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Introduzione 
Tra antiche e nuove povertà 
 
 
La lotta alla povertà ai fini dell’eguaglianza sociale è tra i temi più ricorrenti 
del contemporaneo dibattito etico, politico e sociale. Oggi più che mai è 
sentita e reclamata con urgenza, non solo dalla classe politica ma anche e 
soprattutto dalla società civile globale, la necessità di attivare politiche 
economiche per contrastare la povertà e le disuguaglianze.  
La circolazione diffusa dell’informazione, grazie alle innovazioni nel campo 
della tecnologia della comunicazione (l’introduzione del Personal Computer e 
Internet in particolare) e le conseguenze della globalizzazione, con la  
rimozione graduale delle restrizioni al movimento dei beni, servizi, capitali e 
delle persone ha consentito una più diffusa consapevolezza e sensibilizzazione 
della società civile globale, obbligata a fare i conti con i fenomeni di degrado 
sociale, economico e culturale, ovunque essi avvengano nel mondo.   
Ai fautori della globalizzazione, come possibile risposta e soluzione alla 
povertà dei Paesi in Via di Sviluppo, si contrappongono sempre più coloro 
che, viceversa, additano la globalizzazione come causa del continuo 
impoverimento dei paesi già poveri e della costante crescita del divario tra 
Nord e Sud del globo. La mobilità e la libertà dei capitali, essi sostengono, non 
producono investimenti nei Paesi del Terzo Mondo ma tendono a concentrarsi 
nei Paesi industrializzati e ugualmente vale per il commercio internazionale, 
per la ricerca e i flussi finanziari: un dato significativo è che i Paesi in Via di 
Sviluppo, dove vive la maggior parte della popolazione mondiale hanno 
accesso a solo l’1% del capitale mondiale; al contrario, l’1% più ricco della 
popolazione possiede il 40% di tutti i capitali del mondo.  
La globalizzazione, per chi la contrasta, è la causa di rinnovate disuguaglianze 
e ha creato nuove forme di povertà (e di schiavitù: il turismo sessuale di massa
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e la pedopornografia sono esempi tra tanti!), non paragonabili a quelle passate, 
soprattutto per numero di persone coinvolte e per la diffusione. Nell’era della 
globalizzazione (dei mercati, dell’economia, della comunicazione)- che il 
sociologo inglese Anthony Giddens ha definito come “l’intensificarsi di 
relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo in 
modo che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a 
migliaia di chilometri di distanza e viceversa”- non può sfuggire che viviamo 
in un mondo dove 1,2 miliardi di persone, un quinto della popolazione 
mondiale, sopravvive in condizioni di povertà estrema e dove, nonostante la 
produzione agricola sia in grado di fornire il 17% di calorie al giorno per 
persona in più rispetto a trenta anni fa, 925 milioni di individui, di cui il 30% 
sono bambini sotto i cinque anni, per lo più distribuiti nelle zone rurali dei 
Paesi in Via di Sviluppo, muoiono di fame; dove la metà della popolazione 
non ha mai fatto una telefonata e dove un miliardo di persone è analfabeta; un 
pianeta dove per moltissimi si pongono problemi basilari di accesso a 
qualsivoglia informazione e servizio.  
Il processo di globalizzazione invece di portare benefici reali alla popolazione, 
tende a caratterizzarsi sempre più come un processo che porta ad un aumento 
delle disuguaglianze, compromettendo la vita e la sicurezza di ampi settori 
della popolazione. La forbice tra il “ricco globale” e il “povero locale”, tra 
coloro che controllano i mezzi di produzione, i centri decisionali, così come i 
mezzi di informazione, e le masse senza potere, senza voce, si allarga.  
Non si tratta più solamente di una dicotomia Nord- Sud del pianeta; il Nord 
del mondo non è esente dalla vulnerabilità e dal rischio di cadere in condizioni 
di povertà e aumenta la preoccupazione per il futuro e l’incertezza di una vita 
stabile e dignitosa tra le fasce più vulnerabili (disoccupati, precari, anziani, 
giovani, donne, etc.) dei paesi del cosiddetto Primo Mondo.  
