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1. INTRODUZIONE 
Le scogliere coralline sono un ecosistema formato da organismi bio-costruttori che creano un habitat 
complesso e adatto ad offrire riparo e protezione a svariati taxa marini, sostenendo un’articolata rete 
trofica (Muscatine, 1990). Queste strutture, di origine biologica, si sviluppano generalmente e in massima 
parte in acque poco profonde (fino a trenta metri) e limpide di mari e oceani in cui la temperatura media 
invernale non scende sotto i 20 °C (Ferrari et al., 1999), e sono considerati gli ecosistemi marini a più alto 
grado di biodiversità, contenendo circa un terzo di tutte le specie marine descritte sinora (Reaka-Kudla; 
1997, 2001).  
La struttura delle scogliere coralline è composta da formazioni rocciose costituite e accresciute dalla 
sedimentazione degli scheletri calcarei di animali polipoidi (Veron, 2000). I polipi, solitari o radunati 
tipicamente in colonie, sono in simbiosi con le zooxantelle, alghe unicellulari che forniscono energia e 
nutrienti quali amminoacidi, zuccheri, carboidrati e peptidi semplici (Muscatine, 1990; Swanson e Hoegh-
Guldberg, 1998) ricavando in rapporto mutualistico i componenti essenziali per la fotosintesi clorofilliana 
(Trench, 1979). 
Questi ambienti naturali hanno un ruolo di primaria importanza; essi sono necessari per mantenere una 
ricca diversità biologica, fungono da riparo e protezione per le uova, sostengono e nutrono una vastità di 
organismi diversi (Moberg e Folke, 1999) influenzando notevolmente anche le attività umane: i beni e 
servizi forniti direttamente o indirettamente ad oltre 500 milioni di persone nel mondo comprendono 
risorse ittiche ampiamente sfruttate dalla pesca commerciale e ricreativa, la protezione fisica delle coste e 
opportunità turistiche, quindi di introiti finanziari (Hoegh-Guldberg et al., 2009), tramite le escursioni 
subacquee e di snorkeling, anche per paesi poveri e ai margini degli interessi dell’economia mondiale.  
Sfortunatamente, da alcuni decenni, si sono moltiplicate le minacce di origine antropica, locali e globali, alla 
stabilità di questi ecosistemi, in particolare i cambiamenti climatici, il riscaldamento e l’acidificazione degli 
oceani (Pandolfi et al., 2011), ma anche l’inquinamento, la sedimentazione, le tecniche di pesca distruttive 
e le attività di estrazione e dragaggio (Cesar, 2002). Si sono, quindi, create condizioni di stress di 
derivazione antropogenica ad un’intensità che non trova riscontri significativi nella lunga storia geologica 
della terra (Veron et al., 2009).  
Un’esposizione a temperature dell’acqua anche poco superiori alla media - global warming – può, ad 
esempio, destabilizzare il delicato equilibrio mutualistico che si ha tra coralli duri e zooxanthellae 
(Berkelmans e van Oppen, 2006) determinando l’espulsione dell’alga simbionte (Riegl et al., 2012), 
responsabile della colorazione dei coralli, lasciando una struttura più pallida o anche completamente 
bianca. Il fenomeno prende il nome di coral bleanching (sbiancamento dei coralli. Hooidonk et al., 2012);
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poiché il corallo dipende dalle alghe simbionti per il 95% del fabbisogno energetico (Muscatine, 1990), il 
coral bleanching può causare la morte di questi organismi (Guldberg et al., 1999).   
Un altro esempio ci viene fornito dall’aumento del diossido di carbonio rilasciato in atmosfera e derivante 
da attività umane, che si relaziona ad un aumento del medesimo disciolto nelle acque marine: questo causa 
una forte acidificazione rispetto a quanto osservato nei dati degli ultimi 300 milioni di anni (ad esclusione di 
fenomeni rari ed estremi. Caldeira et al., 2003; Sabine et al., 2004). Questa acidificazione delle acque 
compromette la capacità del corallo di calcificare e riduce la sua competitività rispetto a organismi marini 
non calcificanti e in concorrenza per le medesime nicchie ecologiche (Kuffner et al., 2008). 
Fenomeni globalmente diffusi come quelli indicati costituiscono meccanismi di negatività interagenti che, 
nel tempo, possono portare al declino delle barriere coralline (Pinzòn et al., 2015). 
Da migliaia a milioni di anni dovrebbero passare prima che questi complessi di origine biotica ritrovino un 
naturale equilibrio (Veron et al., 2009) e questa importante risorsa non sopravvivrà se non si interviene 
rapidamente su vasta scala spaziale e temporale (Pandolfi et al., 2003). 
