3
questa povertà, la parola poetica appare l‘unico luogo dove può 
risuonare (e si pensi alle numerose ‘eco’ presenti nella poesia di 
Campana) “l’arcaica felicità dell’appartenenza alla totalità del cosmo” 
[Monti, 1998: 7]. Totalità, il percorso poetico campaniano muove, in 
consonanza con le grandi esperienze della poesia europea (a partire 
da quella simbolista), dalla consapevolezza della dispersione, della 
separazione, dello “smembramento” di una più vasta unità originaria 
dell’essere, cercando attraverso la lingua della poesia (torna in mente 
l’immagine del pollicino sognante di Rimbaud che “sgrana rime” per 
ritrovare la casa del padre) il suolo dove radicarsi e stare, dove 
rievocare una totalità perduta. Dunque, la lingua come ‘prima radice’, 
non può che essere una lingua che si faccia carico dell’istanza di 
remitizzazione e resimbolizzazione del reale: la parola poetica nel 
tempo della povertà non può che, come già per Holderlin, essere 
mitopoietica. 
      Intendere la poesia come un processo mitopoietico può riportarci 
alle parole con cui un grande studioso della classicità , Karoly Kerenyi 
ha descritto quel sapere senza concetto, quel sapere per immagini che 
era, a suo avviso, l’essenza della mitologia: “in che modo serviva la 
religione antica da “dimora “ all’uomo ?che cosa riceveva l’uomo da 
quel prodotto spirituale?[…] Essa gli dava immagini. Che genere di 
immagini? E che cos’era il contenuto e l’involontario insegnamento di 
quelle immagini? Per esempio delle immagini relative all’immagine 
dell’uomo? alla sua posizione nel mondo? al mondo stesso che lo 
circondava e che dopo veniva chiamato con una parola filosofica 
‘physis‘, ‘la natura’ ?” [Kerenyi,1979
2
: 31]. E’ tramite le immagini offerte 
 4
dalla mitologia che, secondo Kerenyi, l’uomo greco instaurava un 
rapporto col mondo, si sentiva ‘fuso’ con esso. Se tale era il genuino 
compito della mitologia, qual è il senso della presenza del mito nella 
poesia del novecento, ora che l’aria che tocca di respirare è l’aria della 
notte senza dei? Del mondo dal quale gli dei sono fuggiti? 
     Discendere dentro la notte del mondo significa fare esperienza 
nel senso più radicale, andare incontro al pericolo, al rischio di una 
perdita; in questo senso la vita di Campana è eloquente: è l’esperienza 
dello sradicamento che segna il percorso poetico dei Canti Orfici. 
Sradicamento che esprime, negli Orfici, il senso profondo della crisi del 
linguaggio, di quella rottura del patto tra la parola e il mondo, attestato 
dalla lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal, portato evidente di una 
civiltà che non ci appartiene più e correlato evidente di quella cesura 
tra ‘io’ e ‘mondo’ ravvisabile poi in tanta poesia del Novecento (si pensi, 
ad esempio, al tema premontaliano del miracolo ricorrente negli Orfici). 
In Campana, allora, il ricorso al mito manifesta la necessità di 
rovesciare lo scacco e la minaccia del silenzio (si pensi all’ingorgo 
afasico di Genova, nel quale si perde il tentativo poetico campaniano), 
in una nuova aurora del senso, in un dire inaugurale che fondi, instauri, 
un dialogo familiare col mondo. 
     Da questo bisogno occorre partire per interrogarsi propriamente 
sulla presenza del mito nella poesia del Novecento, e nel caso 
specifico nelle opere di Campana. Che ruolo svolge la refigurazione del 
mitico nei Canti Orfici? Perché il poeta sente la necessità di reclamare, 
sin dal titolo (che in ogni opera degna di questo nome non ha mai un 
 5
ruolo casuale o secondario), l’appartenenza del suo percorso poetico a 
un dire ‘orfico’? Non sarà da qui, proprio da qui, che è opportuno 
partire per interrogarsi sulla consistenza, sul ruolo, sui limiti del suo 
‘orfismo’? Dal bisogno, cioè, di tessere attorno a sé una rete di 
immagini viventi, nell’epoca in cui gli dei sono andati via, che, come le 
figure degli antichi dei per i greci, siano per noi l’accesso primario e 
fondativo al reale. 
