2
 
I. 1 Dal Fordismo al PostFordismo 
 
L’epoca moderna ha conosciuto il suo apogeo con il modello di 
organizzazione economico-sociale sviluppatosi negli stabilimenti di Henry 
Ford a Detroit, attraverso la razionalizzazione dei principi elaborati 
precedentemente alla prima guerra mondiale da F.W. Taylor, riguardanti la 
cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro (OSL), volta ad elaborare le 
metodologie di lavoro migliori a cui addestrare il lavoratore per ottimizzare 
tempi e costi della prestazione. L’impresa in questo caso era considerata 
come un’organizzazione superiore alla semplice somma dei fattori (beni e 
persone) che ne facevano parte [Bonazzi, 1998]. 
E’ ben noto quali siano i precetti che caratterizzarono la progressione 
del mondo del lavoro nel ‘900 e per i quali è stato coniato il termine 
Fordismo
1
, ormai diffusamente riconosciuto ed utilizzato per connotare il 
modello organizzativo
2
 delineatosi con il passaggio dalla c.d. craft 
production alla c.d. mass production. Modello, questo, che ha dato origine 
al mercato come lo intendiamo nell’attuale accezione, basato cioè su 
economie di scala e di scopo, e che ha caratterizzato l’evoluzione di grandi 
organizzazioni d’impresa basate sulla specializzazione funzionale e la 
minuta divisione del lavoro, stimolando la produzione di una serie di 
politiche pubbliche, istituzioni e meccanismi di governo volti a mitigare i 
                                                          
1
 Antonio Gramsci, a cui si deve la prima definizione del Fordismo, lo descrive come il 
“passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica” [Gramsci, 
1997: 414] 
2
 Occorre ricordare però come il Fordismo, così si evidenzierà per il post-Fordismo, 
rappresenti anche un modo di regolazione sociale. 
 3
fallimenti del mercato e a migliorare le moderne pratiche industriali
3
. 
[Polanyi, 1984] 
Ebbene, vissuto il suo periodo aureo questo sistema organizzativo è 
entrato una prima volta in crisi a seguito del tracollo del mercato 
immobiliare negli anni ’60. Infatti, le imprese diedero impulso ad un’ondata 
di ristrutturazioni volte ad aumentare le proprie capacità di reattività e 
d’innovazione, caratteristiche necessarie per poter far fronte alle 
sopravvenute difficoltà di gestione delle immobilizzazioni economiche a 
lungo termine e degli investimenti su larga scala, che presuppongono un 
mercato in continua espansione, e per sopperire alle rigidità strutturali del 
mercato del lavoro, sia dal punto di vista dell’allocazione della forza lavoro 
sia da quello della contrattazione [Hobsbawn, 1995]. 
Negli ultimi decenni la crisi del sistema organizzativo fordista si è 
accentuata e si è dunque avviato un periodo di transizione storica 
attualmente ancora in corso, il cui inizio può essere collocato 
cronologicamente a ridosso dello shock petrolifero del 1973
4
, che ha 
evidenziato un profondo ed irreversibile mutamento della società 
occidentale e, in particolare, del mondo del lavoro. 
L’economista Pierre Veltz
 
individua, quali principali fenomeni di 
cambiamento dei principi di organizzazione aziendale connotanti questo 
                                                          
