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INTRODUZIONE: 
PER UN’ETICA DELLA SOLITUDINE 
 
Esperienze personali e fatti di cronaca mi hanno portato a riflettere sul significato che l’uomo ha all’interno 
della società in cui vive. Può l’uomo con-vivere sempre con gli altri? Può l’uomo essere compreso dalle 
persone che gli stanno intorno, siano essi amici, parenti o amanti? Nella vita quotidiana, ha l’uomo la 
possibilità di capire i valori, il credo e le idee di coloro che operano intorno a lui? 
La risposta istintiva che mi sono dato è negativa: nell’uomo esistono zone d’ombra che, anche se illuminate 
razionalmente dall’Io stesso, non possono essere comunicate in larga parte agli altri, vuoi per le lacune del 
linguaggio, vuoi per una debole ricettività dovuta agli altri a causa di esperienze diverse che creano 
altrettante formae mentis, vuoi per una sorta di disinteresse verso ciò che non riguarda in primo luogo se 
stessi. 
Le capacità immaginative e catartiche dell’uomo tuttavia lo portano a sperimentare più di quanto 
effettivamente gli sia possibile: il che equivale ad un tentativo di avvicinarsi agli altri sottoforma di 
domande, che esprimono una curiosità di fondo che l’uomo ha in sé nei confronti di ciò che accade intorno 
a lui. Ma questa esperienza mentale rimane sempre del tutto personale: ciò che gli altri sperimentano sulla 
propria pelle sono contenuti non condivisibili totalmente e pertanto non interscambiabili. Una persona che 
potesse introdurre in sé l’esperienza di tutto il mondo non potrebbe che essere simile a Dio. 
L’uomo di conseguenza mi è sempre sembrato un anacoreta sui generis: pur vivendo in società, egli rimane 
isolato per lo meno per gli aspetti fondamentali della vita. L’uomo è solo, aperto al mondo eppure chiuso in 
se stesso, dotato di barriere cristalline tramite cui vede ma imprigionato in esse senza possibilità di 
movimento ad ampio raggio. 
C’è chi vive tale situazione come una risorsa, in cui l’Io, prima di darsi totalmente al resto del mondo deve 
trovare la sua piena realizzazione e comprensione; c’è chi invece la vive come un isolamento totalizzante, in 
cui la solitudine assume un connotato negativo. Condizione, questa, a mio modo di vedere dettata da un 
credo contemporaneo, nato e cresciuto nei laboratori dell’economia, della politica e della massificazione, 
per cui l’individuo non è nulla, mentre il gruppo è ciò che conta. A causa di questa abitudine del pensiero, 
imposta dall’alto e non congenita all’uomo, l’individuo viene appiattito nella massa, che non è molteplicità 
di individui ma quasi Leviatano totalizzante, in cui lo spazio per la propria personalità è schiacciato da un 
pensiero sintetico. 
In ciò forse sono stato influenzato da romanzi come Il mondo nuovo di Aldous Huxley o 1984 di George 
Orwell o ancora Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, ma anche dalla biografia eroica di Caravaggio o solipsistica 
di Giacomo Leopardi, o ancora dal concetto dello spazio discreto, dall’infinito di Zenone e dal pensiero 
esistenzialista di Heidegger; e ho detto solo alcuni nomi di tutta una serie di autori, artisti e pensatori che, 
in misura minore o maggiore, hanno contribuito a formarmi e da cui ho attinto. 
Un mio lavoro poetico, Nuovi Profumi Universali, in forma non discorsiva e forse per questo non del tutto 
soddisfacente intendeva dimostrare che l’Io si costruisce da dentro, prima di darsi all’esterno, e solo da 
dentro prende forza. Nei vari tentativi di trascrivere organicamente in una prosa saggistica il mio pensiero, 
mancava sempre lo spunto lessicale o il collegamento tra le varie manifestazioni di questo Io, solo ma pur 
sempre sociale. 
Il presente lavoro vuole essere quindi un inizio per tentare di pensare questa duplicità dell’Io, senza però 
mancare di sottolineare come esso rimanga fondamentalmente isolato: un’etica della solitudine dovrebbe 
indicare la via per mostrare come questo isolamento non debba essere interpretato in chiave negativa, ma 
possa effettivamente costituire una risorsa all’interno di un mondo in cui l’Io non esiste più o è relegato nei 
social network in forma del tutto virtuale e impotente. 
  
