2
 
Tuttavia la nuova versione dell’art. 2103 c.c., come rimodellata 
dallo statuto, nonostante i suoi buoni propositi iniziali di svolta 
col passato, ha visto crescere intorno a sé, con una certa 
costanza dall’inizio della sua concreta applicazione, notevoli 
dibattiti dottrinali e giurisprudenziali che si sono sviluppati e, 
che presumibilmente si svilupperanno per lungo tempo. 
Nella maggior parte dei casi, la difficoltà di una precisa 
comprensione della norma  è scaturita dal voler adattare alla 
realtà mutevole ed in continua evoluzione del mondo del 
lavoro, lo strumento precostituito delle mansioni del lavoratore, 
il quale si presenta in più occasioni abbastanza statico e non 
idoneo a rapportarsi al progressivo mutamento delle prestazioni 
lavorative; in altre parole, è come se nella realtà odierna la 
norma codicistica non abbia più quella capacità di stare al 
passo con i tempi. 
L’evoluzione tecnologica, che normalmente incide sul ruolo 
professionale  dei lavoratori, ha da tempo fatto emergere che 
dell’art. 2103 c.c. serve un’interpretazione meno rigida, 
disancorata dalla staticità delle mansioni, in grado di  creare  un 
 3
rapporto interdipendente fra flessibilità del lavoro e tutela 
effettiva dei prestatori di lavoro. Infatti, una maggiore mobilità 
della forza lavoro, ma non senza confini, appare funzionale non 
solo alla razionalizzazione e al  coordinamento  dell’attività 
produttiva nel suo complesso,  ma anche allo stesso lavoratore 
sotto un duplice profilo: sia sotto quello professionale, sia in 
funzione del mantenimento dell’occupazione. E’ dunque 
abbastanza agevole capire come, un uso della forza lavoro poco 
duttile può, in qualche modo, lasciare lo stesso lavoratore legato 
al tipo di professionalità già acquisita e precludergli quella 
benché minima possibilità di apprezzare le sue potenziali 
capacità di adattamento ai nuovi profili professionali, che 
scaturiscono dalla progressiva evoluzione della realtà aziendale. 
 Nonostante tutto quanto premesso, tali esigenze devono però 
viaggiare di pari passo, in un rapporto di stretta collaborazione, 
con l’esigenza primaria della tutela del posto di lavoro; in 
questa direzione è, non di rado, intervenuta la giurisprudenza la 
quale con un’attività capillare ed incisiva ha allargato, sempre 
sotto il suo occhio vigile, il concetto dell’equivalenza, 
 4
attenuando gli effetti della garanzia retributiva, ciò per evitare 
che lo spostamento interno del lavoratore produca un eccessivo 
aggravio economico per il datore di lavoro, riducendo 
lievemente il campo d’applicazione dei patti contrari e 
prevedendo sempre più ampie ipotesi di modificabilità in pejus 
delle mansioni. E’ quindi, in questa nuova luce di maggior 
spazio alla modificabilità delle mansioni che deve essere letto 
l’art. 2103 c.c. se non vuole costituire un ostacolo, diventando 
sempre più punto di frizione allo sviluppo professionale del 
prestatore di lavoro e al mantenimento del suo posto di lavoro.    
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 5
CAPITOLO PRIMO 
 
 
Mutamento delle mansioni 
 
 
 
