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La convenzionalità suggerisce che un approccio multinazionale al marketing è totalmente 
irrealistico alla luce di quelle enormi differenze che tuttora esistono, e con tutta probabilità sempre 
esisteranno, tra le nazioni. George Weissman, presidente di Philip Morris, sosteneva che “finchè 
non creiamo un mondo unico e unito, non ha alcun senso parlare di marketing internazionale, 
solamente il marketing locale può esistere.” Secondo questo punto di vista la miglior strategia per 
un’impresa multinazionale sarebbe differenziare e la pianificazione strategica dovrebbe essere 
demandata al management locale di ciascun Paese coinvolto. 
Ma la risposta è davvero così semplice? 
La domanda che il top management di un’impresa alle soglie dell’internazionalizzazione 
deve porsi non è se implementare una strategia di standardizzazione del marketing o piuttosto una 
contestualizzazione dello stesso. La domanda è piuttosto quali elementi del marketing mix è più 
profittevole lasciare invariati e quali modificare allo scopo di raggiungere un efficiente equilibrio 
tra autonomia locale e coordinamento centrale. 
            In questo elaborato, ci si concentrerà su un aspetto particolare del marketing mix cioè quello 
delle strategie di comunicazione e si cercherà di dare una risposta ai numerosi interrogativi che 
un’impresa multinazionale si pone ogniqualvolta essa debba decidere di commercializzare uno 
stesso prodotto in Paesi diversi. 
Andando attraverso le principali minacce e opportunità che riguardano il business 
multinazionale, si prospetteranno diversi scenari strategici e se ne indagheranno le principali 
conseguenze in termini di volumi di vendite, costi e possibilità di crescita futura. 
 
A tal fine si è deciso di mutuare dall’economia industriale il noto paradigma struttura-
condotta-performance, riadattandolo alle specifiche di questa trattazione. Tale paradigma è uno 
schema generale di analisi dei sistemi economici e può essere esposto, nella sua versione originale 
come segue: la performance di un’impresa, cioè la sua prossimità ad una struttura ideale efficiente, 
può essere spiegata in modo analitico ed esauriente da due insiemi di variabili che sono, quelle 
relative alla struttura del contesto economico in cui l’impresa è immersa, e quelle relative alla 
condotta o comportamento della stessa
1
. Così procedendo, si proporrà, a conclusione dell’elaborato, 
il miglior approccio, secondo questo studio, alle decisioni riguardanti le strategie di comunicazione 
nelle imprese multinazionali. 
In particolare, nel capitolo dedicato alla “struttura” si prenderanno in esame analiticamente 
tre insiemi di variabili determinanti tale decisione strategica: le variabili locali, aziendali e 
                                                 
1
Nella versione originale, tale paradigma è riferito all’industria, cioè ad un insieme di imprese. Nella presente 
trattazione, esso verrà utilizzato in applicazione ad una singola impresa. 
 
 7
intrinseche
2
. Nel successivo capitolo relativo alla “condotta” si mostreranno le caratteristiche 
essenziali, vale a dire i benefici e gli svantaggi principali, dei due poli estremi strategici 
rispettivamente della standardizzazione-globalizzazione e dell’adattamento-localizzazione della 
comunicazione: verrà inoltre sottolineato come il principio sia quello di intendere i due poli, 
piuttosto che come alternative esclusive, come estremi di un continuum di strategie miste nelle quali 
il marchio e la pubblicità possono essere gestite secondo approcci opposti
3
. Nella realtà aziendale, 
non esistono, o non ancora, imprese integralmente globalizzate o integralmente localizzate: esistono 
imprese in cui centralizzazione e adattamento coesistono dando vita ad un equilibrio di successo. 
Nell’ultimo capitolo, quello concernente la “performance”, si presenteranno le principali 
conseguenze di business dei due diversi approcci: i risvolti finanziari, come le economie di costi e i 
volumi di vendita e i risvolti di marketing, come la forza del brand e la consapevolezza, familiarità, 
fiducia dei consumatori nel brand, saranno esaminati per comprendere se davvero esiste un 
approccio migliore. 
                                                 
2
“Standardization versus adaptation of international advertising strategies: towards a framework” Papavassiliou, 
Nikolaos, Stathakopoulos, Vlasis. European Juornal of Marketing. Bradford: 1997 Vol.13. 
  
