dal consenso della società che ne fa uso?  
                                                           
6
 Saussure, Op. cit., p. 20. 
7
 Paolo Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Torino, Bollati Boringhieri 
Editore, 2003. 
8
 Saussure, Op. cit., p. 19.