1. Significato tecnico-giuridico delle mansioni. 
 
     Una disamina attenta e precisa dell’art.2103 c.c., esige in 
prima battuta l’individuazione, almeno concettuale, della 
locuzione ‘mansioni’ del lavoratore. L’accezione ‘mansioni’ è 
presente  anche nell’art. 96 delle disp. att. del codice civile, 
dove è espressamente previsto che, all’atto di costituzione del 
rapporto di lavoro il datore deve far conoscere al prestatore la 
categoria  e la qualifica che gli sono state assegnate, in 
relazione alle mansioni per le quali viene assunto. Prendendo a 
prestito un consolidato orientamento, si può già 
preliminarmente affermare che con il  termine ‘mansioni’ si 
definisce il contenuto dell’obbligazione oggetto del contratto di 
lavoro subordinato, quindi la tipologia di attività lavorativa 
convenuta.  
 6
Le mansioni rappresentano dunque il criterio di 
determinazione qualitativa(
1
) della prestazione lavorativa che il 
datore può esigere dal lavoratore. In un senso ancora più 
elementare, costituiscono l’insieme tipico dei compiti lavorativi 
cui il dipendente  è tenuto ad assolvere: le mansioni si 
identificano perciò nel complesso tipico delle singole unità 
elementari del facere
2
. Precisamente, le mansioni, secondo 
l’accezione tecnico-giuridica del termine, indicano il contenuto 
della prestazione lavorativa che viene in tal modo individuata 
alla stregua dei modelli proposti dall’esperienza organizzativa 
del lavoro all’interno delle aziende(
3
). Alla luce di ciò emerge 
che, nel contratto di lavoro il contenuto delle obbligazioni, 
quindi la stessa prestazione lavorativa, si identifica appieno 
mediante l’indicazione delle mansioni di assunzione(
4
). 
Si comprende, al contrario, che per indicare i vari compiti per lo 
svolgimento dei quali il lavoratore viene assunto, e nei quali è 
scomponibile l’organizzazione del lavoro di una data impresa, il 
                                                 
(
1
) Cfr. F. Liso,  La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Ed. Angeli,  Milano, 1982,  
p. 9. 
(
2
) Si rinvia a M. Brollo, Il codice civile, commentario: La mobilità interna del lavoratore, diretto da 
P. Schlesinger, Milano, 1997, Giuffrè,  p. 4. 
(
3
) Cfr. R. Scognamiglio, Diritto del Lavoro, Napoli, 1997, Jovene,  p. 230. 
(
4
) Cfr. E. Ghera, Diritto del Lavoro: Il rapporto di lavoro, Bari,  2002,  Cacucci,  p. 193. 
 7
termine più consono da prendere a prestito è sicuramente quello 
delle mansioni. Queste ultime si identificano, dal punto di vista 
dell’organizzazione del lavoro con la posizione di lavoro, dal 
punto di vista della struttura dell’obbligazione di lavoro con 
l’oggetto della prestazione lavorativa. Per avere ancora più 
chiara l’idea delle mansioni occorre tener presente che, un 
principio basilare e cardine della moderna organizzazione 
produttiva è rappresentato dalla divisione del lavoro tra coloro 
che sono addetti alla produzione: scaturisce da questo indizio 
che la divisione delle mansioni si traduce nell’articolazione 
delle funzioni e quindi dei ruoli ricoperti nell’ambito 
dell’organizzazione del lavoro. Per essere certi di capire a cosa  
ci si riferisce quando si parla di mansioni, si può, a titolo 
esemplificativo, premettere che  essendo queste ultime di vario 
tipo, una distinzione idonea a rendere l’idea potrebbe rinvenirsi 
in quella che c’è fra operaio addetto alla produzione e, operaio 
addetto alla manutenzione; in questo quadro, il primo è 
preposto al normale funzionamento della macchina,  il secondo 
 8
deve invece assicurare che la macchina funzioni 
normalmente(
5
). 
A completare la trattazione delle mansioni soccorrono in aiuto 
due istituti, precisamente quello delle qualifiche e quello delle 
categorie(
6
). La qualifica indica l’insieme omogeneo di 
mansioni, che il lavoratore dovrà svolgere secondo 
l’assegnazione del datore (es. contabile, saldatore); laddove il 
raggruppamento delle qualifiche in entità classificatorie  più 
ampie da luogo alle categorie. 
Dopo tutto quanto esposto, è supponibile che  il termine 
mansioni rappresenta un dato oramai acquisito in tutte le sue 
sfaccettature, per il quale ulteriori elementi chiarificatori 
sembrano più che superflui. Tuttavia, non va dimenticato che, 
la diffusione dei processi di innovazione tecnologica 
contestuale al veloce sviluppo dei servizi in rapporto alla 
produzione dei beni, hanno reso l’organizzazione del lavoro 
assai diversificata incidendo direttamente proprio sul contenuto 
delle mansioni.  
                                                 
