2
Non sempre, però, il nucleo familiare riesce a garantire la 
sicurezza materiale e morale necessaria per la crescita dei suoi 
membri, per motivi molto diversi tra di loro; l’irresponsabilità, 
l’incapacità, le difficoltà economiche, le violenze, gli abusi, la 
malattia, l’incuria, ecc. In ognuno di questi casi l’ambiente 
familiare non è idoneo per la crescita e lo sviluppo del minore; il 
legislatore affianca, perciò, ad essa l’affidamento familiare, come 
primo strumento di tutela.  
La legge dà priorità alla famiglia, biologica e non; ove, 
però, non sia possibile per il minore rimanere nel nucleo di 
origine, né inserirsi in un altro, si prospetta l’affidamento ad una 
comunità di tipo familiare, “caratterizzata da organizzazione e da 
rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia.”
2
 Le 
comunità familiari sono un’opportunità che il legislatore mette a 
disposizione come forma alternativa di tutela del diritto alla 
famiglia. 
Vi sono svariati modi di chiamare queste comunità, in 
relazione al tipo di servizio che offrono: comunità educativa, 
comunità familiare, comunità alloggio, casa-famiglia, comunità 
di accoglienza, ecc. Per comodità si utilizzerà in questa sede la 
definizione di comunità per minori, in quanto si intende offrire 
una panoramica generale dello stato del servizio. 
Le comunità per minori possono essere definite come degli 
ambienti di vita che intendono dare una risposta ai bisogni dei 
minori in difficoltà, garantendo loro un luogo di vita e di 
                                                 
2
 Legge 28 Marzo 2001, n.149, art. 2, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante 
«Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo 
del codice civile, pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 26 Aprile 2001, n.96. 
 3
relazione in cui possano crescere e superare gli effetti negativi 
della loro condizione.  
Esse sono, comunque, un luogo di passaggio, e, anche se si 
sostituiscono temporaneamente alla famiglia di origine, non 
devono prenderne il posto, ma anzi devono favorire con il loro 
lavoro il riavvicinamento e il reinserimento del minore in essa. Il 
fine, infatti, è sempre il loro superamento, e gli educatori 
professionali lavorano nella direzione del raggiungimento 
dell’indipendenza, e non della nascita di un legame di 
dipendenza. 
 In questo lavoro si tenterà di delineare le potenzialità e i 
problemi che questo servizio ha, nel panorama degli interventi 
rivolti ai minori in difficoltà, mettendone in evidenza, in 
particolare, gli aspetti educativi. Si vuole qui affermare il ruolo 
integrato e non alternativo che esso ha nell’ambito degli 
interventi volti al reinserimento del minore nel contesto sociale. 
Verrà, innanzitutto, inquadrata la comunità come servizio 
socio-assistenziale, iniziando con un breve excursus storico in cui 
si metterà in evidenza il passaggio dagli istituti, con le loro 
caratteristiche di autoreferenzialità, estraneità del minore alle 
decisioni prese, spersonalizzazione e atemporalità dell’intervento, 
alle odierne comunità, per poi analizzare l’evoluzione del quadro 
normativo e dell’interesse del legislatore nei confronti della 
tematica dei minori in difficoltà. Verranno, poi, descritte le 
specificità odierne delle comunità per minori, come ad esempio la 
classificazione nelle varie tipologie e i requisiti minimi necessari 
per la loro costituzione. Mi soffermerò, quindi, sulle 
 4
caratteristiche degli utenti di questo servizio e sul percorso che 
essi compiono al suo interno, dall’ingresso alle dimissioni. 
(Capitolo 1) 
Nella parte centrale di questo scritto partirò dall’analisi del 
significato della progettazione educativa in una comunità per poi 
delineare le peculiarità pedagogiche del vivere in essa, attraverso 
una riflessione sulle regole e sul valore educativo che la 
quotidianità può avere. Concluderò questa seconda parte con la 
descrizione del ruolo dell’educatore professionale e della sua 
specificità nel contesto della comunità, che si esplica nel rapporto 
diretto con il minore ma anche con il contatto con il territorio e le 
famiglie di origine. (Capitolo 2) 
Nell’ultima parte mi occuperò di descrivere il percorso di 
deistituzionalizzazione previsto dalla legge 149 del 2001, 
secondo cui il ricovero in istituto doveva essere superato entro il 
31 dicembre 2006; si cercherà di mettere in luce le potenzialità e i 
problemi che questo processo ha creato, per poi passare ad 
illustrare le tendenze attuali nella gestione delle comunità e delle 
alternative all’inserimento in esse, intese in un’ottica di 
prevenzione globale. Si rifletterà, infine, sul lavoro educativo in 
comunità e sul ruolo dell’educatore, facendo emergere le 
difficoltà e i problemi che esso presenta oggi. (Capitolo 3) 
L’obiettivo è quello di dimostrare come le comunità per 
minori oggi possano assumere realmente un ruolo integrato tra le 
strategie attuabili, e non di realtà autonoma e a sé stante, come 
avveniva in passato per gli istituti. Le comunità, proprio in 
quanto riproducono una dimensione il più possibile vicina a 
 5
quella familiare, acquistano un senso non di alternatività alla 
famiglia di origine ma di passaggio, in vista di un reinserimento 
in essa o di un inserimento in un’altra realtà familiare, affidataria 
o adottiva. 
Proprio per questo si dice che oggi sono necessarie 
comunità che sappiano “mettere insieme il bello della comunità 
con il bello delle famiglie.”
3
 
