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Introduzione: LIVING TOGETHER  
 
 
 
In una gentrificazione ormai quasi esaurita, in cui l’ambiente urbano non 
può più essere finanziato, in che modo le comunità artistiche semi-
anonime si organizzano e si accordano? Quali sono gli spazi e i tempi in 
cui operano queste comunità cyborg? 
 
Nel 2002 il sociologo americano Richard Florida denuncia un cambiamento 
dello statuto epistemologico della società, a partire da quello che tanti 
economisti hanno definito il passaggio dall’era industriale all’era post-industriale 
o neocapitalista. Seguendo le osservazioni di Florida sull’impatto a livello 
umano di questi cambiamenti, la stessa struttura interna della società ha subito 
delle trasformazioni, o per meglio dire si è auto-forgiata, adattandosi e allo 
stesso tempo creando le basi del nuovo stesso sistema. E come già nelle due 
precedenti rivoluzioni economiche, ciò che è cambiato è il rapporto di potere,
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tanto tra produttore e consumatore, quanto all’interno della stratificazione 
stessa del processo produttivo. Insieme ai credo neo-liberali post reaganiani, 
post sovietici, post democristiani del finire dei ‘90, l’implementazione del settore 
telematico e soprattutto la diffusione di internet, il dominio democratico del 
network, e tutte le illuminazioni intellettuali che sono seguite, hanno influenzato 
la nuova economia fin nel profondo dei suoi meccanismi più spontanei. La 
creatività, l’indipendenza, il lavoratore freelance, il libero professionista, il 
contratto a progetto, l’indipendenza e l’autocontrollo, l’investimento personale 
soggettivo sul dipendente, il far credere che l’immagine dell’azienda “sei tu 
stesso”, e non una macchina senza personalità, sono diventati i nuovi diktat del 
sistema produttivo. L’industria e l’uomo sono gli artefici complici del prodotto di 
consumo e della proposta del mercato, l’uomo massificato cede il passo alla 
personalità consapevole brandizzata in un processo che ha preso il nome di 
consumerismo. La libertà dell’individuo a 360° e in tutte le sue sfaccettature, 
mentale, intellettuale, politica, fisica, è l’orgoglio dell’uomo del nuovo millennio, 
cosciente della sua condizione naturale di macchina creativa, non succube ma 
fautore del meccanismo in cui vive, coscientemente globalizzato. 
Di lato ai soliti tipi umani che dalla rivoluzione industriale strutturano, creano e 
trainano il sistema economico capitalista, assistiamo all’entrata in scena di un 
nuovo gradino nella piramide produttiva, che diventa il traino, dopo la 
disponibilità economica, del successo della data “industria”: la classe creativa, 
le cui caratteristiche umane sono l’indipendenza, l’intraprendenza e soprattutto 
un certo spirito umanistico, una certa passione per le arti o un impegno 
culturale, dentro cui l’individuo creativo trova e sfrutta i credo per condurre il suo 
lavoro in maniera brillante, socialmente necessaria, politicamente corretta e con 
una sorta di spirito missionario nei confronti dell’umanità intera che non ha più 
bisogno della merce, quanto di soddisfazioni intellettuali, personali, emotive, 
emozionali.  
Tutto il mondo si impegna culturalmente, e il discorso su una produzione 
culturale di massa e una “arte alta” diventa inutile: è necessario che l’individuo, 
tanto quanto singolo, quanto cittadino, abbia una coscienza culturale e 
conseguentemente una personalità culturale, costruita sulle mostre che 
frequenti, sui dischi che compri, sui gruppi di lettura a cui partecipi. Entrati 
nell’era dell’accessibilità illimitata, il mondo intero, al suo stadio
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d’industrializzazione e produzione massiva accelerato contemporaneo, è 
impegnato a produrre arte e cultura, costantemente, in quanto il fine ultimo di 
ogni settore produttivo non è altro che l’accrescimento intellettuale e spirituale 
dell’individuo.  
Se dal finire degli anni ’80, fino agli inizi del 2000, con il clima entusiasta 
dell’economia fertile del periodo, ciò ha significato la nascita di un contesto 
cittadino frizzante, vivo, culturalmente attivo, alternativo e “vibrante”
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 per dirlo 
con Thomas Frank, in cui il sistema dell’arte sembrava essersi liberato di 
qualsiasi pressione e necessità borghese, gli eventi politici, economici e sociali 
dei primissimi anni del nuovo millennio hanno profondamente cambiato la 
società, prima a livello umano e solo come conseguenza nell’organizzazione 
economica. La crisi ha stroncato la possibilità delle politiche statali di crescita 
																																																								
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 Riporto qui interamente i passi più significativi di Dead End on Shakin’ Street, 
articolo-essay di Thomas Frank scritto per il suo magazine The Baffler il 20 
Luglio 2012.   
 