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L’UNICO ANELLO 
 
Nel 1961, anno in cui venne dato alle stampe il volume di Emmanuel Lévinas Totalité et Infini, erano già 
arcinoti altri due libri, di genere e stile completamente diversi, scritti da uno studioso inglese di linguistica e 
filologia, John Ronald Reuel Tolkien: si tratta di The Hobbit (1937) e di The Lord of the Rings (1954-1955). 
Non c’è un collegamento tra le due tipologie di opere, l’una un saggio di filosofia, gli altri due romanzi 
fantasy; eppure, entrambi gli autori si rifanno al medesimo mito, che costituisce così il ponte che chiude il 
triangolo. 
Il mito in questione, di cui si parlerà più avanti, ha come protagonisti un anello d’oro, bello e misterioso, 
che risiede nei recessi della terra, nascosto, e un personaggio curioso e pure fortunato, che usa questo 
anello per i propri scopi. 
Sembra di leggere proprio la storia raccontata in The Hobbit prima e in The Lord of the Rings poi1! Colui che 
trova l’anello e che lo utilizza, divertendosi, è Bilbo Baggins, uno hobbit curioso e avventuroso. Ne Lo Hobbit 
si racconta del momento in cui Bilbo trova l’anello: egli è all’interno di una montagna, si è perso e tenta di 
trovarne l’uscita mentre scappa inseguito dagli Orchi… 
 
La testa gli girava, ed era ben lontano dal sapere con un minimo di sicurezza in quale 
direzione stessero andando quando egli era caduto. Tirò ad indovinare, e avanzò 
strisciando per un po’, finchè improvvisamente la mano andò a sfiorare per caso qualcosa 
che al tatto sembrava un sottile anello di metallo freddo, giacente sul fondo del tunnel. 
Bilbo era a un punto cruciale della sua vita, ma non lo sapeva2. 
 
Con questa prolessi, inizia un’avventura in cui Bilbo scopre le qualità di questo freddo anello, in modo 
particolare quando verrà inseguito, più tardi, da una creatura indefinibile, Gollum… 
 
[…] avanzava ansimando e inciampando. Mise la mano sinistra in tasca. L’anello gli sembrò 
molto freddo mentre si infilava quietamente nell’indice che lo andava cercando. 
Il sibilo, ora, era proprio dietro di lui. Si girò e vide gli occhi di Gollum che salivano su per la 
china come piccole lampade verdi. Terrorizzato, cercò di correre più forte, ma 
improvvisamente urtò col piede contro una sporgenza del terreno e cadde bocconi con la 
spada sotto di sé.  
In un attimo Gollum gli fu sopra. Ma prima che Bilbo potesse fare qualcosa, riprendere 
fiato o tirarsi su, o brandire la spada, Gollum lo sorpassò senza accorgersi affatto di lui, 
imprecando e sussurrando mentre correva.3 
 
Scopre così che l’anello ha un magico potere: quello di rendere invisibile colui che lo indossa.  
Passano gli anni e Bilbo non rivela a nessuno la sua scoperta. Il giorno del suo centoundicesimo 
compleanno, nel villaggio in cui abita, Hobbiville, viene data una festa in suo onore, cui sono invitati quasi 
tutti gli abitanti. Bilbo è ovviamente l’ospite d’onore e gli viene chiesto di fare un discorso: è il momento 
ideale per fare uno scherzo divertente, in cui l’anello ha il suo compito… 
 
                                                           
1
 Per i riferimenti testuali mi servirò delle traduzioni italiane delle opere di J.R.R. Tolkien, curate dalla casa editrice 
Bompiani: Lo Hobbit o la riconquista del Tesoro, Milano, VIII edizione, 2002; Il Signore degli Anelli, La Compagnia 
dell’Anello, Milano, X edizione Tascabili, 2002. 
2
 Lo Hobbit, op. cit., capitolo V, Indovinelli nell’oscurità, p. 117. 
3
 Ivi, p. 133. 
 6 
 