3
“Brand globally but advertise locally? An empirical Investigation” Sandler, Shani. International Marketing Review, 
Vol.9, 1992. 
 8
 
STRUTTURA CONDOTTA PERFORMANCE 
 
1. LE 
VARIABILI 
LOCALI 
 
 
2. LE 
VARIABILI 
AZIENDALI 
 
 
3. LE 
VARIABILI 
INTRINSEC
HE 
 
        Standardizzazione/Globalizzazione 
 
 
 
 
continuum 
Contestualizzazione/Localizzazione 
 
 
RISVOLTI 
FINANZIARI: 
1.LE ECONOMIE DI 
COSTI 
2.I  VOLUMI DI 
VENDITA 
 
 
 
RISVOLTI DI 
MARKETING: 
LA FORZA DEL 
BRAND 
 
 
Il caso Procter&Gamble servirà a questo scopo. Analizzando brand specifici che, tra tutti 
quelli di cui la compagnia è proprietaria, sembrano i più significativi, si porterà un esempio di 
come, nella realtà di un’impresa multinazionale di successo, leader nel marketing, si affronta il 
dilemma della contestualizzazione/globalizzazione del brand.  
La gerarchica struttura organizzativa riflette una gerarchia anche nelle decisioni riguardanti 
le strategie di comunicazione da implementare. 
La P&G sceglie di creare alcuni brands identici in tutto il mondo (persino nei copy 
pubblicitari): in questo caso è la GBU- Global Business Unit a decidere (ce n’è una per ogni 
macroregione mondiale che, nel caso europeo, ha sede a Ginevra, Svizzera) .  
Per altri brands, tuttavia, essa sfrutta piuttosto il vantaggio della localizzazione: è l’MDO- 
Market Division Organization ad imporre le proprie specificità rispetto agli altri Paesi (l’MDO 
italiano ha sede a Roma). 
La decisione in Procter&Gamble sembra dipendere dalla tipologia di prodotto 
commercializzato e, in particolare, dal genere di valori e principi che questo rievoca nei 
consumatori: nel caso essi siano valori universali il prodotto può essere standardizzato o, 
perlomeno, può esserlo il messaggio veicolato dalla comunicazione; se, al contrario, essi sono 
 9
principi caratteristici di una particolare nazione, la strategia pubblicitaria dovrebbe riproporne gli 
aspetti essenziali tramite una comunicazione specifica e differenziata. 
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la P&G tende a costruire “concetti comunicativi” che 
possano valere universalmente, salvo poi tradurli in declinazioni differenti a seconda delle esigenze 
specifiche del contesto nel quale il concetto verrà veicolato. Il modo in cui questi concetti generali e 
universali vengano realizzati, verrà indagato in dettaglio. 
Il caso preso in esame serva a dimostrare che non esiste una scelta strategica di successo per 
le imprese multinazionali: le strategie di comunicazione adottate dipendono da un numero 
elevatissimo di variabili e di considerazioni strategiche.  
 
 10
 
CAPITOLO 1 
 
1. L’IMPRESA MULTINAZIONALE 
 
La teoria tradizionale sostiene che l’internazionalizzazione è un capitolo della teoria 
dell’espansione della grande impresa, la quale, in un primo momento si consolida nei mercati 
nazionali, in un secondo, via via che i confini si fanno troppo angusti rispetto alle necessità di 
crescita, decide di internazionalizzarsi. L’impresa, per così dire, finisce per tracimare oltre i confini 
nazionali solo all’apice del suo processo di sviluppo nazionale e lo fa attraverso iniziative che le 
permettano di mantenere il proprio vantaggio competitivo e la propria leadership sia entro gli 
originali confini che all’estero. 
In questa concezione, in cui l’impresa sembra quasi subire la legge biologica 
dell’evoluzione, si propende per una generalizzazione delle fasi di sviluppo che vanno dall’impresa 
nazionale, passando per l’impresa multidivisionale, per arrivare all’impresa multinazionale
4
. 
L’impresa multinazionale è l’impresa industriale di grandissime dimensioni, con unità 
produttive dislocate nelle diverse zone del mondo, governata da una struttura professionale (Vaccà e 
Rullani, 1983). 
Nonostante tale definizione sia associata, ed in qualche modo imprescindibilmente legata, ad 
un particolare periodo storico caratterizzato dalla supremazia delle grandi multinazionali americane, 
sembra comunque la più corretta da utilizzare. 
La ragione del fatto che siano state le imprese americane ad aprire la strada alla via della 
“multinazionalizzazione”, se si potesse dire, risiede nella supremazia politica ed economica degli 
Stati Uniti, forti delle rilevanti dimensioni del loro mercato interno: questa potenza sembrava 
portare ad una tendenziale unificazione del mercato mondiale sotto le stesse regole concorrenziali, e 
permetteva alle grandi imprese americane, detentrici della leadership tecnologica, di affermarsi 
come entità sovranzionali che organizzano la produzione e le vendite in forme che prescindono dai 
confini nazionali, ma riguardano il mercato mondiale prima che i singoli sistemi nazionali da cui 
essi originano. 
Con la progressiva apertura dei mercati, l’incremento della competizione internazionale e 
l’introduzione di nuove tecnologie e di nuove tecniche di management, anche nuove modalità 
strategiche si sono progressivamente affermate. 
                                                 