Su questo sfondo si colloca la riflessione sulla 
professionalità dell’educatore, in quanto operatore che ha il 
compito di favorire l’instaurarsi di un clima familiare all’interno 
della struttura. Si vuole qui dimostrare la sua capacità di farsi 
carico del vissuto emotivo ed affettivo del minore, e di aiutarlo ad 
affrontarlo in maniera positiva; questo è reso possibile grazie ad 
un atteggiamento empatico, caldo, accogliente, con il quale 
accompagna il minore nel suo percorso di vita all’interno della 
comunità. 
Si vuole, in sostanza, trasmettere ai lettori un’immagine più 
umana ed accogliente della comunità rispetto a quella un po’ 
fredda e distaccata che spesso viene percepita al di fuori; in 
questa immagine si colloca la professionalità dell’operatore 
pedagogico, che non si pone in contrasto con il ‘maternage’, la 
dimensione emotivo-affettiva del ruolo genitoriale, ma ne diviene 
una diversa e valida espressione. 
 
                                                 
3
 C.N.D.A., I bambini e gli adolescenti negli istituti per minori. I risultati dell’indagine 
realizzata dal Centro nazionale di documentazione e analisi sull’infanzia e l’adolescenza, 
Quaderno n°33, Istituto degli Innocenti, Firenze 2004, p. 159. 
 6
CAPITOLO 1 
LA COMUNITÀ COME SERVIZIO 
SOCIO-ASSISTENZIALE 
 
 
 
1.1 Cenni storici 
 
La storia delle comunità per minori in Italia è legata a 
quella più generale dello sviluppo degli interventi e dei servizi 
sociali.  
La risposta ai bisogni dei minori in difficoltà è stata, fino al 
dopoguerra, di tipo esclusivamente assistenziale; ad occuparsi di 
essi erano gli istituti, gestiti prevalentemente dalla Chiesa.  
Gli istituti nascono e si sviluppano come strutture 
residenziali caratterizzate da ruoli gerarchici e con finalità di 
custodia e di controllo sociale del minore. Possono essere definiti 
come “luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, 
tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, 
si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte 
della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato.”
1
  
 
 
                                                 
1
 E. GOFFMAN, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, 
Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 29. 
 7
Erving Goffman individua una serie di caratteristiche 
relative ad essi: 
− la rottura delle barriere che separano normalmente le sfere del 
riposo, del lavoro e del divertimento; 
− la presenza di una stessa autorità per tutti gli aspetti della vita; 
− l’obbligo di fare tutti le stesse cose, secondo un ordine 
stabilito; 
− l’esistenza di un unico piano razionale, il cui fine è adempiere 
allo scopo dell’istituzione.
2
 
