I Capitolo
Le sorelle nelle fiabe
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1.1 La Fiaba
Questo genere letterario viene definito: “Racconto fantastico, per lo più di origine
popolare, in cui agiscono esseri umani e creature provviste di poteri magici (maghi,
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fate, streghe, gnomi)”.
Le sue origini si perdono nella notte dei tempi, come quelle del suo stretto parente, il
mito, e proprio questo mistero ne promuoverà la riscoperta in epoca romantica.
Le fiabe hanno origine popolare, e la gente le ha tramandate oralmente per molti secoli,
finché i letterati se ne impossessarono traendone spunto per le prime fiabe d’autore.
La novella, poi il romanzo, sono i figli di questa forma letteraria, che con la sua
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essenziale “transgenicità” ha contaminato anche il cinema e le altre moderne modalità
di narrazione.
Le fiabe popolari erano considerate un divertimento per grandi e piccini, e
rappresentavano anche gli aspetti più crudeli della realtà: il "Pollicino" abbandonato nei
boschi, la "Cenerentola" segregata dalla matrigna e schiavizzata, la "Biancaneve" che
scappa e si rifugia nella foresta furono esempi realistici fino al XX secolo.
Le fiabe, approdate a corte per divertire i nobili, passarono alla forma scritta, e
divennero oggetto di raccolta e produzione da parte dei letterati; la prima di queste
opere si può considerare “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile, prodotto tra il
1634 ed il 1636, più tardi conosciuto come “Pentamerone”.
Con l’affermarsi di un approccio più razionale i tutti i campi della conoscenza, le fiabe
furono relegate nella nursery, considerate sciocchezze per bambini. Si credeva, infatti,
che l’uomo nella vita ripercorresse le tappe dell’evoluzione della civiltà, e i bambini,
analfabeti, erano considerati l’equivalente del popolo.
Verso la fine del 1600, scoppiò in Francia una moda denominata “Mode de fées” in cui,
negli ultimi trent’anni del suo regno, i racconti di fate invasero i salotti e la corte di
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Luigi XIV.
Fu proprio intorno al 1696 che Madame d’Aulnoy compose le sue prime fiabe e le fece
circolare nei salotti; nel 1697 furono pubblicati i primi tre volumi dei Contes de fées
(seguiti dai Contes nouveaux e da Les Fées à la mode).
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AAVV, I dizionari medi Garzanti Italiano, Garzanti UTET, 2004
11
Milena Bernardi, Infanzia e Fiaba, Bononia University Press, 2005
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Nicole Belmont, tr.it., Poetica della fiaba, Sellerio editore, Palermo, 2002.
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Mme d’Aulnoy indicava come fonte dei suoi racconti un vecchio schiavo arabo, ma le
sue storie provengono senza dubbio dalla tradizione orale, e il suo è più un lavoro di
trascrizione, che di composizione originale.
Sulla scia di Mme d’Aulnoy altre donne si dedicarono al genere fiabesco; ad esempio,
Mme de Beaumont, che fu una delle prime autrici di fiabe ad utilizzarle in parte come
veicolo d’istruzione morale per i fanciulli.
Nel febbraio del 1696 fu pubblicato un racconto dal titolo “La Belle au bois dormant”
ed appena un anno dopo Perrault pubblicò le “Histoires, ou contes du temps passé avec
des Moralitées”più tardi conosciuto con il titolo “Contes de ma mère l’Oye”.
Perrault aveva dedicato la sua opera esplicitamente ai bambini, diventando così uno dei
primi scrittori ad aver consacrato i propri sforzi verso la formazione di un genere
dedicato all’infanzia, ma il passo decisivo in tale direzione fu fatto in Germania da due
fratelli, Wilhelm e Jacob Grimm.
Seguendo il Romanticismo tedesco, essi sono alla ricerca della cultura unitaria e
originale del popolo germanico, che secondo lo spirito romantico del ritorno alle
origini, si può ritrovare nelle forme culturali più basse e popolari, come la fiaba.
La loro ricerca non dà gli esiti sperati, ma pubblicano ugualmente le fiabe raccolte e nel
1812 esce la prima edizione dei “Kinder und Hausmärchen”.
Seguendo il loro esempio, molti autori e letterati si mettono sulle tracce dei racconti
popolari, e pubblicano trascrizioni e composizioni, riscontrando forti analogie tra i
motivi fiabeschi.
Gli studi sulla fiaba, iniziati dai Grimm, cercano di far luce sulle sue origini, sulla
composizione, sui significati, con l’aiuto delle nuove scienze antropologiche: etnologia,
antropologia, psicologia.
Un importante passo avanti lo compie Propp, che scompone la fiaba secondo motivi e
azioni ricorrenti, e scopre tracce di antichi riti, come quello di passaggio all’età adulta:
secondo l’usanza primitiva, i giovani attraversavano prove per dimostrare il loro valore,
e morivano simbolicamente all’infanzia, a volte con sonni “magici”.
