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linguaggio ovvero su quali sono i processi che permettono ad un 
bambino di imparare a produrre e a comprendere la sua lingua. In altre 
parole essi si sono interessati ai processi cognitivi implicati nell’uso del 
linguaggio. 
     Il termine “linguaggio” può riferirsi alle diverse lingue parlate nel 
mondo come il francese, il tedesco ecc. oppure viene utilizzato per 
definire il linguaggio umano in generale. Quel che rende unico e diverso 
il linguaggio rispetto ad altri sistemi comunicativi  esistenti è la presenza 
di due proprietà: la creatività e l’arbitrarietà. 
     La “creatività linguistica” ci permette di produrre e comprendere una 
quantità infinita di messaggi combinando fra loro un numero finito di 
fonemi e di parole. Inoltre consente, a noi, di creare parole nuove per 
designare concetti nuovi congiungendo parole o parti di esse già presenti 
nella lingua. 
     Nel linguaggio  la relazione tra i suoni e i loro significati è arbitraria 
ovvero non si può ricavare il significato di una parola dalla forma del 
suono. Pertanto la relazione tra suono e significato deve essere appresa e 
trasmessa culturalmente. Imparare a parlare è un processo molto 
complesso. Tuttavia esso si verifica con grande rapidità. Un bambino che 
impara a parlare deve comprendere il significato delle parole, 
individuare le regole della sua lingua al fine di formare delle frasi 
corrette per poter comunicare con i suoi simili, ed infine produrre frasi 
mai sentite prima. 
     Alla domanda, come fa un bambino ad imparare la sua lingua in un 
tempo così breve rispetto alla complessità dell’intero processo, sono 
state date diverse risposte ognuna delle quali fa riferimento ad una 
prospettiva teorica ben precisa. 
     Per prima cosa esponiamo i due punti di vista più estremi, quello 
innatista di Chomsky e quello comportamentista di Skinner.  
     Il primo ipotizza l’esistenza di un programma biologico ossia di un 
meccanismo innato che permette al bambino di individuare le regole 
grammaticali della sua lingua. Il linguaggio, secondo Chomsky (1965), è 
un sistema complesso caratterizzato da un insieme di regole, che il 
bambino dovrà scoprire. Quindi, per Chomsky, l’acquisizione del 
linguaggio corrisponde ad un processo di verifica delle ipotesi che un 
bambino si è fatto circa le regole grammaticali della sua lingua.    
     Il secondo modo di spiegare il processo di acquisizione del linguaggio 
utilizza il modello comportamentista del condizionamento operante. 
Secondo Skinner (1957) il bambino impara a parlare per imitazione e 
attraverso gli insegnamenti degli adulti che gli forniscono continui 
rinforzi. Quindi è l’ambiente esterno che “plasma” e “modella” le loro 
espressioni  in modo da renderle sempre più simili a quelle degli adulti. 
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     Oltre a queste due prospettive antagoniste vi è quella  “cognitiva” di 
Piaget (1946), il quale sottolinea la centralità dello sviluppo cognitivo 
rifiutando il punto di vista secondo cui la capacità del bambino di 
acquisire il linguaggio deriva da strutture innate, specificatamente 
linguistiche. Secondo Piaget il linguaggio non è un sistema autonomo 
rispetto alle capacità logiche di pensiero ma deriva proprio da queste. Un 
prerequisito per l’acquisizione del linguaggio è il raggiungimento del 
livello cognitivo della “rappresentazione”, più precisamente alla fine 
dello stadio sensomotorio. Infatti il linguaggio fa la sua prima 
apparizione  quando questo primo stadio dello sviluppo sta per 
terminare. Il linguaggio è uno dei molti aspetti che fanno parte di un 
particolare stadio della struttura cognitiva sottostante. Ad esempio, la 
funzione simbolica comprende: il linguaggio (inteso come prime parole), 
il gioco simbolico (il gioco del far finta di) e l’imitazione differita. 
Pertanto si può notare come il linguaggio sia  solo una delle varie 
manifestazioni della funzione simbolica (Piaget 1946; Bloom 1970). 
     In ultimo esponiamo il punto di vista di Bruner (1975a e 1975b). 
Questo autore non ha escluso l’esistenza di una componente innata del 
linguaggio ma tuttavia egli pensa che questa debba essere attivata 
dall’esterno attraverso gli scambi comunicativi quotidiani con gli adulti, 
il più delle volte la madre. E’ per mezzo degli scambi sociali che nel 
bambino vengono attivate le capacità linguistiche innate. Bruner mise in 
evidenza il ruolo fondamentale che ha l’ambiente sociale e familiare nel 
processo di acquisizione del linguaggio (nel paragrafo 1.5. la sua 
posizione verrà spiegata più in dettaglio). 
     Ognuna delle posizioni fin qui descritte ha influenzato gli studi sul 
linguaggio.  Le ricerche che fanno riferimento alla concezione innatista 
tendono ad analizzare i vari tipi di abilità linguistica. In particolare 
durante gli anni ’60 le ricerche subirono l’influenza della posizione di 
Chomsky secondo cui l’acquisizione del linguaggio si basa 
sull’apprendimento di regole sintattiche. Le prime ricerche utilizzarono 
una procedura che consisteva nel registrare campioni di discorsi 
spontanei dei bambini  per individuarne i modi in cui venivano costruite 
le espressioni verbali. Successivamente i ricercatori hanno cercato di 
stabilire quali fossero le regole utilizzate dai bambini. L’esistenza di un 
dispositivo innato implica l’universalità delle regole sviluppate dai 
bambini nel corso dell’acquisizione del linguaggio. Infatti le ricerche  
condotte da Braine (1963) e Brown (1973) sulla grammatica del 
linguaggio precoce cercarono di individuare le regole universali. Questi 
studi, però, si erano concentrati sugli aspetti sintattici del linguaggio 
tralasciando quelli semantici e pragmatici.  