Il monomito della crescita economica, dello sviluppo e del progresso 
all’infinito è fallito di fronte all’evidenza di una realtà caratterizzata dallo 
sfruttamento, dal depauperamento ambientale- che ha determinato la
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migrazione di centinaia di migliaia di persone, i cosiddetti “rifugiati 
ecologici”- dalla povertà estrema, dall’esclusione sociale e dalla 
disuguaglianza.  
È arrivato il momento di  un nuovo paradigma dello sviluppo, che incida in 
maniera efficace e soprattutto equa sulla qualità della vita e sul 
soddisfacimento dei bisogni umani. Uno sviluppo- la cui necessità Wolfgang 
Sachs, tra gli altri, sostiene fermamente- che promuova allo stesso tempo la 
giustizia a livello internazionale e la sostenibilità ecologica. Un esempio noto 
di una impostazione diversa sul tema dello sviluppo si è avuto con la 
Dichiarazione di Cocoyoc, adottata al simposio UNEP-UNCTAD (United 
Nation Environment Program – United Nation Conference on Trade and 
Development ), indetto nel 1974 in Messico per discutere il tema “Risorse e 
Sviluppo”. Secondo l’opinione prevalente dei partecipanti i problemi 
dell’umanità si annidavano nelle strutture economiche e sociali, nei 
comportamenti tra gli stati e nel loro interno. Lo sviluppo umano si 
configurava come il soddisfacimento dei bisogni umani fondamentali o 
primari ma, ecco la novità, comprendeva anche altri valori, quali la libertà di 
espressione o l’autorealizzazione sul lavoro, coniugando in sostanza valori 
materiali e immateriali e ponendo su questi ultimi particolare enfasi. In questo 
incontro si manifestava l’esigenza di riconsiderare le tematiche dello sviluppo 
e nella Dichiarazione si ammoniva che:  
 
“Non bisogna sviluppare le cose, ma le condizioni dell’uomo. Gli esseri umani hanno 
bisogni essenziali: il cibo, un alloggio, il vestiario, la salute, l’istruzione. Ogni 
processo di crescita che non conduca al loro soddisfacimento… è un travisamento 
dell’idea dello sviluppo. Siamo ancora in uno stadio in cui l’impegno più rilevante 
dello sviluppo riguarda il livello di soddisfacimento dei bisogni essenziali dei gruppi 
più poveri della popolazione. La finalità principale della crescita economica 
dovrebbe consistere nell’assicurare il miglioramento delle condizioni di questi 
gruppi. Un processo di crescita che vada a vantaggio solo della minoranza più ricca e
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che mantenga o addirittura accresca la disuguaglianza tra i Paesi e all’interno di 
ciascuno di essi non è sviluppo, ma sfruttamento.” 
 
La povertà estrema, nelle sue varie dimensioni (esclusione sociale ed 
emarginazione, disoccupazione e precarietà, mancato accesso all’acqua 
potabile e ai servizi igienico-sanitari, analfabetismo, mortalità infantile, 
malnutrizione, etc.) e le disparità nella distribuzione del reddito tra Stati e 
all’interno dei singoli paesi sono un dramma di fronte al quale non si può più 
mantenere l’atteggiamento fatalistico che per troppo tempo ha caratterizzato 
chi vive nei paesi sviluppati.  
Un comportamento dettato, secondo Muhammad Yunus, teorico della finanza 
etica e premio Nobel per la pace, dalla difficoltà e complessità di definire, 
comprendere e quindi intervenire contro tali fenomeni.  
Indagare il concetto di povertà significa affrontare queste difficoltà e 
confrontarsi con la complessità del mondo globale, analizzando le sfide della 
lotta alla povertà alla luce di questo nuovo assetto.  
Il primo capitolo è volto, innanzitutto, a chiarire il concetto stesso di povertà e, 
in secondo luogo, a delineare le peculiarità della nuova povertà globale: 
l’introduzione della dimensione di esclusione sociale; il numero sempre più 
ampio di poveri e la nuova condizione in cui essi versano; il forte divario tra 
Nord e Sud del mondo e, allo stesso tempo, la diffusione di questo fenomeno 
anche tra le fasce urbane della popolazione.  