Questi riti, raccontati anche dopo che ne era scomparsa la pratica, sono sopravvissuti
nelle fiabe, con trasposizioni di significato, più che cronache esatte, per renderli attuali
e quindi comprensibili con il passare del tempo.
Non sorprende quindi l’interesse della psicologia analitica, che compie un’opera di
scavo archeologico nella psiche, verso lo strumento del racconto fiabesco, che si rivela
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molto efficace nell’uso terapeutico, soprattutto con i bambini, da sempre vicini a questo
genere.
Come afferma Bettelheim: “Un bambino si fida di quanto detto dalla fiaba, perché la
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visione del mondo della fiaba concorda con la sua”, sia per il linguaggio semplice, sia
per i contenuti.
La bambina si immedesima nella storia perché la situazione iniziale corrisponde alla
sua, o per lo meno al suo percepito emozionale, e la protagonista fa proprio quello che
farebbe lei, se potesse.
La fiaba le permette di sperimentare una vicenda che nella vita reale difficilmente si
avvererà, per fortuna, ma così vengono anche esorcizzate le emozioni ad essa connesse.
La bambina impara cosa succede ad una come lei, e a chiunque altro, che compia le
azioni descritte, che abbia le qualità elencate nel racconto, e si regola di conseguenza
nella vita reale.
La sua natura orale, rende la fiaba flessibile e disponibile al cambiamento, a seconda di
chi racconta, di chi ascolta, dei loro valori, dei loro scopi, portandosi dietro, così, i
tempi e le società che attraversa.
Molti autori hanno studiato le fiabe come se fossero codici da decifrare per arrivare a
significati nascosti o addirittura inconsci, ma è impossibile arrivare ad interpretazioni
definitive e categoriche, che spiegherebbero questa forma letteraria snaturandola.
Cercheremo, perciò, al suo interno i modelli femminili e le conseguenti relazioni fra
sorelle proposte, come se fossero suggerimenti di un sogno, probabilmente giusti e
sensati, ma ambigui ed opinabili.
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Bettelheim, B. (1976) Il mondo incantato, Universale Economica Feltrinelli – Saggi, 2006
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1.2 La rivalità tra sorelle e il rapporto con la madre
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Secondo le fiabe popolari, la posizione di nascita più infelice è quella della
primogenita di tre sorelle, la migliore quella di terzogenita.
La primogenita è una sorella maggiore, con tutti gli oneri, più che onori, che questo
ruolo familiare comporta, e in più è la prima a fallire il compito, quindi quella che
subisce più a lungo la punizione.
Nel filone di fiabe tradizionali dedicate alle sorelle, è la terzogenita ad essere la più
buona, bella, gentile, coraggiosa, e quindi quella vincitrice.
Fin dall’antichità il primogenito era il figlio preferito dai genitori, che gli lasciavano
tutto in eredità, per non disperdere il patrimonio familiare.
Ciò costituiva la maggior fonte di litigio, perché l’eredità era ottenuta solo in base
all’ordine di nascita, al destino.
Nella nostra società patriarcale, lo stesso discorso si faceva riguardo al matrimonio: se
c’era poca dote, la figlia maggiore si sposava con il miglior partito possibile, spesso
continuando l’attività di famiglia. Le minori, invece, potevano entrare in convento,
diventare dame di compagnia, istitutrici, oppure contrarre nozze di seconda, terza
categoria.
La figlia maggiore è quella su cui si concentrano maggiormente le aspettative dei
genitori, quella da cui si aspettano una maggior cura nella vecchiaia, e magari il
miglioramento delle condizioni socio-economiche.
I desideri e le fantasie di rivalsa delle figlie minori sono espressi nella maggior parte
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delle fiabe, delle quali la più famosa è “Cenerentola”.
La parte iniziale della storia racconta come la madre buona della protagonista muoia, e
sia sostituita da una donna crudele, con due figlie altrettanto malvagie, che la
costringono a fare i lavori più pesanti.
La figura della matrigna è stata inserita in molte fiabe per censurare e legittimare i
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sentimenti negativi verso la madre, individuati e descritti da Freud con il nome di
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Complesso Edipico.
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Faremo riferimento soprattutto alla raccolta dei fratelli Grimm
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Perrault, C. Le fiabe più belle, Euroclub, 1990
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Gli educatori del XIX secolo credono che le figure e azioni crudeli presenti nelle fiabe, possano
turbare i bambini, se non addirittura deviarli verso comportamenti violenti. Si censurano così le parti
sgradite alla cultura borghese, e si sfruttano i racconti per insegnare i valori della società dell’epoca.
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Freud, S. Opere, Universale Scientifica Boringhieri, Torino, 1975
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