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     Con l’inizio degli anni ’70 il focus dell’interesse si spostò dalla 
sintassi alla semantica. Bloom (1970) osservò che descrivere e conoscere 
la struttura sintattica del linguaggio precoce non basta per spiegare e 
capire un processo complesso come quello dell’acquisizione del 
linguaggio. Secondo la Bloom gli studi condotti durante gli anni ’60 
hanno ignorato l’aspetto semantico del linguaggio essendo esso veicolo 
di significati. Infatti le ricerche condotte nella prima metà degli anni’ 70 
registravano tutto ciò che un bambino diceva e contemporaneamente 
veniva osservato quel che accadeva intorno a lui. Le informazioni 
ricavate dal contesto servivano ad attribuire un significato alle 
espressioni formulate dal bambino. Un bambino con un’espressione di 
due parole intende esprimere qualcosa che va interpretato in relazione al 
contesto in cui viene prodotta. 
     Nella seconda metà degli anni ’70 l’attenzione degli studiosi del 
linguaggio si pose sugli aspetti pragmatici di esso. Hymes (1971) 
distinse la nozione di competenza linguistica da quella di competenza 
comunicativa. La prima si riferisce alla conoscenza del codice linguistico 
mentre la seconda consiste nella capacità che ha un individuo di 
conversare modificando i discorsi a seconda degli interlocutori. Gli studi 
fatti in questi anni si concentrarono sulla competenza comunicativa dei 
bambini. Pertanto le ricerche evidenziarono una continuità fra la fase che 
precede la comparsa del linguaggio e il suo emergere successivo. Infatti 
vennero rilevate diverse funzioni e intenzioni comunicative espresse dal 
bambino già nella fase prelinguistica.  
     Il linguaggio è un sistema complesso formato da una serie di aspetti: 
fonologico,  morfologico,  semantico, sintattico ed infine pragmatico. 
Nel cercare di capire come avviene il processo di acquisizione del 
linguaggio bisogna tener conto di tutti questi aspetti messi insieme 
poichè è dalla loro integrazione che si struttura il linguaggio. 
 
1.2.  Le prime fasi dello sviluppo lessicale  
 
     Il lessico, attualmente, viene definito come un insieme di 
rappresentazioni, cioè di oggetti mentali che corrispondono ad elementi 
della realtà di cui riflettono certe caratteristiche rilevanti, e di processi 
che si applicano a queste rappresentazioni operando su di esse 
(Laudanna e Burani, 1993). Gli studi che si sono occupati dello sviluppo 
del lessico nel bambino sono essenzialmente di due tipi. Il primo tipo è 
rappresentato dagli studi diaristici che utilizzano il metodo osservativo 
per raccogliere i dati. Il bambino viene osservato nel suo ambiente 
familiare e seguito longitudinalmente, per tracciare le fasi e le modalità 
del primo sviluppo linguistico. Gli studi diaristici sono stati molto utili, 
 5
per mettere in evidenza le tappe di sviluppo universali, identiche in tutti i 
bambini indipendentemente dalle diverse lingue e culture di 
appartenenza. Quelle che utilizzano questo metodo sono ricerche su casi 
singoli, quindi diviene difficile generalizzare i risultati. 
     Il secondo tipo di studi tenta di tracciare le linee generali dello 
sviluppo  del linguaggio utilizzando metodi indiretti di osservazione. 
Essi rivelano e misurano lo sviluppo comunicativo e linguistico 
attraverso la somministrazione di questionari  ai genitori dei bambini.  
Uno dei questionari più utilizzati negli studi sullo sviluppo delle 
competenze lessicali e di quelle morfosintattiche è il MacArthur 
Comunicative Development  Inventory.  
     In Italia è stato costruito e ideato un questionario simile, per rilevare 
e/o misurare lo sviluppo comunicativo e linguistico nei bambini italiani. 