3
 L’insieme di questi elementi costituisce il cosiddetto modello di welfare fordista-
keynesiano. 
4
 Con l’aumento del costo del greggio deciso dall’OPEC e il blocco delle esportazioni dei 
paesi arabi durante la guerra arabo-israeliana si ha quello che Hobsbawm ne “Il Secolo 
Breve” definisce l’inizio della prima recessione postbellica. Periodo che, pur non 
registrando il crollo dell’economia mondiale, almeno nei paesi occidentali, segnala il 
ritorno di problematiche che, sempre secondo l’Autore, erano state eliminate durante la 
cosiddetta età dell’oro (1950/1970): la disoccupazione nelle aree della Comunità Europea 
sale dagli anni ’60 agli anni ’70 dal 1,5% al 4,2%; si susseguono periodi di interruzione 
della crescita economica (1973/75; 1980/82; fine anni ’80); cresce la disuguaglianza 
economica e sociale. 
 4
periodo di transizione, i seguenti: 
 Operazione: la suddivisione del lavoro in unità elementari non è più 
efficace per le moderne modalità di produzione, siccome queste 
necessitano di un grado di elasticità elevato che permetta di svolgere 
mansioni sempre più despecializzate e polifunzionali; 
 Co-operazione e linearità del passaggio tra efficienza locale e globale: 
l’efficienza delle singole operazioni appare oggi non necessariamente 
collegata all’efficienza del sistema; 
 Specializzazione temporale ed organizzativa dei modelli di 
apprendimento ed organizzazione: l’esigenza di flessibilità e la necessità 
di formulare risposte appropriate all’interno del mercato rendono 
inevitabilmente più fluido il rapporto tra innovazione ed apprendimento; 
 Specializzazione per funzione: risulta sempre più complesso definire le 
posizioni all’interno di un’impresa e gestire l’impresa stessa attraverso 
un’organizzazione strettamente gerarchica, i ruoli risultano, infatti, 
decisamente fluidificati, con una gerarchia sempre meno rigida e sempre 
più basata sull’interazione del gruppo di lavoro. [Veltz, 1994] 
Il modello che più di ogni altro interviene sui precedenti elementi 
critici e segna il punto di svolta dal Fordismo al post-Fordismo è il c.d. 
toyotismo
5
, elaborato appunto negli stabilimenti Toyota in Giappone, che 
individua ed elabora taluni principi profondamente innovativi, veri e propri 
cardini connotanti l’organizzazione aziendale post-fordista.  
Il post-fordismo si basa, infatti, sul passaggio dalla c.d. mass 
production alla c.d. lean production, ovvero produzione snella, in cui 
l’impresa deve adeguarsi a rispondere ad esigenze di mercato sempre più 
                                                          
5
 Per alcuni autori si tratta però soltanto di una variante del modello fordista [Rullani, 1999] 
 5
personalizzate e di qualità. Si attua così la seconda trasformazione 
dell’organizzazione del lavoro del 1900: la produzione flessibile, che trae 
fondamento dallo snellimento delle reti di comunicazione all’interno 
dell’azienda, dal lavoro per progetto di gruppi multidipliscinari (teamwork), 
dal controllo di qualità di ogni passaggio della produzione (total quality 
management), dalla riduzione delle scorte di magazzino in favore di 
un’accelerazione della risposta alle richieste del mercato (just in time). 
Questo cambiamento riflette la diminuzione dell’importanza delle 
economie di scala e di scopo ed è connotato dalla riduzione dei costi delle 
comunicazioni, della logistica e dei processi di informazione: fattori che 
risultano fondamentali per fronteggiare la competizione crescente
6
. 
I nuovi modelli aziendali si sono costituiti, infatti, grazie anche allo 
sviluppo della c.d. information technology. In particolare, la telematica - 
unitamente all’evoluzione del sistema dei trasporti - può essere considerata 
il mezzo che ha cambiato radicalmente il modo di lavorare e di comunicare, 
diminuendo i costi del lavoro ed incrementando la velocità di risposta alle 
esigenze del mercato
7
, ma anche permettendo all’azienda di spostare la 
produzione dove questa risulta maggiormente conveniente attraverso i 
processi di esternalizzazione e delocalizzazione. Appare in questo senso 
centrale il ruolo del territorio
8
, sul quale sono dispiegati i fattori produttivi, 
che viene a rappresentare il luogo dove trovare manodopera e condizioni 
ottimali per competere sul mercato. [Bonomi, 1997] 
                                                          