     La refigurazione del mitico va, dunque, opportunamente letta 
come un ricorso al carattere fondativo della mitologia, ricorso che è 
rintracciabile già agli albori della poesia simbolista se, come ha scritto 
Novalis, il compito della poesia è di creare “un brulichio di forme nuove 
pronte a proiettarsi nel mondo, a dare senso al mondo, a trasformare 
l’ovunque del mondo in una casa“ [Rella, 1994: 20] e se l’imperativo 
Schlegeliano di “rendere romantica la superficie della terra“ [Rella, 
1994: 7] passa attraverso l’elaborazione di una nuova mitologia che 
guarda alla Grecia come suo fondamento. Una Grecia che nei 
romantici e in Nietzsche apre la strada al futuro: il dio dei romantici, il 
Dioniso di Holderlin è ‘der kommende gott’, il dio che deve arrivare. Le 
figure degli dei appaiono cariche di futuro in quanto cantate da dei 
‘veggenti’, da poeti, cioè, che assumono senza mediazioni, da 
protagonisti, il meccanismo genetico della mitologia. E’ l’onda lunga 
della tradizione romantica che arriva, tramite La nascita della tragedia 
di Nietzsche, sino a Campana. E’ il Dioniso orfico, il dio della tragedia 
greca, con le sue laceranti contraddizioni, che ritroviamo nell’epigrafe 
dei Canti Orfici “They were all torn and covered with the boy’s blood“ 
[CO, 1989
2
: 234]. Ma la presenza di Dioniso non va letta come 
 6
manifestazione di una sostanza extratemporale dell’essere, che si 
manifesta mediante gli archetipi (una lettura basata sulla 
fenomenologia del mito di Eliade è stata comunque tentata da Bonifazi 
[1978
2
] nella sua ormai classica monografia su Campana). Se Dioniso 
è il dio dei romantici, di Holderlin, di Campana, lo è perché nelle figure 
di questi poeti si rifrange la problematica dell’epoca, il senso in cui si 
muovono le lancette dell’orologio  
     Se, dunque, il tentativo mitopoietico cerca una strada per un 
accesso genuino al mito, tale accesso, fatalmente, non può 
prescindere da un dialogo profondo con le forme, le figure della 
classicità: “Le grandi figure della tradizione classica“ che “chiudono la 
loro forza tra le ciglia“ [CO, 1989
2
: 157]. 
     A questo punto emerge con chiarezza una questione che non 
può essere ulteriormente elusa: il problema del rapporto con la 
tradizione classica. E’ necessario chiedersi se, e in quale misura, 
l’orfismo campaniano presenta dei punti di contatto con l’orfismo della 
Grecia antica: interrogarsi sulla presenza del mito nella poesia del 
Novecento, sul suo senso e la sua verità, non può prescindere, 
pensiamo, da un confronto con ciò che secondo gli storici delle 
religioni, i filologi, i filosofi è stato l’orfismo nella Grecia arcaica e 
classica. 
Per le ragioni esposte, il presente lavoro intende affrontare il nodo 
critico dell’orfismo, fino ad oggi più eluso che sciolto dalla critica 
letteraria, tentandone una lettura che lo riconduca dentro una 
fenomenologia unitaria, con l’obiettivo preciso di restituire, per quanto 
 7
possibile, concretezza e contenuti ad un concetto altrimenti nebuloso e 
astratto. 
     Secondo le esigenze sopra indicate, la tesi si strutturerà 
affrontando inizialmente la vexata quaestio dell’orfismo in Grecia, 
riportando i termini di un dibattito, a tutt’oggi, molto acceso e ricco di 
una gran varietà di posizioni interpretative, e cercando di sottolineare i 
punti di contatto (ma è impresa assai ardua) tra le diverse teorie e i 
diversi approcci metodologici (antropologici, filosofici, filologici, ecc.) 
che hanno segnato gli studi sull’orfismo. Successivamente, com’è 
lecito che sia, si cercherà di dialogare con gli autori che sono più 
congeniali all’impianto generale della tesi, in particolare modo con i 
lavori di Kerenyi, Otto, Colli, ecc., con coloro, cioè, che, secondo la 
definizione di Furio Jesi si sono sentiti più fenomenologi
1
 che storici del 
mito. Ciò non significa, naturalmente, il venire meno dell’attenzione 
verso le fonti; tuttavia, sebbene l’attenzione al dato positivo resta una 
premessa imprenscindibile per ogni lavoro che aspira a definirsi 
scientifico, ci piace ricordare con Nietzsche che ciò che risulta decisivo 
non sono i fatti, ma le interpretazioni dei fatti, o, detto in altri termini, 
che i fatti appaiono tali solo dentro un’interpretazione, secondo ciò che 
Heidegger ha chiamato circolo ermeneutico: quella circolarità del 
sapere (di ogni sapere) per cui noi ci muoviamo già da sempre dentro 
una pre-comprensione (un’interpretazione) dell’oggetto elevato a tema 
della ricerca. 