Si chiama “Il primo vocabolario del bambino” di Caselli e Casadio 
(1995) ed è formato da due schede:  “Gesti e parole” per raccogliere 
informazioni su bambini di età compresa fra gli 8 e i 17 mesi, e “Parole e 
frasi “ per quelli tra i 18 e i 30 mesi. La fascia di età tra gli 8 e i 17 mesi 
è caratterizzata dalle prime intenzioni comunicative che il bambino 
esprime con i gesti quali il mostrare, il dare e l’indicare utilizzati per 
denominare e far richiesta. Questo tipo di gesti vengono chiamati gesti 
comunicativi intenzionali deittici. La fascia di età che va dagli 8 ai 17 
mesi appartiene, prevalentemente, alla fase prelinguistica che precede la 
comparsa delle prime parole. Successivamente compare un secondo tipo 
di gesti detti comunicativi intenzionali referenziali come ad esempio 
ciao, non c’è più, telefonare ecc. Rispetto al primo tipo di gesti in quelli 
referenziali il referente non è dato dal contesto in cui la comunicazione 
ha luogo. Il contenuto semantico da loro espresso non varia in funzione 
del contesto. Per questo aspetto i gesti referenziali “somigliano” alle 
parole. E’ stato riscontrato che esiste una continuità fra comunicazione 
gestuale e vocale mettendo, così, in crisi la visione secondo la quale la 
comparsa delle prime parole coincide con la nascita del linguaggio 
(Bruner, 1975b; Camaioni, 1978). Pertanto nello studiare lo sviluppo del 
vocabolario nelle prime fasi di vita occorre prendere in considerazione 
sia le parole che i gesti. Esiste, infatti, una precisa corrispondenza fra le 
parole comprese e i gesti usati dal bambino. Fino ai 18-20 mesi, nel 
bambino prevale la tendenza ad usare i gesti piuttosto che le parole 
dopodichè a poco a poco nel bambino comincia a prevalere la modalità 
vocale su quella gestuale. In genere intorno ai 17-18 mesi il numero di 
parole comprese risulta essere maggiore rispetto al numero di parole 
prodotte. Inoltre non sembra esistere un rapporto proporzionalmente 
diretto tra il numero di parole comprese e prodotte. Alcuni bambini, 
infatti, comprendono un numero elevato di parole (200-300) e ne 
producono invece molto poche (ad es. 10), altri al contrario 
 6
comprendono un numero di parole relativamente basso (100) ma ne 
producono un numero proporzionalmente alto (50). Quindi il numero di 
parole comprese ad una determinata età non sono sempre collegate al 
numero di parole prodotte. Alcuni studi, però, hanno messo in luce 
l’esistenza di una forte correlazione fra la comprensione di parole in una 
fase dello sviluppo e la produzione di parole nelle fasi successive 
(Caselli e Casadio, 1995). Il fatto che la comprensione di parole predica 
l’ampiezza del vocabolario prodotto nelle età successive, suggerisce che 
le due abilità, quella del comprendere e del produrre, siano indipendenti 
fra loro solo apparentemente o nella fase in questione (18-20 mesi). In 
realtà esse sono collegate fra loro pur avendo ritmi di sviluppo diversi 
(Caselli e Casadio, 1995). In genere le parole che vengono più 
facilmente comprese e prodotte fra gli 8 e i 18 mesi sono i nomi di 
persona, di oggetti, i versi degli animali e le routine. Successivamente, 
tra i 19 e i 24 mesi, il numero di parole prodotte  dal bambino comincia 
ad aumentare vorticosamente tanto da far parlare di una  esplosione del 
vocabolario. Il bambino in questa fase scopre che tutte le cose hanno un 
nome, e anche i genitori notano che i loro figli hanno sempre meno 
bisogno di sollecitazioni per produrre parole. L’esplosione del 
vocabolario è un fenomeno molto discusso, perché può manifestarsi in 
tempi e fasi di sviluppo che variano da individuo a individuo. Perciò non 
si può considerare l’esplosione del vocabolario come una tappa 
obbligatoria e universale. Ad esempio alcuni bambini acquisiscono il 
lessico in modo molto graduale senza presentare alcuna brusca 
accelerazione. 
     Inizialmente le prime parole vengono comprese e usate in una singola 
situazione comunicativa e verso specifiche entità. Le parole, poi, 
vengono accumulate in un magazzino del lessico. L’esplosione o 
l’espansione del vocabolario può avvenire solo dopo che il bambino 
abbia usato e immagazzinato una certa quantità di parole che supera la 
soglia minima al di là della quale si ha un apprendimento automatico e 
continuo di nuove parole. Inoltre la scoperta che a ciascuna cosa va dato 
un nome fa sì che il bambino possa classificare un gruppo di cose nelle 
loro rispettive categorie di nomi e quindi a comprendere che tutte le cose 
fanno parte di categorie (Gopnik e Meltzoff, 1987). 
     Secondo Nelson e Horgan (1981) le differenze nell’andamento di 
acquisizione del linguaggio possono essere identificate nel rapporto che 
intercorre tra velocità di apprendimento e differenze di stile di 
apprendimento. I due studiosi hanno rilevato l’esistenza di una relazione 
positiva tra la velocità di acquisizione e l’enfasi sui sostantivi in bambini 
di lingua inglese.   
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     Nelson (1973) notò che alcuni bambini erano più interessati al mondo 
degli oggetti ed all’importanza di nominarli, mentre altri erano più 
orientati verso il mondo sociale e utilizzavano il linguaggio per 
esprimere sentimenti e bisogni. Il primo gruppo di bambini fu chiamato 
referenziale e il secondo espressivo. Seguendo longitudinalmente i due 
gruppi, rispettivamente con stile referenziale ed espressivo, Nelson trovò 
che lo sviluppo del vocabolario dei bambini referenziali era più rapido 
mentre  il gruppo di bambini con stile espressivo presentava uno 
sviluppo più rapido sul piano sintattico. La maggior parte dei bambini 
presenta uno stile misto fra quello referenziale ed espressivo. Rari sono 
quei bambini che hanno uno stile ben definito tra questi due. Una ricerca 
di Camaioni e Longobardi (1995) su 15 bambini italiani ha rilevato che 
solo un numero ridotto di questi bambini usa uno stile chiaramente 
definibile come “referenziale” o “espressivo”. La maggior parte dei 
bambini presenta uno stile che comprende entrambi  questi due stili. In 
questa ricerca, lo stile referenziale è stato definito sulla base della 
presenza di almeno il 40% di sostantivi prodotti rispetto al totale mentre 
lo stile espressivo è stato definito in base al 40% di pronomi e nomi 
propri. Confrontando la composizione del vocabolario dei bambini più 
veloci e di quelli più lenti nell’apprendimento, si è notato che i bambini 
precoci producevano molti più sostantivi, verbi e articoli rispetto a quelli 
più lenti. Sono necessarie ulteriori ricerche per identificare meglio i 
fattori che influiscono sulle prime strategie di acquisizione del 
vocabolario. 
