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smembrati, trapassati e fatti a pezzi (anni Settanta e Ottanta), poi attraverso 
corpi smaterializzati e divenuti spettri (fine anni Novanta), infine attraverso 
un ritorno al motivo del corpo tagliato, seviziato, torturato, soddisfante la 
fame sadica dello sguardo dello spettatore di nuova generazione, uno 
spettatore infarcito della violenza delle immagini del crollo delle Twin 
Towers, delle esecuzioni di Al Qaeda, dei video di Guantanamo, delle 
fotografie di Abu Ghraib e di tutta una cultura del guardare che ormai ha 
perso il senso dei propri limiti.  
Nel primo capitolo dunque si tratterà del cambiamento delle relazioni tra 
cinema, realtà e immaginario collettivo, in una società in cui i rapporti tra 
gli uomini sono diventati rapporti fra immagini e in cui il vissuto diventa 
rappresentazione, spettacolarità totalizzante, virtualità generalizzata. Il 
bombardamento di immagini a cui siamo sottoposti quotidianamente mina 
la nostra capacità di distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo 
visto per pochi secondi alla televisione; e tutto ciò che filtra dal tubo 
catodico a sua volta è così spettacolare da essere paragonato a fatto di pura 
finzione: sembra un film.  
L’11 Settembre ha influito non poco nel mandare in cortocircuito la nostra 
percezione della realtà  e nell’azzerare i serbatoi delle nostre peggiori 
paure, sostituendo nuovi orrori e nuovi possibili scenari a quelli 
preesistenti. In tale contesto di confusione ritorna in superficie una paura 
ancestrale che a mio modo di vedere veicola gli atteggiamenti e i rapporti 
tra gli individui nella contemporaneità, e che il cinema, in particolare nella 
sua variante horror, fa trasparire nello schermo per vie anche subliminali: la 
paura del diverso. Il perturbante nel cinema prende forma, dunque, sotto 
l’aspetto di esseri mostruosi che di decade in decade soggettivizzano le 
paure e le colpe più recondite della nostra società, fino a sperimentarle – a 
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partire dagli anni Settanta – dentro di noi, attraverso la perlustrazione 
interiore del corpo. 
Tema fondamentale del secondo capitolo sarà infatti la psicosi del corpo e 
la progressiva perdita di identità del soggetto contemporaneo in una società 
sempre più dominata da una moda estetizzante, eccessiva, tanto attenta 
all’apparenza quanto poco al contenuto. Un momento epocale in cui il 
corpo diventa elemento superfluo, inadeguato in relazione alla diffusione 
sempre più massiccia delle cyberculture informatiche. Non a caso, negli 
anni Settanta e Ottanta si sviluppa un sottofilone del genere orrifico – lo 
splatter – che dissacra il culto del corpo, mostrandone, senza pudore, tutte 
le aberrazioni possibili e (in)immaginabili che esso può subire. Crisi 
d’identità del soggetto, si è detto, concretata nella visione di corpi distrutti, 
fatti a pezzi. Alla fine degli anni Novanta il processo di smaterializzazione  
completa il suo iter nella spettralizzazione del corpo, nel suo divenire 
spettro: la nascita e il successo del J-horror, da questo punto di vista non 
sono casuali, così come tutta una serie di prodotti made in USA incentrati 
su storie di fantasmi a partire da Il sesto senso (1999) di Shyamalan. Legato 
al tema della spettralizzazione del corpo è la messa in crisi della nozione di 
realtà come fenomeno autoevidente – altro sintomo questo di un disagio del 
soggetto nei confronti del mondo in cui vive; nell’era dell’immagine niente 
e tutto è ciò che sembra, la realtà acquista la sua specificità nella forma del 
dubbio, e la paura del diverso sposta il suo baricentro dall’estraneo al 
comune. Farò riferimento a Il seme della follia (1992) di Carpenter per 
spiegare meglio tale concetto. 
Il terzo capitolo costituirà il nucleo centrale e conclusivo del presente 
lavoro, centrando l’attenzione sulla componente sadovoyeuristica della 
contemporaneità, su una cultura dello sguardo mostrante una certa 
predilezione e predisposizione a tutto ciò che di raccapricciante e 
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perversamente sensazionale l’immagine offre, in relazione a una nuova 
forma di patologia culturale che ai nostri giorni diventa sempre più e 
pericolosamente incurabile: la pulsione di morte, intesa, freudianamente 
parlando, come rifiuto della propria individualità e sintomo estremo del 
disagio della civiltà, si estrinseca nell’attrazione dello sguardo verso 
l’immagine della morte violenta. «Il macabro e la morte, la 
decomposizione e il cadavere sono presenti in misura crescente proprio 
nell’epoca in cui il contatto con la morte concreta si fa sempre più virtuale, 
mediato dalla televisione e attraverso le immagini. […] Il lato oscuro 
diventa estetica popolare»1. 
E la fascinazione verso il potenziale trasgressivo dell’evento-morte si fa 
specchio di un momento di crisi che non riguarda semplicemente i valori, 
ma lo stesso statuto del soggetto. Il cinema horror (e non solo) del nuovo 
millennio raccoglie e trasforma in immagini questa pulsione, e ne sintetizza 
gli aspetti più violenti, veicolando temi e figure quali la tortura, la 
distruzione della Bellezza e del corpo, la riduzione dello stesso a feticcio, il 
senso di assedio e la paura del diverso entropizzati nella messa in scena di 
ambienti claustrofobici. Da qui nasce il torture porn o gorno, sottogenere 
del filone orrorifico, che a partire da Saw (James Wan, 2004), diventa uno 
degli strumenti indispensabili per comprendere i meccanismi parafili e le 
ossessioni di una società in cui «la morte diventa l’immagine definitiva 
dello spettacolo e la garanzia della sua verità».2 
 