L’aspetto semantico è particolarmente complesso; se in prima 
approssimazione intendiamo la povertà in termini di scarso reddito, questa 
definizione è una delimitazione piuttosto riduttiva. In questa sede non si 
cercherà di offrire una definizione univoca della povertà, bensì di indagare le 
varie forme che di volta in volta sono entrate nell’immaginario collettivo, sino 
a quella attuale che identifica l’indigenza in termini negativi di mancanza di 
risorse economiche sufficienti.
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Il punto di partenza del nostro discorso è che (i) non si può dare una 
definizione univoca e universale di povertà e che (ii) la identificazione del 
povero con colui che vive con uno (o due) dollari al giorno, secondo la 
definizione datane dalla Banca Mondiale, è una semplificazione tipicamente 
moderna, nata con la Rivoluzione Industriale e determinata dalla necessità di 
classificare e contare i poveri.  
L’approccio di indagine adottato è quello archeologico-genealogico, prediletto 
da Majid Rahnema, antropologo iraniano e rappresentante dell’Iran all’Onu. Si 
segue il percorso a ritroso che egli ha delineato in riferimento alla costruzione 
sociale della povertà, sino alla definizione attuale. Dopo aver effettuato queste 
considerazioni preliminari, si analizzano le peculiarità della nuova povertà 
globale, in confronto con le antiche povertà, pre-industriali e industriali. 
Il consolidamento del concetto di povertà come “slogan”, politico ed 
economico al tempo stesso, è la conseguenza del rivolgimento epistemologico 
del significato di povertà, compiutosi, in particolare, a partire dal XVIII secolo 
con l’avvento dell’industrializzazione.  
La riflessione e il riconoscimento del contenuto semplicistico di una 
definizione di tipo prettamente economico ha avuto implicazioni rilevanti 
nell’ambito delle ricerche empiriche che, negli ultimi anni, hanno effettuato 
passi in avanti, comprendendo dimensioni ulteriori a quella economica nella 
rilevazione e misurazione della povertà, passando da un approccio puramente 
quantitativo a una prospettiva sensibile a fattori di tipo qualitativo. È questo 
l’argomento principale del secondo capitolo. In questa sezione vengono 
illustrati i metodi di misurazione della povertà (e della disuguaglianza), 
iniziando da quelli tradizionali, derivati dalla social survey inglese dei primi 
anni del ‘900 e che distinguono i poveri dai non poveri sulla base di una linea 
di povertà determinata in termini di reddito, sino a quelli attuali che, viceversa, 
sono sensibili alla nuova condizione della povertà e alle molteplici dimensioni 
che la determinano. Particolare enfasi viene posta all’approccio delle capacità 
proposto da Amartya Sen e al nuovo Indice di Sviluppo Umano che
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l’economista ha individuato, in collaborazione con Mahbub ul Haq, presentato 
nel Rapporto sullo sviluppo umano dell’UNDP nel 1990. In breve Sen 
considera il benessere di un individuo non su base prettamente monetaria ma 
determinato dalle opportunità concrete che ha di realizzare ciò che desidera, di 
condurre una vita sana e lunga, di ricevere un’istruzione, di partecipare alla 
vita sociale e politica, di lavorare e così via. L’approccio delle capacità e il 
nuovo indice statistico di misurazione, ISU, sono stati accolti come innovativi 
ed hanno influenzato un’intera generazione di politici ed altri esperti in tutto il 
mondo.  Il nuovo paradigma introduceva la  logica per cui lo sviluppo non 
dovrebbe essere misurato solamente attraverso la componente economica, il 
reddito nazionale, ma anche tenendo conto dell’aspettativa di vita e del livello 
di alfabetizzazione. Non sono, tuttavia, mancate le accuse dei critici dello 
sviluppo che vi hanno riscontrato un modello che, allo stesso modo del PIL, 
pone gli  individui e i Paesi in ordine gerarchico su una scala i cui gradini 
rappresentano i progressi in direzione dell’evoluzione economia e sociale.  