 
1.3. Lessico e abilità morfosintattiche 
 
     I bambini, intorno ai 18 mesi, utilizzano la stessa parola per più 
referenti. Questo fenomeno è detto della sovraestensione del significato. 
Infatti il bambino usa brum per riferirsi a tutti i veicoli o pappa per tutti i 
cibi. Diviene quindi difficile collocare il primo lessico all’interno di 
categorie grammaticali e semantiche rigide. L’adulto, interagendo con il 
bambino, attribuisce alla parola lo status di “nome” o “verbo” a seconda 
dell’uso che ne fa il bambino in contesti diversi. Questo periodo è detto 
“olofrastico” perché il bambino usa una parola per designare il 
significato che altrimenti sarebbe espresso da una intera frase. L’adulto 
aggiunge e completa l’enunciato del bambino. Dore (1975)  analizzò le 
espressioni di una singola parola prodotte dal bambino in termini di atti 
linguistici primitivi. Un atto linguistico primitivo è definito come un 
enunciato la cui forma consiste in una sola parola o in un singolo 
modello prosodico che ha la funzione di trasmettere l’intenzione del 
bambino prima che egli abbia acquisito la capacità di produrre frasi. Il 
 8
bambino pur pronunciando una sola parola alla volta esprime a livello 
comunicativo un contenuto semantico grazie anche all’aiuto di gesti di 
vario tipo e facendo riferimento a tutto ciò che riguarda il contesto 
situazionale e linguistico. Una stessa parola può esprimere così diversi 
significati di “frasi” anche molto diverse fra loro.   
     Esiste una continuità  fra il lessico e la morfologia e fra il lessico e la 
capacità di produrre frasi? Molti studiosi hanno sostenuto che i processi 
di acquisizione che guidano lo sviluppo di domini diversi, come ad 
esempio quello fonologico e lessicale, sono regolati  da meccanismi 
distinti rispetto a quelli che governano lo sviluppo delle abilità 
morfosintattiche (Fodor, 1983; Roeper, 1987). Altri studi, al contrario, 
hanno riscontrato l’esistenza di una continuità fra le tappe raggiunte dai 
bambini nel dominio lessicale ed in quello morfosintattico (Locke, 1979; 
Bortolini, 1993; Dromi, 1993). Recentemente da una ricerca di Bates e 
Marchman (1994) è emerso  che esiste una correlazione tra lo sviluppo 
lessicale e morfologico in bambini di lingua inglese; più in particolare 
fra l’ampiezza del vocabolario e l’emergere della morfologia verbale. 
Anche i dati di ricerche su bambini italiani confermano che durante lo 
sviluppo cresce l’espansione del lessico, la capacità di formare frasi ed 
aumentano le competenze morfologiche. Ad esempio, i dati di una 
ricerca di Caselli e Casadio (1993) sostengono che la produzione di 
parole, a 14 mesi di età, sia collegata alla capacità di comprensione e di 
produzione a 20 mesi e che vi sia una relazione fra ampiezza del 
vocabolario, la conoscenza di parole (comprese) con funzione 
grammaticale e sviluppo della capacità combinatoriale. Quest’ultima 
consiste nella capacità da parte del bambino di produrre enunciati di due 
o più parole. Le prime combinazioni di parole compaiono stabilmente 
nel 45% circa dei bambini di 22-24 mesi e nel 85% circa dei bambini di 
28-30 mesi (Caselli e Casadio, 1995). La capacità di combinare insieme 
più parole fra loro viene acquisita dal bambino quando il suo vocabolario 
è di almeno 100 parole. Si tratta di una soglia al di là della quale il 
bambino incomincia a produrre le prime “frasi”.   
 
1.4. Il linguaggio rivolto ai bambini  
 
     Analizzare il linguaggio che gli adulti utilizzano quando si rivolgono 
ai loro bambini è un modo per saperne di più sul processo di 
acquisizione del linguaggio. I risultati di molte ricerche documentano 
che l’input linguistico rivolto ai bambini predice il loro sviluppo 
semantico e sintattico. Le ricerche che risalgono agli anni ‘70 sull’input 
linguistico hanno studiato il cosiddetto Baby Talk evidenziandone gli 
aspetti prosodici caratteristici come il tono alto e i contorni intonazionali 
 9
“esagerati” (Blount, Padgug, 1977). Inoltre vennero raccolti dati sul tipo 
di lessico usato con i bambini piccoli e molti ricercatori pensarono che le 
parole usate nel Baby Talk potevano essere analizzate come forme 
semplificate di parole adulte (Ferguson, 1977). Ci si è interessati al 
linguaggio che viene rivolto ai bambini per cercare di sapere quanto di 
questo linguaggio va a far parte del lessico dei bambini, considerandone 
gli aspetti sintattici e semantici, più che quelli lessicali e fonologici. 
