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influenzano la qualità del ricordo: dal tempo impiegato per la memorizzazione, all’impegno e 
all’attenzione dedicatavi, fino all’uso consapevole e sistematico di strategie. Con l’età, infine, il 
bambino concepisce sempre più chiaramente il tipo di rapporto tra le dimensioni emotivo-
motivazionale e cognitiva (Cornoldi, 1995).  
Un'altra area di ricerca molto interessante è relativa agli studi sulla teoria delle mente, per cui 
sembra che esistano una serie di comportamenti che rappresentano antecedenti precoci dello 
sviluppo di idee sulla mente (come realtà separata e indipendente da quella dell’ambiente fisico). Si 
pensi ad esempio alla comprensione della finalizzazione dell’azione, presente già a 9 mesi, alla 
capacità di interpretare la realtà in senso narrativo, acquisita tramite l’interazione diadica con chi si 
prende cura del lattante, o ancora all’emergere del gioco simbolico (3-4 anni), che presuppone nel 
bambino l’utilizzo di segni (oggetti o eventi) che sostituiscono elementi reali. Queste modalità di 
interazione con l’ambiente rappresentano tappe importanti per l’acquisizione della differenziazione 
tra realtà fisica e mentale, e per il decentramento emotivo e cognitivo, in base a cui il bambino 
arriva a comprendere che le altre persone possono avere emozioni e credenze diverse dalle proprie 
(Cornoldi, 1995).  
Per quanto riguarda l’attenzione, invero, ricerche condotte sul tema da Moniga, Cornoldi e 
Vianello (1995), hanno evidenziato la presenza di idee relative già a 4 anni. I bambini a questa età 
credono che stare attenti significhi obbedire agli adulti, e sanno che non è possibile eseguire 
efficacemente due ordini. Verso i 7-8 anni, essi cominciano a rendersi conto che stare attenti 
dipende sia da fattori esterni (come l’assenza di rumori) che interni (pensieri distraenti, benessere 
psicofisico), e sono consapevoli del ruolo che la motivazione e l’impegno hanno sulla 
concentrazione (Marzocchi, Molin e Poli, 2000). 
Il rapporto tra metacognizione e motivazione risulta centrale per capire come ragazzi 
intelligenti, dotati di competenze e abilità di base ben sviluppate, non applichino le strategie per 
apprendere efficacemente, pur conoscendole. Secondo Borkowski e Muthukrishna, non è sufficiente 
conoscere il valore del comportamento strategico: è necessario che tale conoscenza sia collegata ad 
elevate aspettative di successo nei compiti cognitivi, perché una sorta di carica energetica spinga ad 
affrontare tali richieste, oltre che a considerare stimolanti attività nuove e difficili. In pratica, 
l’individuo non deve provare un timore eccessivo di fallire, e nel suo percorso scolastico, non 
dovrebbe aver interiorizzato l’idea che l’insuccesso è la testimonianza di una sua incapacità 
personale (De Beni e Rizzato, 2004). 
 