Il rispetto delle regole, la disciplina sono, dunque, gli 
obiettivi fondamentali di chi vive in istituto; non rimane spazio 
per lo sviluppo e l’espressione della propria personalità. Non vi è 
possibilità di relazionarsi con l’esterno, in quanto tutte le attività 
previste sono svolte nell’istituto, e non vi è nemmeno la 
possibilità di scegliere le attività, in quanto esse sono imposte dai 
responsabili. 
Dal dopoguerra in poi si è sviluppato un cambiamento nel 
tipo di risposta data ai bisogni dei minori in difficoltà; 
l’attenzione non era più esclusivamente ai bisogni di carattere 
assistenziale ma anche a quelli inerenti lo sviluppo della 
personalità del bambino.  
Già nel 1952 ne l’ Inchiesta parlamentare sulla miseria e 
sui mezzi per combatterla venivano messe in luce le pessime 
condizioni in cui vivevano i minori nei brefotrofi, e poi nelle 
successive Conferenze nazionali sui problemi dell’assistenza 
                                                 
2
 Ibidem, pp. 33-42. 
 8
pubblica dell’infanzia e dell’adolescenza emergeva l’esigenza di 
un servizio sociale di base che si occupasse di essi.
3
 
Nascono quindi le prime esperienze alternative all’istituto, i 
Focolari, strutture residenziali gestite dal Ministero di Grazia e 
Giustizia che ospitano piccoli gruppi di minori e che 
rappresentano un’alternativa al carcere. Rimangono, però, delle 
esperienze isolate, che finiscono per essere istituzionalizzate esse 
stesse. 
Il dibattito sull’istituzionalizzazione, però, non si ferma, ma 
anzi si alimenta di nuove importanti riflessioni, relative 
soprattutto all’importanza del nucleo familiare per lo sviluppo del 
minore. La “via istituzionale”,
4
 oggetto sempre più di critiche e 
discussioni, si pone al centro dei movimenti di contestazione 
degli anni ’60; in quegli anni si cominciavano a studiare gli 
effetti dannosi che la permanenza nell’ istituzione totale 
provocava sullo sviluppo psicofisico dei minori. Il dibattito si 
alimentava, dunque, di nuove riflessioni e posizioni.  
È nel corso degli anni ’70 che la necessità di forme 
alternative di risposta ai problemi dei minori in difficoltà si 
traduce in soluzioni concrete, le comunità. Nate sull’onda del 
cambiamento culturale generale di quegli anni, le comunità si 
caratterizzano come strutture residenziali non condizionate da 
regole predefinite e da gerarchie, ma flessibili nell’intervento e 
con uno stile il più possibile simile a quello di un nucleo 
                                                 
3
 Riferimenti storici tratti da C. GIRELLI, M. ACHILLE, Da istituto per minori a comunità 
educative. Un percorso pedagogico di deistituzionalizzazione, Erickson, Trento 2000, pp. 21-
34. 
4
 Ibidem, p. 29. 
 9
familiare. Sono strutture che accolgono un numero limitato di 
soggetti, non isolate ma anzi attente al contesto sociale in cui si 
trovano, ai rapporti con le famiglie d’origine, ecc. 
Si passa, dunque, da un’ottica di custodia e assistenza ad 
una di educazione e di attenzione allo sviluppo intellettivo e 
affettivo del bambino; mentre l’istituto si prefiggeva di risolvere i 
problemi del minore isolandolo dalla società, la comunità ha 
come scopo la sua restituzione alla società, il suo reinserimento. 
Gli istituti vengono, quindi, via via chiusi, o trasformati in 
comunità. Le prime esperienze comunitarie sono soprattutto di 
gruppi di volontariato, sulla scia del movimento anti-
istituzionale, che si sono poi tradotte in realtà più stabili e 
professionali. 
Oggi il dibattito è aperto a nuove forme di accoglienza dei 
minori, in quanto la comunità nella sua accezione classica in 
molti casi non rappresenta la soluzione migliore da adottare. 
Oltre alle alternative classiche, cioè affido e adozione, si parla 
attualmente, ad esempio, di reti di famiglie, o anche di famiglie 
professionali.
5
 Il dibattito intorno alla tematica dei minori in 
difficoltà, dunque, è tutt’altro che concluso. 
 
                                                 
5
 Cf. M. REGOSA, Istituti per minori. Chiusura o lifting?, in “Vita”, A. 14, 2007/5 (9 
Febbraio), pp. 4-5.