Secondo la Snow, visto che  non sono solo le madri a parlare in maniera 
particolare ai bambini ma tutti gli adulti, ha preferito usare l’espressione 
“ linguaggio rivolto ai bambini “ (Child Directed Speech, CDS) anziché 
Baby talk e Motherese. 
     Gli studi sul linguaggio rivolto ai bambini sono stati fatti per 
rispondere alle affermazioni di Chomsky, secondo il quale, il linguaggio 
a cui sono esposti i bambini è complesso, pieno di errori e di frasi non 
complete; pertanto il linguaggio viene acquisito grazie ad un dispositivo 
innato e non per mezzo delle influenze ambientali. 
     Uno degli studi più noti fu condotto da Snow (1972) la quale concluse 
che, a differenza di quanto affermò Chomsky, ai bambini non vengono 
presentate frasi complesse e sgrammaticate ma al contrario il linguaggio 
a loro rivolto è costituito da  frasi organizzate, semplificate e ridondanti. 
I bambini ricevono, quindi, una base ideale per l’apprendimento del 
linguaggio. In un secondo momento, Snow pose l’attenzione sui fattori 
che inducono le madri ad usare questo linguaggio specifico. L’autrice 
sostiene che i fattori che influenzano le madri siano due: il feedback 
proveniente dal bambino e le aspettative che la ha madre circa le 
capacità che ha il suo bambino di comunicare con lei. Inoltre Snow notò 
che una caratteristica saliente del linguaggio materno è la riduzione della 
lunghezza media dell’enunciato. Le frasi sono semplici perché vi è un 
uso minore di proposizioni subordinate e di verbi composti e di enunciati 
senza verbo. In una frase semplice è molto probabile che il soggetto ed il 
verbo, i quali sono in relazione, si susseguano uno dopo l’altro. In questo 
modo il bambino arriva a scoprire la regola soggetto-verbo-oggetto più 
facilmente. In effetti il lavoro che il bambino compie, nel ricercare le 
principali unità di una frase, viene facilitato data la minor quantità di 
unità da elaborare. Il fatto che le madri ripetano più volte una stessa 
frase, fornisce al bambino più tempo per elaborare l’input offrendogli la 
possibilità di fare attenzione alle costruzioni e alla struttura sintagmatica 
degli enunciati ascoltati. Gli adattamenti attuati dalle madri sono 
collegati al livello di comprensione del bambino. Infatti è stato 
dimostrato che gli adulti accorciano le loro frasi dopo che le  risposte  
del bambino ne hanno indicato una mancanza di comprensione. Il 
bambino, da parte sua, per mezzo delle abilità di comprensione, filtra gli 
input che superano un certo livello di difficoltà ossia che diventano 
 10
complessi per lui. Quindi il linguaggio che gli adulti rivolgono ai 
bambini viene adattato al loro livello di comprensione. Il modello 
conversazionale spiega le caratteristiche del linguaggio rivolto ai 
bambini e come questo favorisce lo sviluppo del linguaggio. Il contenuto 
del CDS è costituito da frasi di tempo presente e commenti su ciò che 
accade o su cosa sta facendo il bambino. In genere le madri fanno 
osservazioni, pongono domande su come vengono chiamati gli oggetti, 
sul rumore che fanno, sul loro colore, sulle azioni in cui sono coinvolti, 
su chi li possiede, sulla loro collocazione. Molte espressioni materne 
sono costituite da espansioni. Le espansioni sono espressioni complete e 
corrette che completano le espressioni telegrafiche dei bambini. In 
definitiva, le espansioni forniscono informazioni per una realizzazione 
corretta e completa di ciò che il bambino vuole dire (Cross, 1978; Wells, 
1978). Anche il fornire delle estensioni semantiche, che aggiungono 
nuove informazioni a ciò che ha detto il bambino, hanno un effetto 
facilitante, più delle semplici espansioni (Cross, 1978; Barnes, 1983). 
Cross (1978) e Barnes (1983) hanno trovato che la percentuale di 
espressioni materne, collegate semanticamente alle precedenti 
espressioni infantili, è un indice per predire lo sviluppo delle abilità 
linguistiche nel bambino.  
      In sintesi il linguaggio che le madri usano quando si rivolgono ai loro 
bambini, è formato da espansioni, richieste di chiarificazione, domande 
che riguardano la realtà circostante e l’attività di gioco del bambino. 
Uno studio ha messo in luce che, oltre agli adulti e alle madri, anche i 
bambini di 4-5 anni usano un linguaggio piuttosto semplice e ridondante 
quando si rivolgono a bambini tra 2 anni (Shatz e Gelman, 1973). Il 
bambino, quindi riceve comunque un input particolare e semplice, sia 
che a lui si rivolga, durante una conversazione, un adulto, la madre o un 
fratello maggiore. Contemporaneamente un’altra serie di studi verificò 
che i bambini hanno un ruolo attivo nel selezionare le frasi che ascoltano 
(Shipley, Gleitman e Smith, 1969; Snow 1972). Infatti emerse che, tra le 
frasi pronunciate dall’adulto, il bambino prestava più attenzione a quelle 
che cominciavano con una parola a lui più familiare che non a quelle che 
cominciavano con una parola non familiare. Pertanto si può dire che, da 
un lato, gli adulti semplificano il linguaggio che inviano ai loro bambini 
e dall’altro questi ultimi selezionano attivamente l’input ricevuto. 
