Capitolo Primo 
	
  
	
  
	
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CAPITOLO PRIMO 
 
La crescita del bambino: un percorso ad ostacoli tra relazioni 
ed emozioni 
 
	
  
	
  
	
  
	
  
	
  
	
  
“L’uomo è per natura un essere sociale (…) è evidente che l’uomo sia un 
essere sociale più di ogni ape e più di ogni animale da gregge. Infatti, la 
natura non fa nulla, come diciamo, senza uno scopo: l’uomo è l’unico degli 
esseri viventi a possedere la parola; la voce, infatti, è il segno del dolore e del 
piacere, perché appartiene anche agli altri esseri viventi: la loro natura ha 
fatto progressi fino ad avere la sensazione del dolore e del piacere ed a 
manifestare agli altri tali sensazioni; la parola, invece, è in grado di mostrare 
l’utile ed il dannoso, come anche il giusto e l’ingiusto: questo, infatti, al 
contrario di tutti gli altri animali, è proprio degli uomini, avere la percezione 
del bene, del male, del giusto e dell’ingiusto e delle altre cose.” (Aristotele. 
Politica, 1252a)
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1. Dal bambino all’adulto	
  
 
 
La crescita dell’essere umano si compie e si perfeziona mantenendo e 
modificando il contatto con gli altri nel corso della vita; il bambino stesso 
cresce, effettua innumerevoli progressi dal punto di vista sociale, basti 
pensare alla dipendenza iniziale dal sostegno degli adulti, fino ad arrivare alla 
conquista dell’autonomia. Il pianto o le espressioni inizialmente capite solo 
dalla madre (o dalla figura di riferimento), si trasformano successivamente in 
espressioni comunicative che adottano un linguaggio condiviso e che vengono 
da tutti comprese. In altre parole il bambino si inserisce nella comunità 
sociale e questo gli consente di crescere e diventare competente, ma nessun 
essere umano deve imparare ad essere sociale, lo siamo fin dalla nascita: la 
capacità di stabilire legami interpersonali si basa, nel lattante (0-12 mesi), su 
una dotazione innata di comportamenti e disposizioni che favoriscono in chi 
gli sta vicino, adeguate risposte di protezione e di cura (Bowlby, 1979).	
  
Questo iniziale “training” è fondamentale per la costruzione dei legami 
successivi, che diventeranno importanti relazioni e che serviranno per lo 
sviluppo socio-cognitivo del “giovane umano”.	
  
	
  
2. Chi sono gli altri?	
  
 
	
  
Una risposta interessante è stata proposta da Urie Bronfenbrenner con la sua 
teoria dei “sistemi ecologici” (1979). Possiamo pensare al mondo sociale del 
bambino come ad una serie di scenari ambientali via, via più ampi. Al centro 
vi sono i contesti di interazione quotidiana (famiglia, scuola, parrocchia,
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gruppo degli amici..), chiamati “microsistemi”, in cui gli “altri” sono persone 
con cui il bambino ha a che fare e che riconosce come parte della sua vita.	
  
I “mesosistemi” sono scenari più vasti che includono le relazioni tra i 
microsistemi (scuola e famiglia, ad esempio).	
  
L’altro livello di analisi studiato da Bronfenbrenner è quello che coinvolge le 
interrelazioni tra la vita entro micro- e meso-sistemi da un lato, e vicende o 
situazioni ad essi esterne dall’altro. Ci sono poi, ancora più distanti e invisibili 
al bambino, ai suoi genitori ed educatori, altri personaggi che influenzano 
indirettamente il mondo infantile: il “macrosistema”, composto da uomini 
politici, economisti, amministratori che condizionano comunque la vita 
quotidiana insieme a valori della società e alle sue ideologie.	
  
Il bambino diventa gradualmente più consapevole dell’esistenza di questi 
ampi aspetti del mondo sociale e impara anche a rappresentare se stesso, gli 
altri, la sua esperienza in questi contesti citati (Bombi, Pinto, 2000).	
  