(
5
) Cfr. E. Ghera, op. cit.,   p. 179. 
(
6
) Si  rinvia ad un caposaldo della materia, G. Giugni,  Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, 
Jovene, Napoli, 1963; Cfr. E. Ghera, op. cit., ibidem, p. 179.  
 9
Queste, a causa del fenomeno appena descritto, non risultano 
più contrassegnate da tratti costanti ed uniformi bensì 
suscettibili di variazioni collegate all’andamento dello sviluppo 
tecnologico-produttivo. 
 10
2. L’originaria disciplina sul mutamento delle mansioni. 
 
L’art. 2103 c.c. è quello che meglio di qualsiasi altro 
disciplina le ‘mansioni del lavoratore’, compendiando in sé una 
moltitudine di tematiche inerenti l’evoluzione dinamica del rapporto 
di lavoro: in  particolar modo, il mutamento delle mansioni nonché, 
tutte quelle altre vicende connesse alla mobilità interna del 
lavoratore. L’originaria formulazione codicistica, del 1942, 
prevedeva all’art.2103 c.c.  il potere di modificare unilateralmente 
la prestazione di lavoro; in  parole povere, l’attuazione concreta del 
c.d. ius variandi(
7
). 
La citata disposizione stabiliva che il prestatore di lavoro dovesse 
essere adibito alle mansioni di assunzione, nel contempo si 
riconosceva che se non fosse stato diversamente convenuto il datore 
di lavoro potesse adibire in modo unilaterale il lavoratore a 
mansioni diverse, rispetto a quelle per le quali era stato assunto, al 
fine di fronteggiare le esigenze dell’impresa, tuttavia senza 
                                                 
(
7
) V. G. Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, op. cit., p. 261  “Il c.c. del 1942 
riconosce un potere di modificare unilateralmente l’oggetto del contratto per volontà di una sola delle 
parti non solo nel contratto di lavoro subordinato,  ma anche nel contratto di trasporto e nel contratto 
di appalto” 
 11
provocare un mutamento sostanziale della posizione del lavoratore e 
senza conseguente diminuzione della retribuzione(
8
). 
Nonostante la presenza di questi limiti, abbastanza dilatabili, in 
sostanza l’art. 2103 c.c. riconosceva potenzialmente all’autonomia 
contrattuale    ma in concreto alla volontà del contraente più forte, 
dunque l’imprenditore in veste di titolare del potere di 
organizzazione e direzione dell’attività di lavoro    di stabilire 
consensualmente la variazione delle mansioni. Il particolare mezzo 
utilizzato, adatto alla realizzazione di questa operazione era 
l’eliminazione dall’ambito di applicazione della norma dei 
mutamenti avvenuti con il consenso del lavoratore e, in modo 
direttamente proporzionale, il ricorso alla teoria della c.d. 
acquiescenza(
9
)  del lavoratore, al fine di verificare la presenza del 
predetto consenso. 
 In un contesto del genere, era possibile che ad un lavoratore, 
assunto con mansioni classificate ad un livello  superiore venisse 
ordinato di svolgere mansioni classificate  e, conseguentemente 
retribuite anche in misura minore rispetto alla posizione 
                                                 