     I bambini vengono esposti, ogni giorno, ad un insieme di parole molte 
delle quali potrebbero essere aggiunte nel loro vocabolario. Alcune di 
queste parole vengono ascoltate più frequentemente di altre. Ad esempio 
fra i termini più ascoltati vi sono quelli che designano i colori degli 
oggetti, i quali, vanno a far parte del lessico del bambino. 
 11
     Quasi quotidianamente i genitori richiamano l’attenzione dei loro figli 
sui colori degli oggetti. Recentemente Gleason e Ely (1997), esaminando 
le produzioni spontanee dei bambini (25-62 mesi) durante le 
conversazioni con i loro genitori, hanno trovato che il nome dei colori 
acquisiti dai bambini sono esattamente quelli usati ed enfatizzati dai loro 
genitori. Inoltre questi due autori hanno disconfermato l’esistenza di un 
ordine universale di acquisizione dei termini che designo i colori 
proposta da Berlin e Kay (1969),  i quali sostenevano che  il bianco e il 
nero fossero i nomi dei colori più usati e che venissero acquisiti per 
primi rispetto agli altri colori. Secondo i dati ottenuti da Gleason e Ely il 
nome dei colori usati più di frequente e acquisiti prima di altri, sia dai 
genitori che dai bambini, sono il rosso e il blu.  
     Esistono diversi modi in cui gli adulti si rivolgono ed interagiscono 
con i propri figli. Diversi studiosi si sono chiesti se queste differenze 
nello stile di interazione tra adulto e bambino possano influenzare il 
ritmo di sviluppo del linguaggio. Cross (1978) provò a svolgere un 
confronto fra un gruppo di bambini (19-33 mesi) che presentavano un 
processo di sviluppo del linguaggio accelerato e un altro gruppo che 
presentava, invece, uno sviluppo normale. Cross scoprì che il primo 
gruppo di bambini era il più esposto ad un linguaggio che si adattava al 
loro livello linguistico, quindi al loro livello di comprensione. Le madri 
di questi bambini, infatti, adattavano il loro linguaggio regolandosi 
continuamente sul livello di comprensione del proprio bambino. Quindi i 
bambini che fanno progressi rapidi sono proprio quelli che ricevono una 
maggior quantità di espressioni che sono contingenti alle loro espressioni 
precedentemente prodotte. Come abbiamo già accennato all’inizio  di 
questo paragrafo, la maggior parte delle espressioni che un bambino 
riceve sono costituite da imitazioni, espansioni ed  estensioni.  
     L’importanza delle risposte estese a un argomento espresso dal 
bambino è stata sottolineata da una ricerca della Howe (1980). Anche 
questa autrice si interessò agli effetti, sullo sviluppo del linguaggio, 
dovuti a diversi modelli di conversazione. 
     Nella sua ricerca i bambini avevano un’età compresa fra i 20 e i 22 
mesi e si trovavano tutti ad uno stesso livello di sviluppo. Furono 
videoregistrate le interazioni madre-bambino dalle quali l’autrice rilevò 
l’esistenza di diversi modi che avevano le madri di rivolgersi ai loro 
bambini per iniziare una conversazione. Alcune madri rispondevano ai 
commenti dei bambini, usando raramente richieste di informazione per 
iniziare la conversazione; altre, viceversa, iniziavano uno scambio di 
conversazione chiedendo un’informazione al bambino, mentre raramente 
fornivano risposte estese ai suoi commenti; altre infine, presentavano 
entrambi gli aspetti degli altri due gruppi. I bambini di questo ultimo 
 12
gruppo presentavano dei progressi maggiori rispetto agli altri due gruppi. 
La Howe concluse che questi bambini hanno potuto trarre maggior 
beneficio, dalla richiesta di informazione e dalle risposte estese ai loro 
commenti messi insieme.  
     Mc Donald e Pien (1982), analizzando il linguaggio che 11 madri 
rivolgevano ai loro bambini di età 2-3 anni (in termini di intenzione 
interattiva delle madri), trovarono che le madri avevano principalmente 
due modi di rivolgersi ad essi: in un caso la madre tendeva a controllare 
il comportamento del bambino, mentre nell’altro aveva un atteggiamento 
interattivo. Questi autori, in base ai dati che hanno ottenuto, hanno 
concluso che quel che facilita lo sviluppo linguistico nel bambino è il 
modo delle madri che hanno interesse a stimolare la conversazione 
anziché operare un controllo su di essa. 
A facilitare lo sviluppo linguistico dei bambini è lo stile di quelle madri 
il cui scopo è di elicitare la conversazione. 
     Un’altra importante ricerca è stata fatta da Ellis e Wells (1980). I dati 
da loro ottenuti rivelano che i bambini, il cui sviluppo linguistico si 
manifesta precoce e  rapido, ricevono maggiori riconoscimenti delle loro 
espressioni verbali nonchè più istruzioni e più domande. I riconoscimenti 
forniscono, al bambino, un feedback su ciò che hanno detto e, allo stesso 
tempo, sono un rinforzo. Le istruzioni, date ai bambini, si riferiscono agli 
oggetti circostanti o alle azioni in cui adulto e bambino sono coinvolti. 
Inoltre gli adulti fanno domande al proprio bambino circa quello che sta 
facendo. Pertanto gli autori di questa ricerca hanno concluso che i 
riconoscimenti, le istruzioni e le domande incidono sul ritmo di sviluppo 
del linguaggio di un bambino, favorendolo. 