“My hometown is vibrant. Its status as such is certified, official, stamped on both 
sides. […] 
 
Your hometown is probably vibrant, too. Every city is either vibrant these days 
or is working on a plan to attain vibrancy soon. The reason is simple: a city isn’t 
successful—isn’t even a city, really—unless it can lay claim to being “vibrant.” 
[…] 
 
Vibrancy is so universally desirable, so totemic in its powers, that even though 
we aren’t sure what the word means, we know the quality it designates must be 
cultivated. The vibrant, we believe, is what makes certain cities flourish. The 
absence of vibrancy, by contrast, is what allows the diseases of depopulation 
and blight to set in. […] 
 
Specifically, vibrancy transforms communities by making them more 
prosperous. ArtPlace says its goal is not merely to promote the arts but to 
“transform economic development in America,” a project that is straightforward 
and obvious if you accept the organization’s slogan: “Art creates vibrancy and 
increases economic opportunity.” […] 
 
fortunate to live in a vibrant community in which creativity flourishes in every 
season.” […] 
 
The vibrations are just as stimulating in the component parts of this exciting new 
civilization. The people of creative-land use vibrant apps to check their bank 
accounts, chew on vegetarian “vibrancy bars,” talk to one another on vibrant 
cellphones, and drive around in cars painted “vibrant white.” […]”
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culturale, i finanziamenti per attività di qualunque sorta e le iniziative private che 
erano fiorite negli anni precedenti. Il nuovo millennio ha innegabilmente sofferto 
per carburare, appropriarsi di una propria identità, di una propria struttura 
funzionante, di una propria visione collettiva. Nella loro prima mezza dozzina, 
gli anni 2000 non sono stati che lo scenario di lotte generazionali tra i baby 
boomers e il loro ormai impossibile spirito pioneristico, avanguardista, 
confidente nei confronti del sistema economico, quelli che furono i fautori del 
consumerismo, politicamente e intellettualmente emancipati, con una fiducia 
cieca nei confronti di se’ stessi, della loro forza in quanto gruppo e della 
“possibilità” di fare, e i loro figli della generazione X, promesse di un futuro 
radioso e inarrestabile quanto alla loro propensione alla tecnologia, ma 
sedentari e socialmente disimpegnati.  
La mercificazione del dissenso promulgato dai gruppi controculturali a partire 
dagli anni ’70, che è una delle strategie del “nuovo capitalismo creativo” dei 
baby boomers, descritto da Thomas Frank, ha determinato, nell’uomo preda 
allo stato d’animo post-bolla economica e post- 11/09 (evento chiave per la 
nascita di un nuovo sentimento di collettivizzazione e di presa di coscienza del 
pericolo di un gruppo anti-sistemico), un rifiuto nei confronti delle identificazioni 
culturali o di genere, cosicché ogni subcultura, movimento o gruppo politico 
(Black Bloc-5 stelle), tendenza artistica, nata dopo il 2006 credeva e crede 
nell’ibrido come valore sociale, nella de-identificazione in un sistema di 
valori, nell’ annullamento dell’identità e dell’immagine, al fine di emanciparle 
dalla loro stessa usurpazione da parte del capitale e di divenire parte di quel 
sistema fondato sul “random e qualunque”, riflessione di persone in spazi e 
luoghi, del processo deumanizzante di pluralismo e collettivizzazione, che porta 
alla consapevolezza di essere tutti intercambiabili e di non essere mai speciali.  
Prima, la vibracy di Thomas Frank consisteva nel sentirsi “speciale”, in un 
processo di identificazione fisica e identitaria, in una strutturazione consapevole 
di un ambiente sociale, in una costruzione di una personalità dell’ambiente 
urbano e cittadino che ospita la stessa società vibrante. Nel corso dei ‘90 il 
libero mercato insieme alla libera economia dell’internet hanno determinato un 
modo di sentirsi individuo basato sulla promessa di ubiquità, di onnipresenza e 
onnipotenza, così come un sentirsi cittadino e essere umano come parte di un 
corpo olistico. L’idea e la necessità di differenziarsi dal sistema centrale
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dominante perde di senso dietro la grande macchina ultraterrena che ingloba e 
scrive la storia di ogni singolo essere umano tramite una narrazione di 
reciproche interrelazioni. La classe creativa dei baby boomers che ha 
determinato, riscritto e rivoluzionato l’assetto sociale e urbano della società 
degli anni 80-90 era una entità presente concreta e visibile per il suo 
rappresentare la controcultura. Al contrario, la classe creativa X, quella nativa 
digitale, è quella che presa dal suo tecnologismo ha eluso la materializzazione 
di ogni esperienza e ha operato e vissuto solo come entità all’interno del web, 
tracciando i limiti di quel momento storico-artistico inscrivibile sotto l’usurpata 
definizione Net Art durante il quale tuttavia il meccanismo di circolazione della 
cultura ha subito un ritorno ad una sorta di elitarismo per i pochi capaci di 
penetrare il tessuto di un determinato network. Le opere d’arte prodotte 
secondo i criteri del manifesto Net non possono accompagnare quelle che 
erano le dinamiche vibranti della loft society, poiché i progetti artistici e la 
crescita culturale non aveva bisogno di alcun sostegno o politica di supporto 
per esistere. All’interno del quadro della Net Art assisistiamo ad una sorta di 
medioevo dell’industria culturale.  
Tuttavia, l’eredità di quelli che furono i credo dell’Hacker Manifesto, è una 
comune affezione per la “libertà”, per l’open source dell’informazione, per 
l’indipendenza e allo stesso tempo l’interdipendenza, come il primo grande 
valore della struttura sociale del XXI secolo.  
“Uno è tutti” è il credo e la forza delle vittime della bolla economica e dei gruppi 
anti-sistemici.  
Se, a partire dagli anni ’80, la prima rivoluzione socio-culturale della fase 
neocapitalista coincide con il sorgere della nuova classe creativa e il 
conseguente processo di gentrificazione urbana e collettivismo, superato il 
momento della cieca tecnocrazia in cui i membri della classe creativa 
rifiutavano di identificarsi in essa, assistiamo ad un ri-sorgere di un nuovo tipo 
di classe creativa, né più interessata allo scontro con l’istituzione e quindi 
all’identificarsi in un dissenso, né più impegnata solo nella sperimentazione 
digitale a scopo innovativo. L’industria creativa del 2000 non ha più la forza 
economica dei 20 anni precedenti né lo stesso impegno sociale riposto 
nell’idealizzazione tecnologica e nella mitizzazione del sistema online visto 
come un Dio da alimentare per lo sviluppo del genere umano.
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La vibracy non si è arrestata. È solo diventata più povera. E più autoctona 
dell’internet.  
Le comunità artistiche tornano ad esistere e a spingere per una identificazione 
di branco, per un riconoscersi all’interno di strutture definite e di caratteristiche,  
estetiche, similitudini. Ormai fuori dal processo di gentrificazione già consolidato 
e che non fa altro che procedere sui suoi stessi passi e seguendo le medesime 
logiche osservate nel corso degli anni 80, ciò che si apre con la digitalizzazione 
sono nuove radicali possibilità di matrice molto più umanamente 
epistemologiche che politiche: un nuovo re-immaginare criticamente 
l’autorialità, un nuovo regime di proprietà, un nuovo senso di collettività, la 
consapevolezza di una democraticizzazione economica, all’interno di un 
sistema freepotista o duty-free, oltre che il sorgere di nuove necessità 
intellettuali, emancipate dal “collegismo” e dalla necessità di un sapere 
scolastico disciplinato e fondato su dottrine, e invece volto a affrontare e entrare 
nelle maglie delle larghe questioni e problematiche che sono alla base della 
comprensione della contemporaneità in genere.   
 
