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Non ultimo, la malattia ha un impatto devastante sulla
psicologia del giovane paziente, molte volte già destrutturata da
pregresse situazioni sociali o familiari.
Il trattamento di una patologia tanto complessa è ovviamente
multidisciplinare: nutrizionale, medico e chirurgico.
In questa trattazione l’obiettivo è puntato sulla terapia
chirurgica, senza però trascurare le interazioni con le altre opzioni
terapeutiche, e soprattutto le ripercussioni a lungo termine che la
scelta della terapia chirurgica può determinare. Inutile appare
sottolineare come le lesioni stenosanti siano in grado di comparire a
distanza di tempo in diverse localizzazioni, con necessità di reiterate
resezioni intestinali e la non rara evoluzione in senso di “sindrome
dell’intestino corto”; le conseguenze appaiono nefaste su un
organismo in rapida evoluzione, sia in senso biologico che
psicologico.
Intento principale di questa trattazione è l’esposizione di tutte le
possibile opzioni chirurgiche per il trattamento del morbo di Crohn,
con l’individuazione di quella in grado di apportare il miglior
beneficio a lungo termine con le minori sofferenze possibili su ogni
aspetto dell’esistenza del paziente.
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Cenni storici
Nel 1855 apre i battenti a New York l’Ospedale Ebraico, che
nel 1866 cambiò nome nell’attuale Mount Sinai Hospital; fin
dall’inizio, vennero osservati diversi casi di patologia proctologica e
intestinale sorprendentemente simili a quadri di presentazione del
morbo di Crohn.
Il 13 maggio del 1932 il Dr. Burrill B. Crohn presentò una
pubblicazione dal titolo “Ileite terminale” al meeting annuale
dell’Associazione Medica Americana a New Orleans. Nella
discussione che ne scaturì, venne alla luce che anche presso la Mayo
Clinic erano stati effettuati interventi chirurgici su pazienti che
dimostravano sintomi analoghi a quelli da lui presentati. Precisò
inoltre che la patologia si presentava tipicamente ma non
esclusivamente a carico dell’ileo terminale. Il manoscritto di Crohn fu
pubblicato su JAMA nell’ottobre del 1932 con il più generico termine
di “ileite regionale” e come co-autori Ginzburg e Oppenheimer, due
giovani chirurghi del Mount Sinai che legarono il loro nome al morbo
di Crohn interessandosi per tutti gli anni a venire di questa patologia.
La particolarità storica del morbo di Crohn risiede nel mancato
riscontro autoptico, negli anni e secoli precedenti, di alcun quadro
anatomopatologico con caratteristiche analoghe: pertanto, si riteneva
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all’epoca che questa fosse un’entità nosologica nuova del XX secolo.
D’altro canto, una revisione critica della letteratura del 1700-1800
suggerisce che molti casi di possibile “ileite regionale” siano stati
sbrigativamente liquidati come tubercolosi intestinale a motivo della
somiglianza con la flogosi tissutale di quest’ultima; in particolare, nel
1913 Daziel riportò una casistica di pazienti affetti da una particolare
forma di malattia granulomatosa intestinale, di cui sei vennero operati
con successo.
Si accettò l’inizio della chirurgia del morbo di Crohn solamente
dopo la pubblicazione del lavoro sopraccitato nel 1932. I 14 pazienti
che erano stati descritti furono tutti operati da Berg, uno dei chirurghi
più importanti del tempo, nonché il primario del reparto di chirurgia.
Nonostante ciò, Berg rifiutò di essere inserito fra i co-autori del
lavoro, non avendone partecipato direttamente alla stesura;
probabilmente, se avesse effettuato una scelta diversa, oggi si
parlerebbe di morbo di Crohn-Berg.
E’ del 1934 la prima segnalazione riguardante malattia
granulomatosa del colon con coinvolgimento della valvola ileocecale
e del colon ascendente. Il paziente, maschio di 22 anni, fu operato al
Mt Sinai e ricevette diagnosi istologica di “granulomatosi non
specifica del colon e dell’ileo terminale”. Quindi Colp, altro chirurgo
“senior” del Mt Sinai, che effettuò l’intervento resettivo su questo
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paziente, pubblicò per primo un caso di ileite terminale con
coinvolgimento colico.
Tra il 1932 e il 1960 le conoscenze su questa nuova entità
clinica si estesero enormemente: si appurò che la malattia
granulomatosa non specifica (o “ileite terminale”) può coinvolgere
ogni tratto del tubo digerente, e nel 1960 Lockhart e Morson
definirono la colite ulcerosa come entità distinta da quella
granulomatosa. Fino a quel momento, infatti, i chirurghi e
gastroenterologi di tutto il mondo le consideravano come varianti di
una stessa malattia infiammatoria.