 
1.5. Contesto e ambiente sociale nel processo di acquisizione 
del  linguaggio 
 
     Durante gli anni ’60, data l’influenza del  paradigma chomskiano, il 
contesto era inteso sia come contesto linguistico (ciò che dice il parlante 
prima e dopo un enunciato e ciò che dicono gli interlocutori) che come 
contesto extra-linguistico (ciò che accade nell’ambiente fisico in 
concomitanza con l’emissione di un dato enunciato). Successivamente, 
in seguito agli studi che hanno verificato empiricamente le proposte 
teoriche di Chomsky, si è fatta strada la consapevolezza che il significato 
di una frase è ampiamente determinato dal contesto in cui essa viene 
usata. Dall’inizio degli anni ’70 in poi gli studi sul linguaggio hanno 
cominciato a dare grande importanza al contesto inteso come luogo in 
 13
cui adulto e bambino instaurano un’attenzione condivisa
1
; quindi il 
contesto diviene sinonimo di interazione sociale. L’attenzione condivisa 
Pertanto il linguaggio non è stato più studiato e analizzato come 
fenomeno intraindividuale e intrapsichico ma come fenomeno 
interindividuale e interattivo. L’acquisizione del linguaggio implica una 
relazione tra il sistema linguistico e il mondo. Il linguaggio viene 
appreso principalmente attraverso l’interazione sociale. 
     Bruner sostiene che le relazioni sociali sono la vera radice dello 
sviluppo cognitivo e linguistico. Secondo questo autore il linguaggio, 
così come l’apprendimento degli schemi sensomotori, viene acquisito 
all’interno di un contesto sociale familiare, strutturato dall’adulto. 
Questo contesto strutturato viene da lui chiamato formato. Un formato è 
una situazione di interazione  abituale e ripetuta in cui l’adulto e il 
bambino fanno delle cose l’uno all’altro e con l’altro (Bruner, 1987). 
Tramite i formati si creano delle routine attraverso le quali il bambino 
acquisisce le funzioni pragmatiche del linguaggio e impara ad usare il  
linguaggio in modo rappresentativo e simbolico, grazie alla condivisione 
e convenzionalizzazione dei significati. Inoltre i formati inseriscono le 
intenzioni comunicative del bambino in una matrice culturale. Quindi 
essi sono strumenti per trasmettere la cultura e il relativo linguaggio. 
Nella prospettiva teorica di Bruner viene dato un ruolo significativo alla 
figura dell’adulto nel favorire lo sviluppo delle capacità linguistiche nel 
bambino. Infatti secondo l’autore il linguaggio viene appreso dal 
bambino soprattutto nel corso dell’interazione e dell’attività ludica con la 
madre. La madre interpretando il comportamento del suo bambino ne 
struttura le intenzioni. E’, in genere, la madre  colei che dirige 
l’attenzione del suo bambino e attribuisce intenzioni alle azioni che il 
piccolo mette in atto
2
. Man mano che il bambino intraprende un’azione 
comune con la propria madre acquisisce non solo la lingua, ma le regole 
e le convenzioni sociali.  
     Fra  le tante situazioni di routine che si presentano durante il giorno 
occupano una posizione di rilievo le conversazioni fra adulto e bambino 
che avvengono durante l’ora dei pasti. Molti autori ritengono che le 
conversazioni in famiglia durante il pranzo o la cena favoriscono 
l’acquisizione di nuove parole e di forme linguistiche convenzionali nel 
bambino (Gleason e Ely, 1997; Beals, 1997). Durante il pranzo e la cena, 
infatti, adulto e bambino interagiscono conversando ad esempio di un 
evento del giorno oppure raccontando delle storie. Si tratta di un contesto 
interattivo nel quale il bambino impara il significato di nuove parole. 
                                                 
1
 Per la nozione di attenzione condivisa vedi Vygotskij Piaget, Bruner Concezioni dello sviluppo, a 
cura di Olga Liverta Sempio, 1998 (pag.276)  
2
 Per ulteriori informazioni su Bruner vedi Il bambino segno simbolo e parola di Anolli e Scurati (pag. 
55-57) 
 14
     Beals e Smith (1992) hanno analizzato le conversazioni spontanee 
durante i pasti di 31 famiglie (età dei bambini 3 anni). La maggior parte  
di queste conversazioni verteva su racconti ed inoltre i genitori davano 
un gran quantità di spiegazioni ai loro bambini. Pertanto le conversazioni 
durante i pasti possono essere considerate un contesto strutturato dato 
che l’adulto fornisce il supporto necessario per l’acquisizione di parole 
ancora sconosciute al bambino. I bambini, però, sono capaci di imparare 
dalle otto alle dieci parole al giorno anche senza alcuna istruzione diretta 
sul loro significato da parte dell’adulto. Infatti talvolta i bambini 
acquisiscono il senso di una nuova parola tramite una sola esposizione. 
Secondo Rice (1990) i bambini apprendono il significato di nuove parole 
da un’esposizione incidentale di queste ultime per mezzo di prerequisiti 
cognitivi, quali la rappresentazione, e di un processo che l’autrice 
chiama Quick Incidental Learning (QUIL), che significa appunto veloce 
apprendimento incidentale. Questo processo comprende diversi compiti 
cognitivi che un bambino mette in atto: segmentazione del discorso per 
l’identificazione  
di nuove parole, rappresentarsi un possibile referente della nuova parola, 
confrontare e adattare gli elementi lessicali al referente della 
rappresentazione ed infine immagazzinare la parola nella memoria 
semantica per poterla riutilizzare successivamente. Non va tralasciato il 
fatto che questo apprendimento incidentale si svolge in un contesto, 
inteso come scambio interattivo, il quale fornisce al bambino una 
comprensione parziale del significato della parola da acquisire. Durante i 
primi anni di vita il linguaggio del bambino è molto legato al contesto in 
cui hanno luogo gli scambi comunicativi. Gradualmente durante lo 
sviluppo riesce a far uso di un linguaggio sempre più decontestualizzato, 
che gli consente di comunicare e  parlare di oggetti, persone e azioni non 
presenti in quel particolare momento.  