(
8
) In questa parte la norma vietava una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale 
della posizione del lavoratore. In dottrina ancora oggi ci sono versioni contrastanti sull’opinione 
congiunta ovvero disgiunta dei due requisiti. V. nel primo senso, G. Zangari, Del Lavoro. Sub art. 
2103, in Commentario al codice civile, Torino, 1993, vol. V, t.1, p. 180;  v.  nell’altro senso F. 
Carinci, R. De Luca Tamajo,  P. Tosi,  T. Treu, Diritto del Lavoro, 2.Il rapporto di lavoro 
subordinato,  UTET, Torino, 1998,  p. 207.  
(
9
) Cfr. F. Liso,  La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, op. cit., p. 143. 
 12
professionale di appartenenza, dunque una netta antitesi rispetto  al 
quanto e al come contrattualmente convenuto.  
Teoricamente il prestatore di lavoro poteva opporsi rifiutando 
l’avvenuto mutamento ma facendo ciò inevitabilmente si sarebbe 
esposto in pieno al rischio del licenziamento(
10
), è dunque per tale 
remora che il lavoratore alla fine accettava di svolgere le nuove 
mansioni,  comportamento questo  che dalla giurisprudenza coeva 
era considerato concludente in senso adesivo, traducendosi 
nell’accettazione tacita delle nuove condizioni di lavoro o, meglio, 
accondiscendo al mutamento in pejus dell’intera posizione 
lavorativa. 
 Ne viene fuori un disegno molto articolato nell’ambito del quale il 
mutamento consensuale di mansioni divenne, in concreto, 
difficilmente distinguibile dal mutamento unilaterale posto in essere 
dall’esercizio dello ius variandi dell’imprenditore, secondo lo 
schema originario del 2103 c.c. . 
                                                 
(
10
) Infatti, fino al 1966 la disciplina vigente in tema di licenziamento individuale dava la possibilità al 
datore di lavoro di procedere a recesso immotivato dal contratto di lavoro. 
 13
3. Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. . 
 
L’art. 13 della l. n. 300/1970    legge meglio nota come  
Statuto dei Lavoratori   ha ridisegnato l’art. 2103 c.c., del quale 
ne ha mutato profondamente l’originario contenuto. 
 La nuova norma, sempre dedicata alle mansioni del lavoratore, 
testualmente recita : “il prestatore di lavoro deve essere adibito 
alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle 
corrispondenti alla categoria superiore che abbia 
successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle 
ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della 
retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il 
prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività 
svolta e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la 
medesima non abbia avuto luogo per  sostituzione di lavoratore 
assente con diritto alla conservazione del posto dopo un 
periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non 
superiore a tre mesi.   
 14
Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad 
un’altra se non per comprovate ragioni tecniche organizzative 
e produttive. 
       Ogni patto contrario è nullo”(
11
). 
Si intravede una specie di irreversibilità della posizione 
professionale del lavoratore, circostanza che scaturisce dal fatto 
che la norma  consente solo la mobilità orizzontale nonché 
quella  ascendente, vietando il passaggio del lavoratore a 
mansioni inferiori anche se intervenisse in questa direzione un 
accordo fra datore di lavoro e prestatore(
12
). Precisamente, la 
novella dell’art. 2103 c.c. ha eliminato quella differenza, già 
contenuta nella precedente formulazione della norma, tra 
mutamento unilaterale e mutamento consensuale delle 
mansioni; infatti, queste ultime due ipotesi rientrano ormai 
nello ius variandi dell’imprenditore.  
                                                 
(
11
) La Cass. Sez. Lav., del  2 luglio 2002,  n. 9580, in Guida al Diritto, n. 32, agosto 2002, de “Il sole 
24 ore”, ha stabilito che, <il divieto di patti contrari di cui al capoverso dell’art. 2103 c.c, pur  
trovando applicazione anche alla contrattazione collettiva, non è di ostacolo a che un nuovo contratto 
collettivo, succeduto a quello precedente, preveda il riclassamento del personale, consistente in un 
riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni, fatta salva in ogni caso la tutela 
della professionalità già raggiunta dal lavoratore quale prescritta dal comma 1 della medesima 
disposizione; talchè è legittima l’attribuzione della nuova  qualifica risultante dal riclassamento, al 
lavoratore le cui mansioni  siano rimaste immutate, mentre sarebbe illegittima l’assegnazione di nuove 
mansioni  non coerenti con la professionalità di quest’ultimo,  ove  anche equivalenti ad altre 
rientranti nella nuova qualifica attribuita a seguito del rilassamento>.   
(
12
) Cfr. L. Galantino, Diritto del lavoro,  Giappichelli, Torino, 1999,  p. 241.