 
 
                                                 
1
 Fabio Giovannini, Necroculture. Estetica e cultura della morte nell’immaginario di massa, 
Castelvecchi, Roma, 1998, pag. 6 
2
 Enzo Ungari, Immagine del disastro. Cinema, shock e tabù, Arcana, Roma, 1975, pag. 8 
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Capitolo 1   IL PERTURBANTE E LO SCHERMO 
 
1.1   Immaginari orrorifici in mondo visione 
La ricerca, all’interno della cinematografia orrifica del nuovo millennio, dei 
motivi cardine attraverso cui leggere i sintomi delle ossessioni che 
definiscono i lati oscuri della cultura contemporanea necessita di una 
premessa imprescindibile, a partire dalla quale ci si renderà meglio conto di 
come lo shock visivo dell’evento dell’11 Settembre – seguito poi da tutta 
una serie di immagini di fatti di cronaca di violenze e omicidi, dai video di 
Guantanamo alle fotografie di Abu Ghraib, dagli snuff movies dei talebani 
alle stragi in Medio Oriente – abbia contribuito non poco a creare nuove 
forme di orrore e nuove possibilità rappresentative della paura 
nell’immaginario collettivo: tale premessa riguarda il cambiamento dei 
rapporti tra cinema e immaginario collettivo. 
L’horror contemporaneo presenta degli scenari, degli ambienti, delle 
atmosfere, delle situazioni che richiamano alla memoria tante immagini già 
sedimentate nella mente dello spettatore; immagini recenti di torture, 
violenze quotidiane, fatti di cronaca che raccontano di efferati delitti 
commessi senza logica e senza pietà. Immagini provenienti dallo schermo 
televisivo, che funge da filtro e canale di contatto con la realtà esterna. 
Mentre una volta il cinema era il luogo deputato alla creazione 
dell’immaginario collettivo, il canale perfetto per ritrarlo di fronte a un 
fatto o a un periodo storico, adesso diventa altresì contenitore di tutto ciò 
che dall’esterno può assorbire; con questo intendo dire che tutt’oggi è, 
anche e soprattutto, la realtà a creare l’immaginario per il cinema. Non si 
tratta naturalmente della realtà vera, oggettiva, il Reale, per dirla alla Žižek, 
ma di quella filtrata dalle immagini spettacolarmente violente della 
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televisione. Da un lato dunque i numerosissimi lavori cinematografici 
(soprattutto di ambito catastrofico e fanta-orrorifico) hanno  abituato la 
mente delle persone a “familiarizzare” con le tragedie della quotidianità e 
la violenza dello spettacolo  che la televisione manda in onda,  come se 
l’immaginazione umana contemporanea fosse in qualche modo atrofizzata 
dal bombardamento mediatico e immaginifico cui l’occhio è sottoposto 
ogni giorno; dall’altro è pur vero che, di rimando, quel che vediamo al 
cinema lo abbiamo già visto in maniera reiterata, nei fatti di cronaca 
trasmessi giornalmente dal piccolo schermo. Ciò che l’horror 
contemporaneo propone allo spettatore è una messa in scena di fatti e 
personaggi e situazioni che, sebbene trattati finzionalmente hanno la grande 
capacità di coinvolgere e attrarre la curiosità della gente, nonché spaventare 
e traumatizzare la psiche, proprio perché ancorati a un sostrato di 
quotidianità che li rende verosimilmente possibili, “reali”, in quanto 
restituenti delle immagini provenienti dall’universo televisivo dei 
telegiornali. 
 L’11 Settembre rappresenta in tal senso una vera e propria cesura rispetto a 
certi canoni del passato; per quanto riguarda l’immagine mass-mediatica 
esso ha dato un apporto fondamentale alla spettacolarizzazione dell’orrore 
e alla ridefinizione della cultura e dell’immaginario collettivo 
contemporanei. Il cinema si è fatto (in)cosciente specchio della situazione 
di crisi che ci siamo trovati costretti a fronteggiare, mettendo in scena 
attraverso i canoni dei principali generi – horror in primis – storie e 
situazioni che rispecchiano la paura,  l’impasse, il rifiuto o la rabbia che ne 
derivano.   
 