                                            
1
 Vedi, avanti, p. 10 
 8
     Un approccio metodologico che rivendichi l’imparziale e 
scientifica neutralità dello sguardo, che formula ipotesi solo a partire da 
dati certi fonti e tradizionali rischia poi di prodursi in una curiosa 
schizofrenia, testimoniata da un passo della Fede negli elleni, l’opera 
che Wilamowitz ha dedicato allo studio della religione greca: “Io stesso 
ho avuto una sua epifania -si riferisce a Pan- quando, mentre 
cavalcavo per una gola dell’Arcadia all’improvviso apparve sopra il mio 
capo, fra le fronde di un albero, un solenne caprone…” [Jesi, 1989
2
: 
54]; giustamente Kerenyi, il più feroce avversario dei filologi alla 
Wilamowitz, dirà “significa ciò attingere a dati certi, a fonti tradizionali? 
Per parte mia vedo qui soltanto due dati reali: il caprone e il professore 
di Berlino”[Jesi, 1989
2
: 78 ]. L’evidente schizofrenia dello sguardo 
contenuta nel passo citato attesta, con grande chiarezza, una evidente 
difficoltà nell’approccio all’antichità propria di Wilamowitz e dei seguaci 
del ‘metodo storico’; se la filologia, in quanto scienza storica, deve 
porsi come obiettivo solo l’accumulo dei dati tradizionali, questo 
esclude qualunque esegesi che sia vivificata dall’intuizione e 
dall’emozione, che trovi in un approccio fortemente simpatetico alla 
grecità la forza necessaria per penetrare e illuminare i dati della 
tradizione, per conferirgli un senso; al più, come fa Wilamowitz, si 
collocano in due teche separate i dati storici rigorosamente ricostruiti e 
le emozioni e le intuizioni del cultore della classicità che, ma non in 
quanto filologo! si abbandona alle epifanie degli dei. 
     L’esempio citato è stato riportato perché non ci sembra che i 
termini del dibattito sull’approccio ai dati dell’antichità si siano spostati 
di molto dall’epoca della querelle tra Nietzsche e Wilamowitz 
 9
sull’origine della tragedia greca; citiamo, per esemplificare, due autori 
contemporanei i cui presupposti metodologici sono evidentemente 
opposti. Da una parte un filosofo come Giorgio Colli ritiene, a proposito 
della sapienza greca (nella cui tradizione a suo avviso rientra l’orfismo), 
che “è alla più remota tradizione della poesia e religione greca che 
bisogna rivolgersi, ma l’interpretazione dei dati non può evitare di 
essere filosofica. Si deve configurare, sia pure in via ipotetica, 
un’interpretazione sul tipo di quella suggerita da Nietzsche per 
spiegare l’origine della tragedia“ [Colli, 1998
2
: 14] e che solo, dato il 
carattere frammentario delle fonti, “la qualità imprevedibile della 
fantasia, la gioia dell’uomo di fronte a visioni terribili [….] accennano al 
nucleo perduto di quella vita” [Arrighetti, 1989: 9], dove è chiaramente 
una visione ‘guidata’ dalla ‘simpatia’ con la sapienza greca a ‘integrare’ 
la lacunosità dei dati. Dall’altra un filologo come West principia il suo 
libro sui poemi orfici ironizzando sulla “magia del canto di Orfeo“ [West, 
1993: 13], che, oltre ad attirare animali ed alberi, “ha attratto un seguito 
più disordinato, una folla eterogenea di romantici e mistici, di impostori 
e poetastri, di filosofi stravaganti e studiosi disorientati“ [West, 1993
2
: 
13], aggiungendo, quindi, che, più che di sapienza, è opportuno parlare 
solo di “letteratura orfica, non di orfismo o di orfici” [West, 1993
2
: 14] 
dato che “questioni che mancano di prove per essere risolte è meglio 
lasciarle irrisolte“ [West, 1993
2
: 14].  