“[…] desidero fare un annuncio. […] Mi rincresce dovervi comunicare che quantunque, 
come vi ho detto prima, centoundici anni trascorsi in mezzo a voi siano davvero troppo 
pochi, ora è giunta la fine. Me ne vado. Parto subito. Addio!” 
Scese dalla sedia e scomparve. Una luce accecante abbagliò per un attimo gli invitati. 
Quando aprirono gli occhi, non c’era più nessuna traccia di Bilbo. Cento quarantaquattro 
hobbit stralunati caddero a sedere. […] Erano tutti scandalizzati dal cattivo gusto dello 
scherzo […]. 
[…] Quanto a Bilbo Baggins, fin dalle prime parole del discorso, aveva giocherellato con 
l’anello d’oro nascosto in tasca: il suo magico anello che era riuscito a mantenere segreto 
per tanti anni. Mentre scendeva dalla sedia se lo infilò al dito, e nessun Hobbit lo vide mai 
più a Hobbiville.4 
 
Le avventure di Bilbo Baggins e dell’anello misterioso proseguono, ma non interessano più per lo scopo di 
questo lavoro. E’ chiaro comunque che ci sono alcuni aspetti interessanti da sottolineare: innanzitutto, 
l’anello viene trovato casualmente da una persona che in quel momento è occupata in una azione 
totalmente diversa da quella che prevede il ritrovamento di un monile; in secondo luogo, l’anello possiede 
un magico potere, quello di rendere invisibile chi lo indossa; infine, la persona che viene così a possederlo 
intende utilizzare l’anello con fini personali, sebbene coloro che subiscono le azioni non siano del tutto 
felici. 
E’ questa la medesima conclusione cui si arriva alla lettura del mito, cui si accennava sopra. Si tratta del 
mito di Gige e dell’anello, raccontato nel secondo libro della Πολιτεία di Platone. Esso si inserisce in un 
dibattito riguardante la giustizia, ovvero se essa sia più o meno conveniente dell’ingiustizia, cui partecipano 
i protagonisti del dialogo: Socrate, Glaucone, Polemarco, Trasimaco, Adimanto e Cefalo. Proprio Glaucone, 
onde dimostrare che nessun uomo è così virtuoso da poter resistere alla tentazione di compiere azioni, 
anche terribili, se gli altri non lo possono vedere, racconta questo mito:  
 
[…] Gige, antenato di Creso, re di Lidia […] era al servizio, in qualità di pastore, del sovrano 
che allora regnava in Lidia. Un giorno, durante un violento terremoto accompagnato dal 
temporale, la terra si spaccò e produsse una fenditura nel luogo in cui egli faceva 
pascolare il gregge. Gige la vide e scese giù pieno di stupore. Fra le molte meraviglie che 
scorse c’era, a quanto si narra, un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi infilò il 
capo e vide là dentro un cadavere di dimensioni sovrumane, assolutamente spoglio ma 
con un anello d’oro in una mano. Gige se lo mise al dito e uscì. Con tale anello partecipò 
anch’egli alla consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato 
del gregge. Ma mentre era seduto con i compagni girò per caso il castone dell’anello verso 
di sé, all’interno della mano; e così divenne invisibile, e quelli seduti accanto a lui dissero 
che se n’era andato via. Egli allora, stupefatto, toccò di nuovo l’anello, voltò il castone 
verso l’esterno e appena l’ebbe voltato ritornò visibile. […] Non appena ebbe compreso 
ciò, fece in modo di essere incluso fra gli informatori del re. Giunse alla reggia, divenne 
l’amante della regina e con lei congiurò contro il re, lo uccise e prese il potere. 5 
 
Anche qui, dunque, un anello d’oro è il mezzo tramite cui si compie un inganno, sebbene più grave di quello 
messo in atto da Bilbo Baggins; inoltre, anche qui, l’inganno è mezzo attraverso cui il possessore dell’anello 
raggiunge uno scopo. Le due vicende, dunque, sono similari e rimandano, ciò che interessa allo scopo di 
                                                           
4
 Il Signore degli Anelli, La compagnia dell’anello, op. cit., capitolo I, Una festa a lungo attesa, pp. 58-59. I corsivi sono 
dell’autore. 
5
 Platone, Repubblica, Bruno Mondadori, Milano, V edizione, 1995, pp. 99 e 101.