4
 Hymer e Rowthorn, “Multinational Corporations and International Oligopoly”, in Kindleberger (1970) 
 11
Secondo la nota teoria di Perlmutter (1969), gli orientamenti possibili dell’impresa nei 
confronti dell’internazionalizzazione sono quattro: l’impresa etnocentrica, policentrica, 
regiocentrica e geocentrica. 
Nella prima, la cultura del Paese d’origine e l’esperienza maturata in tale mercato dominano 
le scelte aziendali (home-country oriented), nella convinzione che la formula imprenditoriale 
sperimentata dal mercato interno possa essere replicata con successo nei mercati esteri, senza 
particolari adattamenti alle specificità locali. 
L’impresa regiocentrica è strutturata in unità locali estere che, pur mantenendo un elevato 
grado di autonomia, non agiscono individualmente ma nell’ambito di un sistema relazionale 
sviluppato dalla casa-madre sia a livello strategico che operativo. 
L’impresa geocentrica opera su scala planetaria, è retta da dirigenti la cui cultura non è 
strettamente identificabile con il Paese d’origine (world-oriented), agisce in modo sostanzialmente 
uniforme, con un’offerta standardizzata. 
L’impresa policentrica, invece, struttura la propria presenza all’estero attraverso unità locali 
autonome, ognuna finalizzata a conseguire il massimo adattamento rispetto alle realtà nazionali in 
cui è inserita (host-country oriented). L’orientamento policentrico, caratteristico delle cosiddette 
“imprese multinazionali” discende spesso dall’esistenza di una serie di condizioni, quali: 
l’eterogeneità dei bisogni della domanda presente nei vari Paesi, che richiede un processo di 
adattamento ai singoli contesti a propria volta conseguibile attraverso un decentramento delle 
responsabilità e dell’autonomia locale; le differenze nell’utilizzo delle strategie di marketing, che 
comporta l’adozione di politiche di posizionamento, di prezzo, di comunicazione e distribuzione 
coerenti rispetto alle peculiarità delle realtà locali; le disomogeneità strutturali degli ambienti 
competitivi locali; le specificità delle normative aziendali. Ognuna di queste variabili verrà 
ampiamente analizzata nell’ambito del secondo capitolo riguardante i fattori determinanti la scelta 
della strategia di comunicazione nell’impresa multinazionale. 
Il massimo adeguamento alle realtà dei diversi mercati locali, che costituisce per questo tipo 
di imprese la principale fonte di vantaggio competitivo, viene affiancata comunque ad 
un’integrazione tra le diverse aree di decentramento locale in modo da ottenere benefiche sinergie 
di coordinamento. L’impresa policentrica o multinazionale, dunque, concepisce le varie unità locali 
come una sorta di portafoglio di attività internazionali dotate di un significativo grado di 
indipendenza decisionale. In particolare, ogni unità svolge le attività primarie della catena del 
valore, il noto paradigma di Micheal Porter (1986), vale a dire le attività di logistica in entrata, 
attività produttiva, logistica in uscita, marketing e vendite, assistenza al cliente, mentre la gestione 
delle infrastrutture e dei servizi di supporto, la gestione delle risorse umane di posizione medio-alta,