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CAPITOLO I  
 
DAL COPISTA ALLE MODERNE FIGURE PROFESSIONALI 
 
Il libro moderno è il risultato di un’evoluzione iniziata 3500 anni dopo la comparsa 
della scrittura, 1000 anni prima dell’invenzione della stampa. 
Nato dalla scrittura, il libro è il testimone privilegiato del pensiero umano. Tre costanti 
sembrano caratterizzare la sua evoluzione: un supporto più o meno maneggevole, la 
riproducibilità e la diffusione dei testi, secondo modalità soggette a continui mutamenti, 
la struttura che appare sin dalle origini simile a quella ancora oggi in uso: i manoscritti 
copiati dai monaci medievali su fascicoli di pergamena sono infatti libri a tutti gli 
effetti. 
 
1. L’introduzione della pergamena: il copista e la rilegatura 
 
La parola libro deriva dal latino liber. Il termine in origine indicava la pellicola posta tra 
il legno di un albero e la sua corteccia esterna che, insieme alla pietra, è stata il supporto 
delle prime forme di scrittura.Ma nell’antichità si utilizzavano anche altri supporti: in 
Mesopotamia le tavolette di argilla, altrove l’osso o il tessuto, le tavolette di cera o di 
legno, le foglie di palma, le pelli di animali o la pietra, così come i metalli più svariati. 
Il papiro, fabbricato con l’omonima pianta che cresce nella valle del Nilo, costituiva il 
supporto più diffuso nell’antichità; apparso nel terzo millennio prima di Cristo, esso 
trionfò dapprima in Egitto, poi in Grecia e a Roma. Dato che non poteva essere piegato 
e che non permetteva di scrivere su entrambi i lati, i primi libri assunsero la forma di 
rotoli (volumen in latino, da cui il termine “volume”) composti da foglie incollate l’una 
accanto all’altra e arrotolate attorno a bastoni di legno o di avorio. I rotoli potevano 
raggiungere una lunghezza di una dozzina di metri e i testi venivano copiati in colonne 
alte da 25 a 45 righe. 
Agli albori dell’età cristiana il libro cambiò forma: si passò dal volumen al codex, un 
assemblaggio di fascicoli cuciti assieme che conferivano al libro l’aspetto che ha 
conservato fino ad oggi. 
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Più maneggevole del rotolo, che va tenuto con due mani, più facile da riporre, meno 
ingombrante, il codex aveva l’ulteriore vantaggio di ospitare la scrittura sia sul recto sia 
sul verso. Il suo uso si generalizzò tra il II e il IV secolo, col diffondersi del 
cristianesimo.
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Il trionfo della nuova forma di libro fu legato anche all’impiego, dal II secolo d.C. di 
una diversa materia prima, il cui uso si perpetuò per oltre un millennio: la pergamena. 
La pergamena era una materia di origine animale: dopo una lunga lavorazione, le pelli 
di pecora, capra o vitello venivano trasformate in un supporto più morbido e solido 
rispetto al papiro e sul quale era possibile scrivere sul recto e sul verso. 
La tecnica di fabbricazione si diffuse progressivamente in Occidente al punto che, 
durante tutta l’epoca medievale, prima dell’invenzione della carta, la pergamena 
costituirà il supporto principale della scrittura. 
Per realizzare una singola opera servivano numerose pelli (una quindicina per un 
volume di medio formato), il che comportava costi di fabbricazione notevoli. Per 
contenerli, alcune pergamene venivano riutilizzate raschiando testi ritenuti ormai 
superati. Gli studiosi chiamano questo genere di documenti palinsesti; mediante appositi 
trattamenti scientifici oggi è possibile far riapparire il testo cancellato
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Dopo la caduta dell’Impero Romano, la civiltà bizantina vide fiorire ricche biblioteche e 
svilupparsi un’arte della miniatura destinata ad influenzare quella di tradizione 
occidentale. 
In Europa, la cultura latina trova rifugio fra le mura dei monasteri, insieme centri di vita 
spirituale, di produzione economica e di conservazione dello sviluppo. 
Portata a compimento la preparazione della pergamena, infatti, la copiatura veniva 
affidata ad un monaco, poiché questo incarico era riservato, in Europa tra il VI ed il IX 
secolo, ai monasteri appunto, ognuno dei quali era dotato di uno scriptorium, una sala 
riservata alla scrittura. 