     Dal momento che l’organizzazione formale del linguaggio e i 
significati e gli scopi che essa soddisfa nella comunicazione sono appresi 
principalmente attraverso l’interazione sociale, è evidente che, nella 
misura in cui questa varia da un gruppo sociale all’altro, ci sarà una 
variabilità nel linguaggio infantile che può essere collegata 
all’appartenenza ad un gruppo (Wells, 1991). Per appartenenza ad un 
gruppo sociale si intende lo status socioeconomico o la classe sociale in 
cui un bambino è inserito dalla nascita. Vi sono, infatti, molti studi che 
documentano la presenza di differenze significative presenti nel processo 
di sviluppo del linguaggio in bambini che provengono da classi di livello 
culturale diverso. Il vocabolario è l’aspetto che più precocemente viene 
influenzato dalle condizioni socio-ambientali. La conoscenza del 
vocabolario è l’area linguistica più connessa con le capacità cognitive e 
che risulta essere sensibile, durante il suo sviluppo, alle variazioni 
 15
dell’ambiente sociale.  Ad esempio i bambini che appartengono ad una 
classe di livello socioeconomico basso presentano uno sviluppo del 
vocabolario inferiore rispetto a quelli che appartengono ad un livello 
sociale più elevato (Anolli e Scurati, 1987).   
     Una spiegazione a questo fu data da Bernstein (1961) il quale 
sostenne che i bambini di livello socioeconomico basso presentano 
difficoltà perchè esposti ad un codice linguistico ristretto. Questo autore 
introdusse il concetto di codice linguistico distinto in codice ristretto e 
codice elaborato, per descrivere i diversi stili comunicativi ai quali 
venivano esposti i bambini  sia di classe media che di classe medio-
bassa. Il codice ristretto venne descritto, dall’autore, come un linguaggio 
che rimaneva molto ancorato al contesto, nel quale i significati venivano 
lasciati impliciti ed i concetti complessi e astratti spesso non sono 
espressi. I bambini di classe socioeconomica bassa incontrano rilevanti 
difficoltà nel processo di scolarizzazione rispetto ai bambini di classe  
media. Questo, secondo Bernstein, è dovuto ad una carenza o deficit 
esistente nella cultura dei bambini di livello basso. Così l’autore 
concluse che il codice ristretto non favorisce l’elaborazione di un 
pensiero logico e astratto. Questa posizione venne messa in discussione 
da Labov (1965) il quale, in una ricerca volta ad analizzare l’inglese 
utilizzato da persone di colore, appartenenti a comunità statunitensi 
emarginate, rifiutò la supposta superiorità dell’inglese convenzionale per 
concludere che, l’inglese usato dai bambini di classi subalterne non è un 
linguaggio meno sviluppato rispetto a quello utilizzato dalle classi 
medie, semplicemente se ne differenzia perché dotato di un sistema di 
regole proprio. Bisogna considerare, però, che la posizione di Labov, 
rispetto a quella di Bernstein non tenne conto del rapporto tra forme 
linguistiche e processi cognitivi. Pertanto le ricerche di Labov non 
invalidano la tesi di Bernstein secondo la quale l’impiego di un codice 
ristretto non favorisce l’accesso ad un pensiero astratto ed elaborato. 
     Successivamente sono stati fatti altri studi che hanno indagato sulla 
relazione tra sviluppo cognitivo e capacità linguistiche in contesti 
svantaggiati. In particolare Picone e Pinto (1986) hanno valutato 
ampiamente gli aspetti e i livelli dell’intelligenza trovando che 
l’elemento discriminante tra le classi sociali è il fattore verbale delle 
prove intellettive. Infatti, le differenze esistenti fra i soggetti di classe  
proletaria e quelli di classe medio-alta, risultavano essere nulle o 
modeste nelle  prove intellettive che non contengono prove verbali come 
ad esempio, le Matrici Progressive di Raven e la scala di performance 
del test WISC-R, mentre invece, erano presenti delle differenze proprio 
in quelle prove che contenevano qualche implicazione linguistica. Dato 
che nelle consegne delle prove operative non si può prescindere da una 
 16
formulazione verbale i soggetti di classe proletaria presentavano 
difficoltà a livello semantico e questo ostacolava la comprensione 
dell’intero problema da risolvere. Ciò spiega perché i soggetti di questa 
classe presentano curve di sviluppo operatorie più lente rispetto ai loro 
coetanei di classe medio-alta. In sintesi il potenziale cognitivo dei 
bambini di classe proletaria incontra serie difficoltà che hanno 
ripercussioni sui tempi evolutivi. I risultati delle ricerche fin qui riportati 
dimostrano quanto sullo sviluppo del linguaggio, nonché su quello delle 
capacità cognitive in genere, influisca il fatto che un bambino sia inserito 
e cresca in un  contesto sociale e culturale anziché un altro.