Ballardianamente l’11 Settembre, pur essendo il ground zero 
dell’immaginario collettivo contemporaneo,[…] è stato soprattutto “una 
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mostra delle atrocità”, il più sconvolgente terremoto psichico della società 
occidentale. […]Un’epifania di massa e collettiva (del Male? Dell’Altro?) 
che nessuno ha veduto: c’eravamo tutti ma nessuno sa cos’è accaduto.[…] Il 
buco del ground zero, come una sorta di buco in un tessuto che si riteneva 
inviolabile, impenetrabile, rappresenta davvero il crollo interiore di una 
percezione della realtà, di un principio di individuazione oramai 
insufficiente. La spinta centripeta dell’evento segna l’inversione da un 
movimento esogeno a uno endogeno. Nulla è come sembra. Anzi, no. Tutto 
è proprio come sembra; non lo si vede perché tutto è in superficie.3 
 
La società contemporanea, la società dello spettacolo, per dirla con Guy 
Debord, è impegnata nella ricerca ossessiva di immagini e di simboli. La 
costruzione dello spettacolo passa per l’affermazione e la sacralizzazione 
dell’immagine, considerata quale unità costitutiva della società reale, non 
secondo un semplice processo di accumulazione, che spoglierebbe 
l’immagine della sua vis maior, ma a causa della sua realizzazione come 
strumento di rappresentazione univoca della realtà4. Il mondo sensibile 
cessa di esistere in senso ontologico per divenire pura raffigurazione del 
mondo “soprasensibile”, «il principio del feticismo delle merci, il dominio 
della società mediante delle cose sensibilmente soprasensibili, che si 
compie in grado assoluto nello spettacolo, dove il mondo sensibile è stato 
sostituito da una selezione di immagini che esiste al di sopra di esso, e che 
nello stesso tempo si è fatta riconoscere come il sensibile per eccellenza»5. 
Debord prefigura analiticamente un sistema sociale fondato su dati 
iperreali, e quindi soprasensibili, mediati dagli apparati comunicativi. In 
questa prospettiva il messaggio è l’imago, termine che etimologicamente 
                                                 
3
 Giona A. Nazzaro, Il complotto del tempo al tempo dei complotti in Andrea Fontana (a cura di), Il 
cinema americano dopo l’11 Settembre, Morpheo Edizioni, Rottofreno(PC), 2008, pp. 274-275 
4
 Confr. Eros Torre, L’irriproducibilità dello spettacolo, in Andrea Fontana (a cura di), Il cinema 
americano, cit., pp. 288-289 
5
 Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castaldi, Milano, 2004, pag. 67