Venivano perlopiù copiate opere classiche e testi sacri, arricchite anche da alcune 
pittoresche annotazioni scritte ai margini dai monaci. 
Sul loro lavoro vegliava il capo sala, responsabile dello scriptorium e talvolta anche 
bibliotecario. 
Si lavorava in condizioni spesso spartane: seduto su una panca, il monaco sta 
appoggiato ad un leggio inclinato.  
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Gli strumenti di cui si serviva erano molto semplici: un calamaio di argilla o di corno 
bovino conteneva l’inchiostro di origine vegetale, la piuma, in genere d’oca, uno stilo a 
mina di piombo, una riga di legno, un compasso e i fascicoli di pergamena su cui 
scrivere. 
Più monaci potevano essere impegnati contemporaneamente sulla stessa opera per 
evitare che l’originale restasse troppo a lungo immobilizzato. Terminata la copiatura, il 
testo veniva riletto per apportare eventuali correzioni.
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Quando il copista aveva portato a termine il suo lavoro, i fascicoli venivano cuciti 
insieme su bande di cuoio fissate a delle assi di copertura in legno, in seguito rivestite di 
pelle. 
La rilegatura aveva lo scopo di proteggere il volume, ma si prestava anche a soddisfare 
un gusto per la decorazione sempre più marcato.
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2. L’invenzione della carta e la comparsa del libro 
 
La stampa non si sarebbe diffusa a tal punto se in Europa non fosse giunto un supporto 
più economico e più morbido della pergamena. 
La fabbricazione della carta, la cui invenzione è tradizionalmente collocata nel II secolo, 
ma che è indubbiamente più antica, venne dapprima adottata nei paesi di religione 
musulmana affacciati sul Mediterraneo. 
Si diffuse in Europa solo più tardi; prima in Spagna e poi, nel XIII secolo, in Italia, dove 
importanti tecniche la resero più resistente; da allora la carta non subirà mutamenti sino 
al Settecento; la materia prima restarono gli stracci usati, che venivano raccolti in grandi 
quantità da commercianti specializzati e portati al mulino, dove venivano sottoposti a 
cernita e alla macerazione; poi, ridotti in pezzetti, venivano fatti fermentare in locali 
speciali, generalmente sotterranei: si eliminava così il grasso e si isolava la cellulosa; 
successivamente venivano triturati in acqua saponata, poi venivano fatti essiccare e 
spalmati di una colla che li rendesse lisci, altrimenti avrebbero assorbito l’inchiostro. 
Infine si procedeva alla satinatura e alla lisciatura mediante una selce. 
Finalmente la carta, generalmente in pacchi da 25 fogli e in risme da 20 pacchi, veniva 
avviata al consumo. 
Nel corso di due secoli la carta conquistò tutti i paesi cristiani del nord.
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Fu nel XII secolo che apparve in Italia quel nuovo tipo di “pergamena” portato dai 
mercanti che avevano rapporti con gli Arabi. 
La carta non presentava certamente le stesse qualità esteriori della pergamena: più 
sottile, dall’aspetto cotonoso, era meno resistente e si strappava facilmente. 
Ma intanto, mentre appare il libro, il bisogno di carta aumentò in molti campi. 
L’istruzione si diffuse, le transazioni commerciali si perfezionarono, i documenti scritti 
si moltiplicarono; occorreva inoltre “carta comune” per i lavori manuali: merciai, 
droghiere, cerai vendevano carta. Sorsero innumerevoli mestieri che dipendevano 
dall’industria della carta: cartai, fabbricanti di cartone e di carte da gioco o anche 
cartolai incollatori di fogli.
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3. Gutenberg e l’invenzione della stampa 
 
La xilografia sembra essere stata l’antenata della stampa a caratteri mobili.
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Il principio è semplice: presa una tavola di legno inciso la cui parte in rilievo è stata 
inchiostrata, vi si stenda sopra un foglio di carta che viene tamponato con un panno; 
questa tecnica di stampa visse un periodo di slancio nel corso del Trecento, in 
particolare con la produzione di immaginette pie e di carte da gioco. 