Per indagare lo sviluppo metacognitivo e l’efficienza cognitiva relativa, esistono diversi metodi.  
Innanzi tutto occorre chiarire che i motivi di mancata esibizione di un comportamento di tipo 
metacognitivo sono due: nel primo caso, il soggetto non solo non conosce la strategia più 
appropriata per affrontare un compito, ma non possiede i prerequisiti cognitivi per applicarla 
(deficit di mediazione); nel secondo, invece, il soggetto non conosce la strategia adatta e/o non la 
usa, anche se potenzialmente sarebbe in grado di farlo (deficit di produzione) (Cornoldi, 1995).  
Per indagare lo stato di efficienza della metacognizione, non è possibile, anche se è proficuo, 
avvalersi solamente della verbalizzazione, poiché non tutte le riflessioni sul funzionamento mentale 
sono ugualmente chiare a livello di memoria dichiarativa: spesso si ha a che fare con sensazioni, 
emozioni e vissuti scarsamente verbalizzabili. Detto questo, le principali tecniche di rilevazione del 
funzionamento metacognitivo sono le seguenti: 
 ξ  l’osservazione naturalistica, condotta per lo più da chi trascorre molto tempo con il bambino 
(genitori ed educatori), e che ha come età privilegiata di indagine l’età prescolare; 
 ξ  l’osservazione provocata (colloquio clinico piagetiano), cioè un tipo di intervista in cui le 
riflessioni del bambino vengono mano a mano guidate verso le questioni più interessanti per 
il ricercatore (anche tramite l’ausilio di materiali o stimoli opportuni), che deve fare molta 
attenzione alla credibilità delle risposte del soggetto; 
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 ξ  tecniche di pensiero ad alta voce, per cui vengono registrate tutte le verbalizzazioni 
spontanee del soggetto nei confronti di un compito, stimolandolo a dire tutto ciò che gli passa 
per la testa; 
 ξ  tecniche non verbali che prevedono la scelta tra figure (in cui ad esempio il bambino deve 
indicare le situazioni più favorevoli all’esecuzione di compiti cognitivi), la visione di filmati, 
scenette o la lettura di storie figurate; 
 ξ  interviste strutturate e questionari carta-matita, per i bambini di buon livello cognitivo e di 
età superiore agli 8-9 anni (Cornoldi, 1995). 
 
In questa esperienza, sono state utilizzate tecniche che possono essere assimilate ad interviste 
semistrutturate, dove domande più o meno generiche dovevano favorire la discussione e la 
riflessione comune tra i partecipanti, e per cui ogni libera interpretazione delle domande poteva (se 
pertinente al tema) essere accettata e anzi approfondita.  
 
 
1. 2. Conoscenza metacognitiva e processi metacognitivi di controllo 
 
Nel novero delle conoscenze metacognitive (metaconoscenza), cioè delle idee (più o meno 
verbalizzabili) sul funzionamento mentale, si possono includere intuizioni del tipo:  
 ξ  sapere che le immagini non rappresentano una riproduzione fedele della realtà sensoriale; 
 ξ  essere consapevoli della propria incapacità di mantenere a lungo l’attenzione in un 
particolare tipo di compito; 
 ξ  provare un senso di inferiorità in relazione a compiti cognitivi di un certo tipo (es.: non 
sentirsi portati per …) (Cornoldi, 1995).  
 
Da questi esempi, risulta abbastanza semplice capire cosa intende per metaconoscenza: si va 
dall’autoconsapevolezza di tutte le caratteristiche psichiche individuali, agli aspetti propriamente 
cognitivi del funzionamento mentale, fino alle modalità di acquisizione di nuove conoscenze 
(Cornoldi, 1995). Meno chiare sono le tipiche modalità di sviluppo di pensieri di questo tipo. 
Sembra che esistano diverse “fonti” per lo sviluppo della conoscenza metacognitiva, che fanno 
riferimento a: 
 ξ  idee che nascono direttamente in seno al sè, quando viene messo a confronto con i propri 
insuccessi o con ostacoli imprevisti al conseguimento degli obiettivi (e da ciò nasce 
l’importanza della riflessione sugli errori). In particolare sembra che l’immagine che un 
soggetto ha di sé stesso, che deriva in parte dalla consapevolezza delle idee e aspettative 
degli altri nei suoi confronti, sia molto importante per lo sviluppo della metaconoscenza; 
 ξ  concettualizzazioni promosse dal contatto con il sistema di credenze che gli adulti 
veicolano ai bambini; 
 ξ  ruolo autoregolativo del linguaggio, come motore per lo sviluppo del pensiero interiorizzato, 
in forma di stringhe linguistiche che guidano le azioni (Mazzoni, Chiesi e Tressoldi, 1995). 
 