     Testi, dunque, e dati certi contro un’interpretazione della grecità 
che cerca di sposare il rigore filologico (le capacità di Colli come 
filologo sono indubbie) con la ‘risonanza’ che suscita in noi la vita greca 
 10
che “appare come sapienza pur restando vita fremente“ [Colli 1995
2
: 
15]. 
     Le posizioni espresse sull’argomento ‘orfismo’ sono, molto più 
variegate, ma, ovviamente, non è questa nota introduttiva la sede 
opportuna per passarle in rassegna tutte; tuttavia, ci sembra che le 
citazioni degli autori su riportati (per anticipare un tema che 
affronteremo nel capitolo successivo) siano grossomodo 
rappresentative di due linee interpretative ancora oggi affermate. 
     Ci si è soffermati così a lungo sugli aspetti metodologici 
dell’approccio ai dati perché, ormai è chiaro, la questione dell’orfismo, 
della valutazione delle fonti, non appare essere disgiunta da una 
interpretazione complessiva della grecità e del rapporto che la lega a 
noi. Dover fare i conti con un’interpretazione e una valutazione 
dell’orfismo, significa fare i conti con i presupposti di metodo che hanno 
guidato una determinata lettura dei fenomeni; presupposti che sono 
un’evidente conseguenza di una netta bipartizione degli orientamenti di 
pensiero: “Accettare o spiegare, o meglio: studiare il materiale 
mitologico con la consapevolezza che lo studio deve in ultima istanza 
promuovere l’accettazione della mitologia, il ‘bere alla sorgente’ 
(secondo le parole di Kerenyi), oppure con la consapevolezza che lo 
studio deve trovare compimento nella spiegazione delle ragioni per cui 
il materiale mitologico si è plasmato in diverse forme” [Jesi, 1989
2
: 57]. 
     Il capitolo successivo terrà conto di entrambi gli orientamenti 
privilegiando i lavori degli studiosi che non hanno storicizzato e dunque 
sterilizzato il rapporto con il passato (storicizzazione che a nostro 
 11
modesto avviso ha i suoi pesanti strascichi, se è vero che l’avvento di 
una ‘ragione solo ragionante’, che ha espunto i paradigmi mitici, 
relegandoli nell’ambito delle fantasie o delle culture dei popoli primitivi, 
presta il fianco al ritorno del mito rimosso sotto forma di nuove 
aberranti forme di superstizione di massa, che hanno le loro radicali 
conseguenze politiche: Il mito del XX secolo di Rosenberg ne è il frutto 
più infausto), ma che hanno cercato un dialogo con la tradizione. 
    Successivamente si affronterà il problema dell’orfismo nell’opera 
di Campana: si cercherà di vedere se un raffronto con la tradizione 
classica possa contribuire a chiarificare il senso profondo della ripresa 
novecentesca del mito. In seguito, cercheremo di far dialogare la 
nostra interpretazione con le letture dell’orfismo di Campana offerte 
dalla critica novecentesca, la quale, in base alle interpretazioni via via 
date, ha collocato Campana in un orizzonte di volta in volta provinciale 
o europeo. C’è da chiedersi, allora, se una ricognizione critica 
dell’orfismo campaniano, svolta con strumenti critici in parte revisionati, 
possa contribuire a ridimensionare le letture infelicemente 
provincializzanti e riduttive, che, da Contini a Mengaldo (per citare le 
più celebri), si sono susseguite nella storia della critica letteraria di 
questo secolo. 
 
 
 12
 
Capitolo I 
 
La questione orfica 
 