La tipografia, invece, si basa su un principio molto diverso: la combinazione di 
caratteri mobili di metallo che il compositore può assemblare a piacimento e che 
permette di realizzare una serie di lettere assolutamente identiche. 
Quest’invenzione si avvale della messa a punto di due tecniche essenziali: il principio 
del torchio e la produzione di un inchiostro più grasso rispetto a quello utilizzato dai 
copisti. 
La stampa a caratteri mobili fu inventata nel 1455 da Johann Gutenberg, figlio di una 
famiglia di orefici, nato alla fine del Trecento a Magonza; a Gutenberg, infatti, si deve il 
primo libro a stampa conosciuto, la Bibbia delle 42 linee, che deve il suo nome al 
numero di linee per pagina, numero che la distingue dalle edizioni che di lì a breve la 
seguiranno, come la Bibbia delle 36 linee. 
La scoperta di Gutenberg non restò a lungo segreta: gli ex soci aprirono nuovi 
laboratori, cosicché la stampa si diffuse dapprima nella regione di Magonza e dei paesi 
renani, poi pian piano in Italia e nel resto dell’Europa: già gli albori del Cinquecento, 
infatti, tutta l’Europa occidentale e centrale era attraversata dall’invenzione di 
Gutenberg. 
Seppure rivoluzionaria, l’invenzione della stampa non rappresentò tuttavia una rottura 
per quanto riguarda la forma del libro; come i manoscritti, infatti, anche i libri a stampa 
erano costituiti da fascicoli piegati e rilegati insieme. 
La composizione della pagina non mutò e i caratteri si ispiravano alle scritture già 
esistenti; la grafia gotica era preferita per i testi religiosi, quella umanistica per i classici. 
Il libro fresco di stampa attendeva ancora interventi manuali: iniziali ornate, miniature, 
segni d’interpunzione.
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Si è soliti ripetere che la Riforma fu figlia della stampa, ma è un’affermazione che va 
valutata, considerando che all’epoca ben pochi sapevano leggere. 
E’ comunque vero che l’attività delle stamperie favorì la rapida diffusione delle idee di 
Lutero e degli ideologi della Riforma. 
Dopo che, nel 1517, Lutero affisse a Wittenberg le sue 95 Tesi di denuncia delle 
indulgenze, la stampa garantì una diffusione straordinaria delle sue idee.
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La Controriforma si affrettò a rispondere con la sue stesse armi, sconfessando Lutero 
per mezzo della carta stampata.
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4. I lavoranti stampatori e i maestri stampatori 
 
Il futuro tipografo doveva cominciare dall’apprendistato; a volte aveva appena una 
dozzina d’anni, a volte più di venticinque; egli proveniva da mestieri svariatissimi: 
poteva essere figlio di borghesi, di farmacisti, di uscieri del tribunale, di fabbri, molte 
volte era figlio di lavoranti stampatori, altre volte veniva dalla provincia. Di norma 
doveva sapere leggere e scrivere; i regolamenti prescrivevano che conoscesse il latino e 
che sapesse leggere il greco; queste nozioni erano necessarie per un compositore ma 
non per un torcoliere, ossia l’operaio addetto al torchio, spesso analfabeta. 
Le condizioni dell’apprendistato venivano specificate in un contratto stipulato davanti 
ad un notaio tra i maestri e i parenti e controfirmato dall’apprendista; il tempo 
dell’apprendistato variava da due a cinque anni. 
Il maestro doveva insegnare il mestiere all’apprendista, alloggiarlo, mantenerlo, vestirlo 
e fornirlo di qualche spicciolo; da parte sua l’apprendista prometteva obbedienza al 
maestro, si impegnava a non lasciare la sua casa e a servirlo fedelmente. 
Durante l’apprendistato il giovane tipografo faceva una vita durissima: viveva in una 
stanzetta attigua all’officina, si alzava prima dell’arrivo dei lavoranti, preparava 
l’officina, serviva i lavoranti a tavola, era incaricato dei compiti più facili, ma anche più 
sgradevoli; di solito era lui che preparava l’inchiostro, o bagnava i fogli prima della 
stampa; molte volte era addetto alla manovra del torchio, lavoro semplice ma 
estenuante. I momenti più lieti per un apprendista erano quelli in cui doveva svolgere 
qualche commissione; alla sera, quando gli operai se ne erano andati, doveva risistemare 
l’officina prima di riposare. 