6
 Pierre Veltz osserva un mutamento negli stessi processi di competizione, che comporta 
una complessiva trasformazione degli obiettivi della produzione: si passa infatti alla 
competizione basata sui costi del Fordismo (collegata all’economia di scala e alla 
produzione di massa) alla competizione basata sulla differenziazione del post-Fordismo 
(collegata ai tempi della produzione). 
7
 Si parla in questo caso di società basata su un’economia della velocità [Accornero, 1997] 
8
 Come la fabbrica era l’elemento centrale del Fordismo, il territorio è quello del post-
Fordismo. [Accornero, 1997] 
 6
L’impresa postmoderna incrementa la dinamicità del contesto 
economico locale di riferimento (natalità/mortalità delle imprese) e, al 
contempo, richiede una riorganizzazione dell’economia del territorio stesso, 
ad esempio attraverso la creazione dei reticoli industriali integrati come 
nelle zone industriali del Nord-Est in Italia, del Rhone Alpes in Francia, 
della Catalogna in Spagna [Bonomi 1997; Zucchetti, 1996]. 
In questo contesto anche la grande azienda, che rappresentava il 
fulcro del modello fordista, ha iniziato un processo di differenziazione, 
articolandosi in strutture maggiormente autonome che permettano elevati 
gradi di flessibilità, sotto l’aspetto produttivo, logistico e organizzativo. 
Grazie ai mezzi tecnologici ha inoltre l’opportunità di operare in continua 
interazione con il mondo esterno, composto non solo da consumatori-clienti 
e dalla offerta di forza lavoro, ma anche da tutto l’indotto che costituisce la 
c.d. impresa molecolare tipica della società postmoderna. [Bonomi, 1997] 
Per poter rispondere alle turbolenze del mercato, però, l’azienda 
necessita anche di una crescente flessibilità da parte della forza lavoro, a cui 
si devono aggiungere un elevato grado di autogestione e coinvolgimento, sia 
da parte dei c.d. knowledge workers, sia da parte dei lavoratori manuali. 
Inoltre, emerge ad evidenza come in questo periodo di transizione il mercato 
del lavoro richieda competenze sia vecchie che nuove, aumentando la 
complessità dell’incontro tra domanda e offerta in situazioni già di per sé di 
asimmetria informativa, quali sono la ricerca di lavoro e la selezione di 
personale: si pensi a questo proposito al ruolo essenziale espletato dalle reti 
informali nei processi di assunzione. 
Occorre però aggiungere che con la richiesta di flessibilità da parte 
del mercato del lavoro aumentano sia l’autonomia, sia il rischio di 
 7
discontinuità – volontaria o involontaria - dell’impiego, per cui da un lato il 
lavoratore avrà maggiori opportunità di trovare un impiego appagante; 
dall’altro lato necessiterà non solo della professionalità richiesta, ma anche 
di competenze trasversali (motivazionali, cognitive e socio-relazionali) che 
gli permettano di rielaborare i cambiamenti relativi ai contenuti del lavoro e 
di costruirsi un’identità sociale attraverso ruoli diversi. L’accentuarsi della 
mobilità comporta, infatti, la necessità di un percorso in cui formazione, 
esperienza personale e professionale interagiscano per costruire l’identità 
lavorativa di persone che cambiano ruolo, mansione e talvolta mestiere più 
volte nell’arco della vita lavorativa.
9
 
In questo contesto di incertezza e contrasto tra le richieste delle 
aziende e dei lavoratori è venuto meno il ruolo che il modello fordista aveva 
di “mediatore sociale” nel mantenimento del rapporto tra singolo e 
organizzazione, senza che nel periodo post-fordista si siano elaborate 
risposte efficaci alla problematica della costruzione del rapporto 
individuo/struttura.
10
  
Occorre, infine, aggiungere come il modello post-fordista implichi 
un concetto stesso di lavoro diverso dal Fordismo. La società postmoderna, 
come quella moderna, si fonda pur sempre sul lavoro - o sui suoi “riti 
perpetuati nel tempo”, come sostiene Viviane Forrester [Forrester, 1999:17] 
- ma il lavoro va perdendo la sua connotazione di termine astratto non 
numerabile, per declinarsi al plurale. Il lavoro di cui si discute oggi è un 
termine concreto che definisce forme nuove di lavoro, non del tutto 
                                                          
9
 Accornero parla di traccia di cittadinanza: un’anagrafe generale del lavoro che 
comprenda questi aspetti, in modo che le competenze acquisite non si perdano da 
un’esperienza ad un’altra. 
10
 In termini di classi, la sociologia politica definiva il Fordismo come “paradigma sociale 
generale”, fondato sul patto sociale tra classi in funzione della distribuzione della ricchezza. 
[Salvatore, 1996] 
 8
subordinate né autonome, informali, sommerse, flessibili, interinali, etc.. 
La società attuale viene definita “società dei lavori” [Accornero, 
1997] proprio per indicare il processo di de-standardizzazione e 
sburocratizzazione dell’archetipo di lavoro del Fordismo-Taylorismo. 
Processo che ha creato “una realtà inafferrabile, magmatica, caotica, che 
cambia qualità e connotati ad una velocità impressionante”, in cui 
“diversamente dalla società industriale, oggi è tutto più difficilmente 
prevedibile”. [Passerini, 1998:9] 
 