1.  Che cosa è inteso per orfismo? 
 
 
     Orfeo, orfismo sono dei termini ricorrenti, usati dalla critica 
letteraria italiana per denominare esperienze poetiche che tra loro 
presentano delle affinità ma anche molte (troppe) differenze. Sono 
rubricate come orfiche le opere di Mallarmè, Rilke, Campana, 
Rimbaud, Nerval ecc.; la lista potrebbe naturalmente allungarsi, tanto 
da far nascere il sospetto che il nome di Orfeo e il riferimento ad un 
non ben definito “orfismo” siano diventate delle parole passe-partout, 
buone per indicare qualunque tipo di esperienza poetica 
‘genericamente mistica‘. Lascia, infatti, perplessi il ‘vaghismo‘ con il 
quale parte della critica ha affrontato e spesso sommariamente 
liquidato l’argomento; perplessità che nasce dallo smarrimento in cui lo 
studioso, lo studente, o il semplice lettore di poesia cadono non 
appena l’etichetta di ‘orfico’ appare per denominare questo o quel 
passo, questo o quel poema. Lo smarrimento aumenta quando il lettore 
che inciampa su un aggettivo così problematico si chiede quasi 
spontaneamente: che cosa è inteso per ‘orfismo‘? Che cosa intendono 
i critici che individuano una linea orfica nella poesia italiana nel 
novecento? Non che manchino le definizioni, anzi: l’explication 
orphique de la terre in cui consisteva, secondo Mallarmè, il compito 
 13
della poesia intesa come voce dell’assoluto e che, nelle sue 
conseguenze ‘pratiche’, dava luogo ad una poesia che si dissolveva in 
pura suggestione sonora, in squisita e rarefatta musicalità verbale, 
rimanda alle virtù magiche e ‘apollinee’ della musica di Orfeo, alla sua 
capacità di far muovere le pietre e gli alberi, di ammansire le bestie 
feroci. In che misura, però, un così esile riferimento metaforico riguarda 
qualcosa come ‘l’orfismo’, termine, secondo alcuni studiosi della 
classicità, di conio esclusivamente moderno? E soprattutto una 
definizione così generosamente vaga può essere utile alla 
comprensione di un testo, alla sua collocazione, al suo inquadramento 
storico? ‘L’orfismo’ di Celan si risolve nella parola assoluta di 
Mallarmè? Il Campana ‘orfico‘ s’innesta naturalmente nella linea della 
poesia pura, nella voce più rarefatta dell’ermetismo toscano? 
     Sono tutte domande che per trovare risposta necessitano di una 
parziale revisione degli strumenti con i quali tradizionalmente la critica 
opera; nel nostro caso riteniamo necessario rifarsi al background 
storico-religioso. Il rischio altrimenti è di ritrovarsi, sedotti dalla magia 
della musica di Orfeo, con un concetto, l’orfismo, completamente vago 
e virtualmente senza significato. 
     Possiamo parlare di un ‘orfismo‘ moderno, della ricezione del 
mito di Orfeo (che in quale misura poi andrebbe messo in relazione con 
‘l’orfismo’?) prescindendo dal confronto con ciò che esso è stato nella 
grecità? Prima di ridurre il termine ‘orfico’ a puro flatus vocis, a mera 
fantasia mitopoietica affatto moderna, occorre, a nostro avviso, 
chiedersi se un raffronto con l’orfismo in quanto fenomeno dotato di 
 14
una sua concretezza storica (negata, come vedremo, da alcuni 
studiosi) e di una sua tradizione possa contribuire a chiarire il senso 
della sua presenza nella poesia del Novecento. 
     In altre parole, qualunque sia l’atteggiamento del critico di fronte 
a un fenomeno così sfuggente (tra gli studiosi dell’antichità l’orfismo ha 
alimentato un ginepraio di interpretazioni e polemiche), la necessità di 
definirne, per quanto possibile, i contenuti è il primo passo di un’analisi 
che vuol essere seriamente critica. Che poi questo di per sé investa, 
inevitabilmente direi, il senso del rapporto con il passato, di ciò che 
debba essere inteso per mitologia autentica e genuina, è aspetto che 
non può essere eluso bensì affrontato in tutta la sua problematicità. 
L’orizzonte di senso dentro il quale la presente ricerca si colloca è stato 
in parte delineato nella premessa introduttiva, ma vale la pena di 
riportare le parole di uno studioso della ‘nuova mitologia’, Martin Frank: 
“ la questione della ‘originalità’ o dell’’autenticità’ di un mito è però 
problematica [….] l’uso della mitologia [ ….] non si discosta dal lavoro 
del mito ma è al contrario lo sviluppo di quel lavoro, che consiste 
nell’interpretare il mondo e dargli una struttura. Come la mitologia è 
una ricreazione della natura, così essa è a sua volta suscettibile 
d’infinite ricreazioni poetiche“ [Frank 1994
2
: 270]. 
 15
1.2    Orfeo e l’orfismo. 
 
      “ Orfeo dal nome famoso“, così recita un verso di Ibico, lirico 
greco del VI secolo a.C., che rimane a tutt’oggi la più antica 
testimonianza letteraria pervenutaci su un nome così evocativo e allo 
stesso tempo così sfuggente. Il nome di Orfeo, infatti, è ricco di 
risonanze e suggestioni che si assommano in una figura estremamente 
poliedrica e articolata. 