Finito il suo periodo, l’apprendista riceveva il brevetto e diventava lavorante. 
Ancora giovane, finalmente libero e celibe (durante l’apprendistato era proibito 
sposarsi) partiva per un viaggio di molti anni di città in città, dove offriva i propri 
servigi agli stampatori locali; durante questi viaggi, il lavorante perfezionava la propria 
tecnica, imparava gli usi delle varie officine e faceva alcune conoscenze che gli 
sarebbero state utili se un giorno fosse diventato maestro.
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I maestri che dirigevano le stamperie, nei secoli XVI e XVII, erano spesso ex lavoranti, 
riusciti a mettersi in proprio: lavoravano con l’aiuto del figlio, a volte della moglie o 
della figlia; se avevano un’ordinazione urgente si rivolgevano a lavoranti di passaggio. 
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Talvolta avevano stabilmente presso di loro un operaio, una sorta di uomo di fiducia che 
partecipava alla vita della famiglia. 
Questi artigiani vivevano in gran parte dei cosiddetti stampati commerciali: 
partecipazioni, manifesti, sillabari. 
Il capo di queste aziende doveva dar prova di conoscere bene il mestiere: se l’editore 
non era soddisfatto dei risultati, lo stampatore rischiava di non ricevere più ordinazioni. 
Per ridurre il prezzo di costo della stampa l’artigiano doveva dare il buon esempio per 
ottenere un maggiore rendimento da parte degli operai: si alzava presto, arrivava in 
officina prima dei lavoranti, ne sorvegliava il lavoro, li aiutava e li guidava nelle 
difficoltà; anch’egli quindi doveva conoscere bene il latino ed essere un buon tipografo. 
Quasi sempre figlio di un maestro, aveva studiato fino a quindici o sedici anni prima di 
iniziare a lavorare nell’officina del padre o di un amico, per iniziarsi ai vari lavori della 
stampa e della composizione. 
Se gli utili erano sufficienti, se riusciva a mettere insieme un po’ di capitale, diventava 
egli stesso editore, associandosi talora ad un altro libraio, che divideva con lui rischi e 
guadagni. 
Con questo sistema, uno stampatore a volte riusciva a diventare un grande editore.
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5. L’evoluzione dell’organizzazione industriale 
 
Gli editori contemporanei sono molto diversi degli stampatori del Cinquecento; nella 
maggior parte dei casi non hanno più la tipografia e decentrano completamente tutte le 
funzioni di fabbricazione. 
In generale lo sviluppo dell’organizzazione industriale nel lungo periodo in editoria può 
essere letto come un processo di disintegrazione verticale che 
dall’editore/tipografo/libraio ha portato alle attuali aziende editoriali attraverso il 
decentramento delle principali funzioni produttive e logistiche. 
La disintegrazione verticale corrisponde a un passaggio da un modo di produzione 
artigianale, che caratterizza i primi tre secoli di stampa, ad una logica industriale, che 
inizia alla fine del Settecento, ma assume compiutezza solo nella seconda metà 
dell’Ottocento. 
Dopo la fase artigianale, una serie di lavorazioni tecnologiche a cavallo tra il Settecento 
e l’Ottocento, nella produzione di carta e nelle tecniche di stampa, rendono possibile, 
assieme alla nascita di nuovi segmenti di domanda, una crescita significativa delle 
tirature e delle dimensioni aziendali, ponendo in modo nuovo anche i problemi 
distributivi. 
Questa prima fase si presenta in Italia con qualche decennio di ritardo, a cavallo tra 
l’Ottocento ed i primi decenni del Novecento; molti editori nascono proprio in questo 
periodo, spesso a partire da un’attività tipografica precedente. 
La distribuzione ha assunto un’importanza diversa nelle varie fasi di sviluppo. A parte i 
primi decenni dopo il convenzionale punto di svolta di Gutenberg a Magonza, gli editori 
nei primi due secoli operavano su due mercati distinti, un mercato globale di tipo 
continentale, unificato dall’uso del latino da parte di tutte le persone colte, ed un 
mercato strettamente locale di libri d’uso, calendari, breviari, dove i confini tra attività 
editoriale e attività tipografica si fanno più incerti. 