	
  
3. Cosa significa “stare con gli altri”? Interazioni, relazioni, emozioni	
  
 
	
  
Per rispondere a questa domanda bisogna definire la distinzione tra 
interazioni e relazioni (Hinde, 1985). Scambi conversazionali e atti non 
verbali (stringersi la mano, scostarsi per lasciare entrare qualcuno sul 
marciapiede, ricambiare un’occhiata) sono ottimi esempi di interazione; essa 
può essere anche molto semplice e limitata a due battute, come nell’esempio 
dei saluti, o complessa come in una discussione. La relazione (più 
precisamente relazione interpersonale o “faccia a faccia”), invece, riguarda 
situazioni di interazioni ripetute che danno vita ad una vera e propria storia. 
Ognuno di noi, infatti, crea un’individualità che è il risultato di una complessa 
mescolanza di elementi acquisiti attraverso il contatto con gli altri. I bambini
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stessi crescono proprio attraverso questi intrecci relazionali, diventano e 
imparano a vedersi come persone uniche e dotate di valore. 
Comprendere, ricostruire e analizzare le relazioni fondamentali nella vita di 
un bambino è piuttosto complesso, ma esistono alcune strategie che possono 
rendere più sciolta la verifica di esse anche da parte degli studiosi: resoconti 
di testimoni privilegiati, osservazione diretta del comportamento del bambino 
da parte del ricercatore, analisi del punto di vista infantile rilevato con diverse 
procedure. 
Nel primo caso i testimoni privilegiati sono solitamente i genitori che, 
attraverso dei resoconti diaristici, forniscono informazioni utili su situazioni 
non riproducibili in laboratorio; va annotato, tuttavia, che il loro racconto è 
spesso caratterizzato da deformazioni soggettive inevitabili. 
L’osservazione diretta del comportamento del bambino da parte del 
ricercatore è sicuramente un metodo che supera i limiti del precedente in 
quanto i fenomeni di interesse sono annotati nel modo più oggettivo possibile, 
utilizzando strumenti di video-registrazione o semplicemente carta e penna. 
Questo strumento appare molto indicato per lo studio delle prime fasi della 
socializzazione, fino agli anni della scuola elementare, ovvero quando il 
bambino ancora non ha affinato il linguaggio o incontra difficoltà notevoli 
nell’esplicitare il suo pensiero (Camaioni et al. 2001). 
Nella fanciullezza, però, guardare quello che il bambino fa, non basta più: 
idee e sentimenti divengono sempre più complessi. Per raccogliere 
informazioni sulla rappresentazione del mondo sociale, è necessario 
coinvolgere sempre più direttamente il bambino/ragazzo con metodi verbali 
(interviste aperte, temi da svolgere, questionari strutturati) e non (come il 
disegno, ad esempio). L’integrazione delle due tipologie metodologiche 
potrebbe superare alcuni limiti dei metodi verbali che risiedono 
nell’incapacità, da parte dei bambini più piccoli, di esplicitare il proprio 
pensiero.
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Riassumendo, per conoscere le relazioni sociali in cui il bambino è coinvolto, 
non è sufficiente osservare quello che fa, ma occorre comprendere anche cosa 
pensa e cosa sente in proposito. 
Molto legate allo sviluppo sociale sono le emozioni: da un lato, infatti, le 
relazioni che il bambino sperimenta concorrono a determinare la sua vita 
emotiva, dall’altro la capacità di comprendere i sentimenti propri e altrui ha 
un grande peso nel rapportarsi con gli altri. 
L’esperienza relazionale incide fortemente non solo sulla qualità e 
sull’intensità delle emozioni che si provano, ma anche sul modo con cui si 
giudica la vita; le emozioni guidano e promuovono rapporti con gli altri, li 
sostengono e li sospendono. Una relazione si definisce tale, anche in virtù 
delle emozioni e dei sentimenti che la contraddistinguono. 
L’importanza delle emozioni per la competenza relazionale è stata 
riconosciuta di recente anche dagli studiosi dello sviluppo sociale; spesso i 
bambini si mostrano competenti nell’avvertire il momento giusto per avanzare 
una richiesta, offrire una consolazione, evitare uno scontro; altre volte, 
invece, mostrano un’evidente mancanza di sensibilità al modo in cui l’altro si 
sente (Bombi, Pinto, 2000). Correlando la capacità di cogliere accuratamente i 
pensieri, i sentimenti e le emozioni altrui e lo status sociale di cui godono, si è 
concluso che i bambini, emotivamente più consapevoli, vengono anche 
considerati più adatti ad intraprendere attività di gioco cooperativo e ad 
entrare in gruppi sia familiari che meno familiari, rendendosi ben accetti 
(Bonino et al. 1998). Avere una competenza emotiva per un bambino vorrà 
dire, perciò, rendersi conto di provare un’emozione, saperla identificare 
correttamente, partecipare empaticamente alle emozioni degli altri (Anolli, 
1995).
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3.1 Riconoscere e rappresentare le emozioni 
 