      Secondo Emmet Robbins, la figura che la cultura europea ha 
ereditato dall’antichità ha una triplice personalità: Orfeo è: “not only 
lover and musician but priest“ [Warden, 1982: 3]. L’Orfeo amante 
appartiene al folklore: in moltissimi racconti folklorici ritorna il motivo 
dell’eroe che sfida le potenze delle tenebre per salvare la propria 
amata; l’Orfeo poeta è una figura leggendaria, giacché la leggenda è 
più vicina alla storia del folklore e del mito e il racconto del “gentle 
singer whose gift makes savage nature tame “ [Warden, 1982: 3] non 
racchiude nient’altro che la storia dell’avanzata della civilizzazione e 
delle arti. L’Orfeo teologo e iniziatore ai misteri, infine, è “the most truly 
mythical figure“ [Warden, 1982: 3]. Quest’ultima affermazione rende 
evidente il rapporto tra una figura dai contorni poco definiti è uno dei 
temi più controversi della storia delle religioni: l’orfismo.  
     Prima però di interrogarci sul possibile legame tra la figura di 
Orfeo e la ‘religiosità orfica ‘, sentiamo la necessità di dare forma, per 
quanto possibile, a questa figura nebulosa. 
 16
     Chi è stato Orfeo per i greci? Secondo la versione più diffusa 
Orfeo figlio della musa Calliope e di Eagro (secondo i più il nome 
indicherebbe una divinità fluviale tracia, secondo Kerenyi 
significherebbe ‘cacciatore solitario’) “crebbe in Pieria il paese delle 
muse olimpiche. Apollo sarebbe stato il suo maestro. Il dio lo istruiva su 
quella lira che gli aveva regalato Ermes e che egli a sua volta regalò ad 
Orfeo. Nelle balze selvagge dell’Olimpo il giovane radunava intorno a 
sé, suonando la lira e cantando, gli alberi e gli animali selvatici“ 
[Kerenyi, 1997
2
: 267]. Secondo quanto narrano le antiche storie Orfeo 
sarebbe successivamente sceso nell’Ade per amore della sposa 
Eurydice
2
. La storia ebbe inizio con la fuga di Eurydice davanti a un 
amante indesiderato, Aristeo
3
, fuga nella quale, in seguito a una 
caduta, venne morsa da un serpente e morì. Orfeo in preda al dolore 
vagò per tutta la Grecia, invocandone il nome col suo canto 
lamentevole finché si decise a varcare la soglia del regno dei morti. 
Qui, grazie alle virtù del suo canto riuscì ad ammansire le forze 
selvagge degli inferi: Cerbero smise di latrare, Issione di girare sulla 
ruota, Sisifo di faticare inutilmente, e Persefone commossa dal suo 
canto acconsentì a restituire Eurydice al mondo dei vivi. 
                                            
2
 Il cui nome per Kerenyi rimanda alla figura di Persefone, poiché significa ‘colei che 
giudica in un vasto territorio’. Eurydice, però, è solo uno dei nomi della sposa di Orfeo e 
non il più antico: è attestato per la prima volta in un poema del I secolo a.C., il Lamento 
per Bione. Più antico è l’altro dei due nomi la cui tradizione è meno sicura: Agriope: ’dal 
volto selvaggio’ o Argiope: ‘dal volto luminoso’; anche il nome più antico rimanderebbe 
alla regina del mondo infero. La presenza di Persefone rinvierebbe ad un ambito di 
carattere misterico: diversi studiosi (cfr. [Macchioro, 1930] e con maggior rigore e 
perizia[Colli, 1995
2
) hanno sostenuto la tesi di un rapporto molto stretto tra l’orfismo e i 
misteri eleusini. 
3
 Secondo Kerenyi “ lo Zeus ‘melato’ dei morti, Zeus milichio che si presentava sotto 
forma di serpente altri non era che Aristeo” [Kerenyi, 1997
2
: 269]. Aspetto che 
avvalorerebbe l’ipotesi di un parallelismo tra il ratto di Kore e la morte di Eurydice (che 
viene ‘rapita’ dal mondo dei vivi da un morso di serpente, simbolo dello Zeus ctonio).