Per tutto l’Ottocento si ritrova uno stretto collegamento tra le funzioni di produzione e 
quelle distributive; qualsiasi libreria ha anche una qualche attività editoriale. 
Questo processo avviene nell’Ottocento nei paesi anglosassoni e nel Novecento in Italia 
soprattutto per la crescita del mercato, sia in titoli sia in tirature. 
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Nello stesso periodo cominciano ad emergere peculiari canali di vendita che soddisfano 
diverse domande di servizi commerciali e che porteranno a quel complesso sistema che 
caratterizza oggi la commercializzazione del libro nella maggior parte dei paesi. 
Per quanto riguarda la selezione dei titoli da pubblicare, fino al Seicento essa appare una 
funzione molto specifica, ma leggermente defilata; infatti il libro si presentava come un 
sostituto del manoscritto copiato sia dal punto di vista formale, sia da quello dei 
contenuti. 
In seguito si consolida un processo di selezione dei titoli, e nell’Ottocento si assiste ad 
un aumento delle tirature legate alla crescita dell’alfabetizzazione e alla nascita di un 
nuovo pubblico.
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Il mondo della tipografia, nel suo complesso, ha indubbiamente svolto un ruolo di primo 
piano nella storia del moderno associazionismo italiano. 
Prima dello sviluppo dell’industria moderna, infatti, nelle tipografie si realizzava una 
relativa concentrazione di forza lavoro: già nel Settecento non era raro trovare decine di 
lavoratori all’interno di una singola stamperia; un fenomeno destinato ad essere sempre 
più visibile con l’aumento della meccanizzazione e lo sviluppo del mercato editoriale. 
Che si trattasse di addetti alla composizione o alla stampa vera e propria, gli operai si 
caratterizzavano per una forte qualificazione professionale; questa, poi, non consisteva 
solo nel lungo tirocinio a cui i giovani allievi dovevano sottoporsi, poiché già l’accesso 
in una tipografia presupponeva una base di scolarizzazione non paragonabile a quella di 
altre figure di salariati. 
Dotati di una certa istruzione, favoriti dallo scambio di opinioni con i colleghi presenti 
nello stesso spazio lavorativo, agli operai tipografici era sicuramente più facile 
organizzarsi per attutire i danni di una malattia sempre in agguato, ma anche per 
avanzare richieste ai datori di lavoro. Nacquero così, in modo davvero precoce, le prime 
associazioni di mutuo soccorso nel Settecento. 
Ma le peculiarità della produzione tipografica ponevano anche i proprietari delle 
stamperie in una situazione particolare: più che a quella del mastro, la condizione del 
proprietario tipografo era sicuramente più vicina a quella del moderno imprenditore. 
Anche se molto spesso proveniente da una lunga gavetta come operaio, il proprietario 
doveva possedere una serie di qualità specifiche: non solo aveva bisogno di capitali per 
avviare l’impresa, ma, soprattutto, doveva mostrare doti di pianificazione del lavoro, 
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distribuire il prodotto finito, seguire il processo di meccanizzazione. Tutto ciò appare 
ancora più evidente se si considera che per quasi tutto l’Ottocento la figura di 
proprietario di tipografia coincideva non di rado con quella di editore-libraio. 
Nonostante la nascita dell’organizzazione operaia costituisse un incentivo per la 
formazione di una coalizione permanente degli imprenditori, questi trovavano solo in 
modo episodico momenti di unità d’azione, e quasi sempre a scopo difensivo. L’assenza 
di una comune normativa, la disparità di condizioni in termini di approvvigionamento di 
materie prime, di organizzazione del lavoro, di utilizzazione dei servizi postali, tutto ciò 
frenava la spinta associazionistica. 
A differenza dei datori di lavoro, divisi tra grandi, medi e piccolissimi imprenditori, gli 
operai si confrontavano con problematiche più omogenee: il problema del salario e della 
disoccupazione, l’igiene nei posti di lavoro, la formazione professionale. D’altra parte, 
pur considerati nelle singole realtà territoriali, essi rappresentavano una forza discreta, 
almeno dal punto di vista quantitativo. 