Tra di essi vi è stato chi, condannando il concetto di sviluppo in quanto foriero 
di una visione ovest-centrica del mondo, ha proposto lo smantellamento del 
termine stesso. L’origine di questa parola è da rinvenirsi all’indomani della 
Seconda Guerra Mondiale e alla fine del colonialismo. Il terzo capitolo del 
saggio, dopo un breve cenno storico sulla nascita della cosiddetta era dello 
sviluppo, del sottosviluppo e della cooperazione internazionale- all’origine 
dell’attuale rincorsa agli aiuti umanitari internazionali- si sofferma sul ruolo 
delle Istituzioni Internazionali- ONU, FMI, WB, UE, ONG.OECD- nella lotta 
alla povertà estrema e alla disuguaglianza. Non mancano i riferimenti storici 
sulla nascita delle varie istituzioni a ridosso della Seconda Guerra Mondiale; 
l’accento, d’altra parte, è rivolto a illustrare i limiti, a volte strutturali, delle 
varie istituzioni al fine di rilevarne le manchevolezze nell’ottica della 
riduzione della povertà. In particolare, attraverso le parole di Stiglitz, sono 
messe sotto accusa le tre istituzioni che governano la globalizzazione, il WTO, 
il FMI e la WB, che attraverso politiche liberiste  hanno di fatto generato un
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debito irripagabile e alimentato il divario tra Nord e Sud del mondo, 
generando arretratezza e instabilità sociale. Per mancanza di dati non è stato 
possibile indagare a sufficienza l’impatto e l’efficacia delle politiche degli 
aiuti internazionali allo sviluppo, sebbene alcuni documenti, come la 
Dichiarazione di Parigi, siano stati predisposti a tal fine. Ad ogni modo 
l’evidenza sembra attestare che le ingenti somme impiegate nei programmi di 
cooperazione internazionale allo sviluppo dopo cinquanta anni  non siano stati 
sufficienti ad eliminare la piaga della povertà estrema e tutto ciò che ad essa è 
correlato.  
Il nuovo millennio si è aperto così con una nuova attenzione ai temi dello 
sviluppo, ponendo al centro la riduzione della povertà estrema nel mondo. Nel 
2000 una nuova speranza è stata proiettata dalla comunità politica 
internazionale: nel settembre 191 Capi di Stato e di governo si sono riuniti a 
New York in una riunione che si è conclusa con la ratifica della Dichiarazione 
del Millennio. In essa sono racchiuse le promesse per un futuro più equo e 
socialmente giusto, in cui la povertà estrema e la fame siano solo fantasmi del 
passato, le donne non siano discriminate e i bambini non vengano sfruttati. 
L’impegno assunto dai Paesi, tanto del Nord quanto del Sud del mondo, per 
assolvere gli obiettivi del millennio elencati nella Dichiarazione e la speranza 
che li ha accompagnati hanno subito una battuta d’arresto nel settembre 2001 e 
sembrano essersi infranti con la crisi finanziaria e alimentare degli ultimi 
tempi. Il quarto capitolo espone la storia della nascita degli Obiettivi del 
Millennio. Tuttavia non ci si sofferma sull’andamento degli stessi; si 
presentano, invece, i problemi statistici che limitano la possibilità di reperire 
dati credibili e attendibili, “scientifici”, rispetto all’effettivo andamento dei 
targets prefissati. Studi econometrici rivelano che la soglia dello 1,25 dollari 
al giorno, ancora utilizzata dalla Banca Mondiale nelle rilevazioni statistiche, 
sottostima il numero reale dei poveri perché troppo bassa e pertanto anti-etica.
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In questo capitolo ci si sofferma inoltre sulla centralità dell’istruzione e 
dell’accesso all’educazione, anch’essi obiettivi del millennio, condizioni 
preliminari perché si raggiungano gli altri targets elencati nella Dichiarazione.  
Garantire l’educazione e l’istruzione al più ampio numero possibile di 
individui e con un livello qualitativamente alto può fornire la chiave per uscire 
dalla povertà. Prendendo spunto da questa considerazione ed ampliandola il 
saggio termina con riflessioni conclusive e possibile “buone pratiche” per 
quelle istituzioni che abbiano la volontà politica reale di contrastare la povertà 
e la disuguaglianza e per quanti sentano la responsabilità etica di intervenire 
perché ogni essere umano abbia pari opportunità (nel senso in cui Amartya 
Sen usa questo termine), ovverosia le libertà di plasmare la propria vita 
secondo i propri desideri, nel rispetto dell’altro e dell’ambiente.