Si necessita, quindi, di notevoli sforzi per prevenire la perdita di biodiversità e limitare l’impatto dei 
cambiamenti climatici (Sharpe e Conrad, 2006). Per raggiungere questo obiettivo è necessario rilevare la 
distribuzione delle specie e registrarne le variazioni nel tempo (Brotons et al., 2007), in particolare 
rilevando specie indicatrici correlabili a particolari condizioni (malattie, inquinamento, competizione, stress 
antropico, ecc..) poiché idonee a sopravvivervi. Utilizzare questi indicatori può fornire vantaggi significativi 
rispetto a misure dirette della qualità ambientale (Lindenmayer e Likens, 2011), che forniscono solo 
un’indicazione coincidente ad una singola unità di spazio e tempo senza evidenziare tendenze, ovvero dati 
ben più utili nella gestione delle specie minacciate (Joseph et al., 2006) e recanti informazioni sia sulle 
conseguenze di eventi acuti che sulle manifestazioni di tossicità cronica. Riversamenti di terreno, 
inondazioni e risospensione di sedimenti durante forti venti sarebbero fenomeni non rilevabili senza una 
misurazione tempo-integrata dei cambiamenti nella qualità ambientale delle barriere coralline (Cooper et 
al., 2009), e non vi sarebbero prove utili e riscontri obiettivi da utilizzare in sede decisoria nell’ambito del 
sistema “Red List International Union for Conservation of Nature” (IUCN; Joseph et al., 2006).  
In conclusione, un monitoraggio a larga scala è dunque basilare.  
I notevoli sforzi necessari per prevenire il deterioramento degli ecosistemi naturali in luogo di una forte 
perdita di biodiversità sono generalmente poco sostenuti dalla agenzie governative a causa di mancanza di 
fondi, dati dai tagli alla spesa pubblica. Esiste, quindi, un gap troppo invalidante tra il monitoraggio e la 
gestione (Sharpe e Conrad, 2006). Per ovviare agli oneri economici di un monitoraggio ambientale ad ampio 
raggio spazio-temporale si può utilizzare una metodologia di lavoro basata sulla collaborazione tra scienziati 
e volontari, che contribuisca, inoltre, ad avvicinare scienza e cittadini, creando i presupposti per una 
maggiore consapevolezza ambientale nella società (Goffredo et al, 2004; 2010; Dickinson et al, 2010; 
Conrad e Hilchey, 2011; Branchini et al., 2015).
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Questo metodo di indagine scientifica è detto “Citizen Science”.  
Molti lavori (Schmitt e Sullivan, 1996; Fore et al., 2001; Newman et al., 2003; Goffredo et al., 2004; 2010) 
confermano che, previa adeguata preparazione, l’affidabilità dei dati raccolti da cittadini volontari è 
positivamente comparabile a quella dei biologi professionisti, e coinvolgere i subacquei ricreativi, contando 
sulla loro passione per l’ambiente marino (Evans et al, 2000; Goffredo et al., 2004; 2010; Huveneers et al., 
2009, Biggs e Olden, 2011), si sta rivelando un metodo utile ed efficace se lo studio è ben progettato 
(Branchini et al., 2014).  
La partecipazione dei volontari, e quindi la forza di campionamento, è spesso limitata dall’uso di metodi 
formali, -come in: Reef Check (Hodgson, 1999) e Fish Survey Project (Pattengil-Semmens e Semmens, 
2003)- che richiedono un’intensa preparazione dei volontari e il rispetto di rigidi protocolli. Questi metodi 
possono garantire l’ottenimento di dati più uniformi (Branchini et al., 2014) ma al contempo aumentano 
l’impegno richiesto al volontario. Ciò può ridurre l’interesse, quindi il numero di persone coinvolgibili nella 
ricerca (Marshall et al., 2012), influenzando di conseguenza l’accuratezza dei dati (Dickinson et al., 2012).  
Altri progetti, invece, utilizzano una metodica rinominata “Recreational Citizen Science” (Goffredo et al., 
2010) che si è avvale, per la raccolta dei dati, di osservazioni casuali di turisti in escursione. Tra questi 
progetti rientra anche “STE –Scuba Tourism for the Environment-" (STE, Branchini et al., 2014), oggetto di 
studio del presente lavoro di tesi.
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2. SCOPO DELLA RICERCA 
Il progetto STE è stato un programma di monitoraggio della biodiversità delle scogliere coralline del Mar 
Rosso che ha utilizzato un protocollo basato su osservazioni casuali di turisti in escursione già testato in 
precedenti lavori (Goffredo et al., 2004; 2010), che garantisce ai volontari lo svolgimento di una normale 
attività di subacquea ricreativa assicurando, al contempo, una raccolta dati affidabile grazie alla 
standardizzazione del campionamento (Branchini et al., 2014).  
 
In particolare, lo scopo di questo lavoro di tesi è stato quello di: 
 Testare la validità dei dati del progetto STE con lo stesso metodo utilizzato in Branchini et al. 
(2014), ma con un data-set campionario più ampio; 
  Valutare l’ipotesi che la costruzione di “schede totali” a partire dai singoli dati dei volontari possa 
aumentare il livello generale di validità; 
 Poiché la scelta tra alternativi metodi di monitoraggio è un problema che rimane relativamente 
poco studiato (Joseph et al., 2006), si vuole testare una possibile differenza statisticamente 
significativa nella validità dei dati raccolti da volontari in immersione subacquea e volontari in 
escursione con snorkel; 
 Valutare se la topografia dei siti di immersione ha influenza sulla validità dei dati (immersioni in 
parete verticale o su fondale piano); 
 Valutare se il livello di validità dei dati è correlabile con alcune caratteristiche d’immersione rilevate 
durante la compilazione dei questionari (numero di volontari presenti per “immersione campione”, 
tempi di immersione, profondità, esperienza subacquea ovvero livello di brevetto certificato); 
 Valutare i livelli di “corretta identificazione” per singoli taxa e una possibile correlazione 
significativa tra il valore di corretta identificazione di un taxon e il numero di volte in cui è stato 
individuato dal riferimento.