Parlando di processi metacognitivi di controllo, invece, ci si riferisce a tutte quelle operazioni 
di regia del funzionamento cognitivo, operazioni che permettono l’adeguamento continuo delle 
azioni agli scopi iniziali. Tali processi sono fortemente correlati con lo sviluppo di previsioni circa 
il proprio funzionamento hic et nunc in attività specifiche, come nel richiamo in momenti diversi di 
parole appartenenti a liste studiate precedentemente (Cornoldi, 1995).  
L’analogia con la torre di controllo si adatta bene alla comprensione di questo concetto, poiché 
rende l’idea di un sistema cognitivo sempre in allerta, teso a confrontare i dati disponibili con gli 
standard prestabiliti, e pronto a segnalare ogni anomalia perché intervenga un meccanismo 
regolatore delle operazioni in corso. Di solito, non ci si rende conto del continuo monitoraggio 
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operato da questo “tutore dell’ordine” se non quando incontriamo delle difficoltà nell’avvio o nel 
prosieguo di un compito. Cornoldi, nel già citato contributo (Cornoldi, 1995), fornisce numerosi 
esempi di processi metacognitivi di controllo: 
 ξ  riconoscere l’esistenza di un problema e definirne la natura (problematizzazione); 
 ξ  generazione delle alternative di soluzione del problema; 
 ξ  automonitoraggio delle azioni stabilite; 
 ξ  definizione del livello di performance previsto; 
 ξ  coordinare i vari processi cognitivi per risolvere il compito; 
 ξ  raccogliere e valutare i feedback che provengono dallo svolgimento del compito; 
 ξ  ecc … 
 
Dopo aver approfondito le concezioni relative alle due anime della metacognizione, è lecito 
chiedersi come esse si colleghino nello svolgimento effettivo dell’attività mentale, il che equivale 
ad analizzare in quali condizioni i processi di controllo generino determinate intuizioni 
metacognitive. Ciò ha particolare rilevanza per l’analisi degli esiti dell’esperienza descritta in 
questo contributo. I ragazzi coinvolti nel progetto, infatti, come sono arrivati a determinate 
realizzazioni metacognitive, posti a contatto con compiti specifici e con domande di attivazione? 
Certamente, esistono elementi di conoscenza metacognitiva dominio-specifica (relativa proprio al 
compito da affrontare), e idee che fanno riferimento al funzionamento mentale più generale 
(inerenti ad esempio alla natura dei problemi), che si integrano proficuamente nello svolgimento di 
un preciso compito.  
L’efficienza con cui avviene questa integrazione, e la capacità di operare in modo differenziato 
in base al dominio, rimanda alla differenziazione tra atteggiamento metacognitivo (o conoscenza 
metacognitiva generale), e conoscenza ed eventuale uso di strategie compito-specifiche. 
Possedere un atteggiamento metacognitivo significa avere la tendenza a “riflettere sulla natura 
della propria attività cognitiva, e a riconoscere la possibilità di utilizzarla ed estenderla” il che 
permette di sviluppare nuove ed originali strategie in relazione ad un compito specifico anche 
quando esse non erano disponibili. Inoltre, tale tendenza permette di trovare opportuni collegamenti 
tra strategie e compiti cognitivi diversi, e di riconoscere il ruolo dell’impegno e della motivazione 
per il conseguimento di un obiettivo. Le conoscenze metacognitive specifiche (o strategie) 
rappresentano i diversi modi con cui si può affrontare una situazione; tali modalità si caratterizzano 
per un orientamento allo scopo, una regolarità d’uso, e un certo grado di controllo consapevole. 
(Cornoldi, De Beni e Gruppo MT, 2001). Un esempio di strategia è la ripetizione immediata e 
continua di un numero di telefono, in mancanza di un foglio in cui appuntarlo. Al contrario della 
conoscenza metacognitiva generale, le strategie sono intimamente legate alla natura del compito 
specifico, per cui hanno vincoli non sempre valicabili, in mancanza di un’attitudine metacognitiva 
più generale.  
In questo senso, possedere un atteggiamento metacognitivo generale, potrebbe essere un 
obiettivo desiderabile per ottenere buoni risultati scolastici, oltre un alto livello di autostima 
generale (Cornoldi, 1995; Cornoldi, De Beni e Gruppo MT, 2001).