Quelle che si stanno definendo, la storia che si sta scrivendo, sono scene di 
una nuova Âge d’or digitale. Quello che è cambiato dalla gentrificazione degli 
’80 alla neo-gentrificazione del post- 2000, è che il processo descritto da Florida 
di luminosa nascita di un gruppo di individui creativi forte e riconosciuto, 
consiste in dei mutamenti della struttura sociale nel rapporto urbano, cittadino e 
quotidiano tra gli individui. 
Dal 2000 il sistema sociale organico postindustriale è diventato piuttosto un 
polimorfo sistema di informazioni: la necessità è diventata diffondere e far 
circolare dati all’interno della vita nella cittadinanza algoritmica.
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SULLA METODOLOGIA 
	
Un’analisi archeologica: scene dalla nuova Âge d’Or digitale 
 
“We are moving from an organic industrial society to a polymorphous, 
information system” 
 “By the late twentieth century, our time, a mythic time, we are all chimeras, 
theorized and fabricated hybrids of machine and organism. In short we are 
cyborgs. The cyborg is our onthology, it gives us our politics.”. 
Donna Haraway, A Cyborg Manifesto, 1984 
 
 
Come disegnare una archeologia di una produzione culturale in hyperdrive? 
Come segnare delle tracce in un mondo molecolare e allo stesso tempo retto 
da leggi spazio-temporali contingenti e unificanti? Quali sono le ontologie 
identificabili dietro l’infinita e ultraterrena produzione di visualità che per la 
prima volta nella storia non può scappare dall’essere archiviata? Di fronte a 
questa inconcepibile, inclassificabile e innumerabile collezione, quali sono le 
linee guida fondamentali per tracciare uno storico culturale? Se viviamo in 
quello che non è più una società umana ma un insieme di sistemi in flux, come 
fare per vedere la traccia di una struttura epistemologica unica della società? 
 
Questo testo vuole spargere il verbo della necessità di osservare i processi 
culturali odierni tramite l’osservazione dei Dispositivi Dominanti che li 
determinano. La produzione culturale di questi ultimi 17 anni non è classificabile 
tramite gli artefatti che la popolano. Il già noto pictorial turn di Mitchell neo-
millenario ha determinato la fine definitiva di un approccio disciplinare di tipo 
storico, in qualsiasi ambito. In un’epoca irrinunciabilmente costantemente 
archiviata, un’operazione di catalogazione ordinata delle sue stesse produzioni, 
che già esistono nella loro eterna forma di riproduzione, è superflua quanto 
impossibile. Ogni rappresentazione esiste in quanto se’ stessa e in quanto 
citazione visuale. Ogni immagine è un link, una parte della grande unità