La questione del numero era per certi versi decisiva; la semplice organizzazione del 
mutuo soccorso, infatti, già necessitava di un congruo numero di associati, tanto più in 
quel mestiere in cui la morbilità era altissima. 
Questa precocità organizzativa favoriva il passaggio a forme più complesse in grado di 
tutelare i lavoratori non solo sul terreno della salute, ma anche della difesa del posto di 
lavoro, e di incidere sulla stessa organizzazione del lavoro nelle tipografie. 
Si andarono così costituendo le organizzazioni di Genova (1852), Milano (1860), 
Firenze (1874), Bologna (1865), Brescia e Venezia (1866), Treviso e Verona (1867), 
Roma (1870), dove un sempre maggior numero di dipendenti cercava l’appoggio degli 
altri per migliorare una situazione che da soli non avrebbero potuto affrontare. 
Una significativa svolta si ebbe con il nuovo secolo, in cui si assistette all’aumento del 
salario e alla riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere, anche se inizialmente 
queste richieste da parte degli operai vennero accolte con un netto rifiuto.da parte degli 
imprenditori.
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6. Le nuove tecniche di stampa e le nuove figure professionali 
 
Le procedure di creazione dei caratteri e l’accuratezza della stampa diventarono col 
tempo sempre più raffinate, ma la tecnologia rimase per secoli la stessa: produzioni di 
caratteri mobili con piombo fuso e stampa al torchio. 
Tuttavia, l’uso dei caratteri mobili cominciò man mano a mostrare alcuni inconvenienti, 
infatti la disponibilità di ogni singolo carattere aveva sempre un limite, e quando una 
tipografia aveva parecchi volumi in preparazione, il problema diventava davvero 
pesante, perché rischiava di bloccare il lavoro. 
Inoltre, pur avendo fatto molti progressi, la riproduzione delle immagini continuava a 
basarsi sull’impostazione dell’acquaforte: si trattava di eseguire un disegno a rovescio 
con una punta d’acciaio su uno strato di vernice resinosa, poi vi si versava sopra una 
miscela di acido nitrico, acido solforico e acido cloridrico diluiti, che passando nei 
tracciati del disegno incideva il rame più o meno profondamente. Il risultato era 
un’immagine rovesciata su rame, che diventava diritta nella stampa. 
In seguito la zincografia rese tutto più rapido, perché si poteva utilizzare la pellicola 
fotografica come prezioso intermediario. 
Sembrò un grande passo avanti il torchio quasi interamente metallico messo a punto a 
Londra nel 1795, e ancor più sembrò strabiliante il torchio meccanico messo in 
funzione nel 1814. 
Nonostante ciò, bisognerà aspettare fino al 1886 per assistere alla prima vera e propria 
svolta tecnologica: uno statunitense di origine tedesca inventò a New York la prima 
compositrice a caldo, la lynotype: si trattava di una macchina dotata di una grande 
tastiera dove erano presenti tutti i caratteri, i segni diacronici, i numeri, i segni di 
interpunzione. 
Sempre negli Stati Uniti, e quasi contemporaneamente, venne inventata un’altra 
macchina compositrice: lo monotype, divisa in due: la compositrice e la fonditrice. La 
caratteristica più innovativa di questa invenzione era la velocità: si componevano fino a 
9.000 caratteri all’ora. 
Ma già pochi anni dopo queste due scoperte, nel 1904, si aggiunse una nuova scoperta, 
che riguardava non la composizione, ma la tecnologia di stampa. 
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L’idea di fondo stava nell’evitare di metter direttamente in contatto piombo e carta, 
trasferendo invece i caratteri innanzitutto su qualche “forma”, o matrice, quindi da 
questa a un rullo di caucciù. 
Negli anni ’60 cominciò a diffondersi anche la prima tecnologia di composizione a 
freddo: la fotocompositrice. Le lettere si impressionavano direttamente su carta 
fotografica, che diventava così una bozza; eseguite le correzioni, si impressionava poi 
una pellicola fotosensibile, in fotolito, da cui si ricavava la matrice per la stampa offset. 
Essa era dotata di un unico gruppo di stampa, ma ha avuto enormi sviluppi, proprio 
grazie alla sua straordinaria rapidità e versatilità. 