E’ utile rammentare che all’epoca dei primi interventi (anni ’20-
’30) l’antibioticoterapia non esisteva, si era agli albori della terapia
endovenosa e le trasfusioni di sangue erano pratiche sperimentali e
pericolose. Per tale motivo, in questa prima fase la chirurgia resettiva
veniva evitata; si effettuavano interventi in “due tempi”, effettuando
prima un’anastomosi laterolaterale fra la zona pre e post stenotica, ed
in un secondo intervento si provvedeva alla resezione del tratto
escluso.
Su questa lunghezza d’onda, Berg nel 1936 descrisse una nuove
metodica operativa per la malattia granulomatosa localizzata al colon
destro: si trattava di una ileosigmoidostomia con l’esclusione del
segmento ileale più distale ed una stomia a canna di fucile sull’ansa
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prossimale del bypass; l’ileostomia permetteva l’isolamento del colon
dal transito fecale e permetteva l’irrigazione del tratto escluso, per poi
essere chiusa in un secondo tempo lasciando un’ansa esclusa. Molti di
questi pazienti furono comunque sottoposti ad un secondo tempo
resettivo dell’ansa esclusa per la persistenza dei sintomi.
Nel 1938 Lewisohn raccolse ed organizzò le esperienze del Mt
Sinai riguardo questa malattia, concludendo che: l’enterite regionale
(o segmentaria) non era una patologia rara; non vi era accordo né
sull’eziopatogenesi né sul miglior trattamento chirurgico da seguire; le
lesioni, pur più frequenti a livello termino-ileale, potevano essere
localizzate a tutto il tubo intestinale; si potevano riscontrare assai
spesso fistole perianali; il by-pass poteva essere curativo in caso di
stenosi ma non in caso di fistolizzazione, per cui era necessaria la
resezione.
Da quel momento in poi l’ileotrasversostomia con ansa esclusa
divenne il procedimento di scelta per il trattamento delle stenosi; nel
1939 Ginzburg, Colp e Sussman presentarono 32 casi di pazienti
trattati secondo questa procedura al meeting annuale della American
Surgical Association; come sopra menzionato, questa tecnica era una
escamotage essenziale in tempi in cui la mortalità per resezione
intestinale raramente scendeva sotto il 20%, come lo stesso Ginzburg
ricorda nel 1955. La successiva osservazione chirurgica che nell’ansa
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esclusa la malattia appariva in forte remissione indusse i chirurghi ad
abbandonare il secondo tempo resettivo, in favore di una strategia
conservativa e meno rischiosa. Questo tipo di strategia venne in
seguito conosciuta come l’operazione del Mt Sinai.
La conferma della validità (per quei tempi) di questo tipo di
intervento venne da uno studio di Garlocke Crohn del 1945, in cui si
dimostrò una mortalità del 16% per resezione primaria, del 12% per
resezione in due tempi e mortalità nulla per l’intervento del Mt Sinai.
Questo intervento cadde in disgrazia nel momento in cui la
comunità chirurgica incominciò ad evidenziare alcuni limiti dello
stesso. Innanzitutto, l’ampia esclusione del colon determinava un
grosso spreco in termini di perdita di capacità assorbitiva, spesso non
giustificata dall’estensione della malattia; Greenstein e colleghi
evidenziarono il rischio oncologico dell’ansa esclusa in alcuni pazienti
che svilupparono adenocarcinoma del piccolo intestino.
Queste osservazioni, unitamente all’enorme avanzamento nelle
conoscenze fisiopatologiche della malattia e nella gestione del
paziente chirurgico, indussero ad una graduale conversione alle
tecniche resettive.
Dagli anni ’70 in poi le tecniche di bypass delle stenosi sono
state totalmente abbandonate, ma le problematiche relative alla
chirurgia resettiva restano. Esse si concentrano essenzialmente legate
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alla demolizione di tratti più o meno ampi di tubo digerente, con le
conseguenze dirette sulle capacità assorbitive dello stesso.
Si aggiunga che, essendo il morbo di Crohn una malattia a
decorso altalenante, è facile che un paziente debba essere trattato
ripetutamente per l’insorgenza di stenosi intestinali in sedi multiple e
metacrone.
In Chirurgia Pediatrica l’evoluzione delle tecniche ha seguito
molto da vicino l’esperienza sul paziente adulto.
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Diventava però via
via più pressante l’esigenza di non trasformare il piccolo paziente in
un martire della chirurgia, da sottoporre a reiterati interventi di
resezione, tanto più fitti nel tempo quanto più precoce fosse l’esordio
di malattia.
Nasceva quindi la necessità di trattamenti nuovi, alternativi e
orientati alla funzione dell’organo malato: una chirurgia adeguata alle
richieste di pazienti che non possono rischiare di vedere compromesso
il proprio sviluppo psicofisico e di andare incontro allo sviluppo di
sindrome da intestino corto. Quindi, come verrà meglio spiegato nel
capitolo dedicato alle tecniche, negli anni ’70 si aprivano le porte alla
nuova era della chirurgia delle stenosi da MC: la stricturoplastica.