 
Sin dall’età precoce (grazie alle primarie interazioni prevalentemente con la 
figura materna), i bambini riescono a produrre e riconoscere le espressioni 
facciali relative alle diverse emozioni, a reagire ad esse e ad integrarle con 
segnali diversi (gesti, posture, mimica), per arrivare quindi a valutare le 
emozioni di chi li circonda. Riconoscere e rappresentare un’emozione non 
sono, però, due attività equivalenti; la capacità di rappresentare le diverse 
esperienze emotive tramite le parole, le immagini o altri tipi di linguaggi 
simbolici assolve due funzioni: dal punto di vista interpersonale permette di 
comunicare agli altri le emozioni attraverso lo spazio e il tempo; dal punto di 
vista intrapsichico, invece, la possibilità di dar forma alle emozioni consente 
di elaborarle ulteriormente, di integrarne le manifestazioni nei diversi 
contesti, di confrontarle con le rappresentazioni altrui (Bombi, Pinto, 2000). 
Molto studiata è l’evoluzione della capacità di definire verbalmente le 
emozioni (Baumgartner, Devescovi, 1996), meno la capacità di rappresentarle 
pittoricamente. 
Risulta piuttosto rischioso interpretare le emozioni che possono esprimere i 
disegni infantili attraverso le scelte delle linee o dei colori (l’utilizzo di tinte 
vivaci da parte del bambino o la presenza di particolari elementi figurativi 
non sono sempre collegabili a un particolare stato d’animo); vi sono però 
alcuni indizi più oggettivi individuabili nei loro disegni: le mimiche emotive. 
I bambini, infatti, sono in grado di rappresentare su volti umani emozioni 
semplici quali allegria, tristezza, rabbia, paura, già a partire dai 4-5 anni, 
attraverso variazioni della bocca e degli occhi appositamente effettuate 
(Thomas, Silk, 1998). Essi sono inoltre in grado di illustrare le proprie 
manifestazioni emotive, situandole anche nei contesti interpersonali (Giani 
Gallino, 1990), ma le rappresentazioni delle circostanze determinanti le
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emozioni risultano maggiormente precise e ricche nei bambini più grandi, 
senza contare che in essi sono sicuramente più presenti emozioni complesse 
come orgoglio, vergogna, gelosia, gratitudine (Barone, Marchetti,1990). 
 
 
4. La crescita come susseguirsi di eventi normativi e non normativi: 
malattia e ospedalizzazione come eventi non normativi nella vita di un 
individuo 
 
 
Relazioni ed emozioni sono, quindi, aspetti presenti nella vita dell’individuo 
sin dalla nascita: dapprima con i genitori e i fratelli in famiglia, poi con i pari 
nei contesti extrafamiliari, scolastici ed extrascolastici, con i colleghi nei 
contesti lavorativi; con lo sviluppo diventa maggiore la consapevolezza dei 
sistemi valoriali, ideologici e culturali che determinano ed influenzano i vari 
legami. Il contesto sembra assumere molta importanza per la crescita: si 
distinguono influenze normative, a seconda dell’ età e della storia e influenze 
non normative (Baltes et al. 1980). Le prime sono rappresentate da mutamenti 
ai quali è impossibile sottrarsi: sono perciò facilmente prevedibili e 
condivisibili con la maggior parte degli individui. Le seconde, invece, sono 
rappresentate da cambiamenti che vengono sperimentati in modi particolari, 
in forme differenti o in determinati periodi, da un numero relativamente 
ristretto di persone. 
Lo sviluppo di un soggetto è sicuramente intriso di sfide e compiti che, se 
superati, portano alla crescita dell’individuo; i mutamenti non normativi però 
sorprendono l’individuo e lo portano ad organizzarsi con un maggior 
dispendio di energie. Nonostante ciò, gli eventi non normativi contengono un 
potenziale di crescita più alto.