Un’evoluzione della macchina offset fu la rotooffset, che arrivava a dimensioni 
gigantesche perché poteva essere dotata addirittura di quattro gruppi di stampa in bianca 
e due in volta. 
Un altro procedimento di stampa inventato in questi anni fu il sistema rotocalco, 
opposto a quello dell’offset: anche qui si realizzava una matrice, ma questa recava i 
caratteri in incavo, cioè scavati leggermente nella lastra; dopo l’inchiostrazione, una 
sottile lama toglieva l’inchiostro in eccesso, lasciandolo solo negli incavi, un cilindro a 
pressione premeva la carta contro la matrice, e l’inchiostro passava “per decalcomania” 
dalla matrice alla carta.
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Esistono varie tipologie di case editrici: a conduzione familiare con un unico 
proprietario, società cooperative, società a responsabilità limitata, società per azioni, con 
o senza un amministratore delegato. 
Nelle piccole aziende, proprietario ed editore in genere coincidono; man mano che le 
dimensioni aziendali crescono, le mansioni dell’editore possono essere ricoperte dal 
direttore editoriale, dal direttore generale, dall’amministratore delegato o, addirittura, da 
un consiglio direttivo. In ogni caso c’è una persona, o un gruppo di persone, che svolge 
le funzioni di editore, responsabile dal punto di vista sia della tipologia della produzione 
sia della prosperità dei bilanci. 
Accanto alla figura dell’editore, troviamo in genere quella di un direttore editoriale, 
che è il principale collaboratore dell’editore nelle scelte editoriali, e che riceve da lui 
anche deleghe più o meno ampie sull’acquisizione di libri e autori e sulla realizzazione 
di progetti di ampio respiro. 
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A fianco delle due figure centrali troviamo, nelle case editrici di dimensioni medio-
grandi, una figura chiamata editor; al quale si affida in genere la cura di alimentare una 
collana reperendo autori e titoli ad essa adeguati, oppure un’area di competenza in cui 
catturare autori validi. Il margine decisionale di un editor è in genere limitato, mentre 
illimitato è il suo campo d’azione. 
Poi troviamo la figura dello scout, il cui compito è quello di andare in cerca di autori e 
titoli nuovi; le sue mansioni implicano una totale elasticità di movimento, e quindi egli 
raramente rientra nell’organico di una casa editrice, anzi, spesso vive direttamente 
all’estero. I suoi poteri decisionali sono ancora minori e la sua efficienza si misura sul 
tasso delle sue segnalazioni andate a buon fine. 
Infine, strettamente legati alla casa editrice troviamo una varietà di consulenti 
editoriali: persone di sicura competenza in vari campi. Nella migliore tradizione, il 
consulente scrive un rapporto o scheda di lettura in cui esprime il suo parere sul libro 
che è stato sottoposto al suo giudizio. 
Per completare lo staff direzionale, a volte troveremo anche la figura di un direttore di 
collana, interno ma più spesso esterno alla struttura aziendale. 
A fianco di queste figure opera il grafico, elemento che è diventato sempre più 
importante nella progressiva diversificazione e massificazione dei prodotti. Egli, infatti, 
traduce in segno, colore e immagini il progetto dell’editore; la sua principale 
responsabilità è quindi quella di disegnare il prodotto grafico di una collana, dal formato 
al tipo di confezione, dal colore del piatto di copertina al lettering (ossia la fisionomia 
delle lettere) di tutti i testi che vi compaiono, dall’aspetto del dorso di copertina alle 
eventuali immagini da far comparire sul piatto o sul retro. Non solo: il grafico è anche 
responsabile di disegnare il layout della collana, e cioè tutti i dettagli in cui verranno 
composti ed impaginati i testi che entreranno a farvi parte. 
Notevolmente diverso, ma contiguo al lavoro del grafico, è quello dell’illustratore, una 
figura che è diventata sempre più importante, ma che ha anch’essa un’antichissima 
tradizione. Egli è un ricercatore iconografico, capace di commentare, integrare, o 
interpretare con una sequenza di immagini (fotografie, quadri, litografie) il testo che gli 
viene sottoposto, di narrativa o saggistica che sia; egli crea un racconto per immagini, 
parallelo o complementare al testo. La sua principale dote è ovviamente il gusto e la 
sensibilità per le immagini.