I.2 La crisi del Fordismo: l’interpretazione della scuola della 
regolazione 
 
La crisi del Fordismo è stata efficacemente analizzata negli studi 
sistemici della c.d. “Ecole de la Régolation” francese, che negli anni ’70 del 
1900, attraverso i lavori di Michel Aglietta, Benjamin Coriat, Alain Liepietz 
ed altri, ha posto l’attenzione su due fattori dinamici del processo attraverso 
il quale il capitalismo internazionale supera le crisi interne al suo sistema e 
le implicazioni sulle relazioni capitale-lavoro: 
 Il regime di accumulazione, ovverosia quel particolare ordine di 
produzione, tecnologia e consumo che si mantiene stabile per un lungo 
periodo, che nel caso del Fordismo è rappresentato dal consumo di 
massa; 
 I modi di regolazione, dunque l’insieme delle regole istituzionali e delle 
procedure sociali che governano l’attività economica in una società. 
Robert Boyer, uno dei principali rappresentanti della teoria della 
regolazione, spiega come l’approccio di questa scuola tragga origine, 
 9
innanzitutto, dal rifiuto dell’individualismo metodologico proprio della 
scuola neo-classica, che spiega i fenomeni sociali interamente in termini di 
aspetti individuali (quali razza, classe e genere) che determinano il posto 
occupato nelle categorie sociali esistenti. [Boyer, 1990] 
Ad esempio, gli economisti neoclassici sostengono che gli individui 
si collocano sugli scalini sociali del lavoro secondo fattori quali la personale 
scelta di educazione o della professione e la domanda per certi beni prodotti 
da altri individui nel mercato. Al contrario, i teorici della regolazione 
negano che un soggetto possa propriamente comprendere i fenomeni sociali 
semplicemente vedendoli come il risultato del processo decisionale di attori 
autonomi e perfettamente razionali. Secondo i fautori delle tesi 
regolazioniste le scelte degli individui sono influenzate in larga misura da 
schemi di comportamento strutturati socialmente e la miglior struttura 
sociale possibile è quella che, nel determinare il processo decisionale degli 
individui, favorisce la crescita del capitale produttivo.  
La teoria della regolazione descrive dunque un’economia orientata 
non verso un equilibrio generale, ma piuttosto verso “fasi di espansione e 
moderate fluttuazioni cicliche, seguite da fasi di stagnazione ed 
instabilità”[Lipietz, 1978:12-14]. Infatti, l’ipotesi regolazionista si fonda 
sull’esistenza di un “modo di regolazione” che mitighi il disordine del 
“regime di accumulazione, in quanto l’accumulazione del capitale non è un 
processo che si autogoverna senza problemi, ma piuttosto registra crisi 
ricorrenti di sovrapproduzione, disoccupazione e tensione sociale. Sono 
pertanto la stabilità e la riproduzione del sistema economico e sociale che 
richiedono la maggiore esplicazione/spiegazione, piuttosto che le loro crisi 
in sé. ” [Boyer, 1990] 
 10
In particolare, Alain Lipietz precisa che uno specifico “modello di 
organizzazione del lavoro” governa gli elementi integranti di uno stabile 
“modello di sviluppo”, vale a dire la divisione del lavoro e le strutture di 
autorità esistenti tra i soggetti. Un “regime di accumulazione” si può 
pertanto esaminare attraverso il livello macroeconomico in cui la 
produzione (tecnologia, importanza dei diversi settori economici, 
produttività dei lavoratori) e la composizione del prodotto sociale (per 
consumo personale, investimento, commercio, etc.) si evolvono e si 
supportano reciprocamente.[Lipietz, 1989] 
Secondo questa linea di pensiero, la stabilità del sistema si ottiene 
attraverso la creazione di “blocchi storici egemonici” che favoriscono la 
volontaria accettazione delle sue istituzioni e norme. Il regime adotta 
dunque appropriate aspettative individuali riguardanti il lavoro, il consumo, 
le scelte di vita, etc., e pone disposizioni che aiutano gli individui ad 
inserirsi senza problemi nei ruoli sociali funzionali al proprio mantenimento 
[Lipietz, 1989]. 
Lo Stato incoraggia questo processo di normalizzazione, mettendo il 
suo imprimatur legittimo sui compromessi e i costumi che formano il 
sistema egemonico. In questo senso lo Stato non può essere visto soltanto 
come lo strumento dei gruppi privilegiati, ai quali ogni regime di 
accumulazione comunque consente sproporzionati vantaggi, ma anche come 
garante dei numerosi compromessi sociali attraverso la mediazione del 
conflitto: in questo ruolo protegge i diritti ed i vantaggi materiali ottenuti 
attraverso le lotte anche dai gruppi meno privilegiati, all’unico fine di 
mantenere in vita il regime di accumulazione nella sua interezza. 
Nulla può però garantire il successo nel lungo periodo di questi 
 11
sforzi, in quanto la regolazione diminuisce le tensioni sociali, ma non può 
eliminarle: al meglio, crea armistizi tra le classi. 
Data la natura conflittuale dello sviluppo capitalistico, la longevità 
del regime dipende dalla stabilità del “modello di regolazione”, in cui il 
termine francese “regulation”, diversamente dal corrispettivo inglese che 
deve essere inteso come correzione del governo dei fallimenti del mercato e 
controllo dei monopoli, designa una varietà di meccanismi sociali che 
attenuano i conflitti all’interno delle relazioni sociali esistenti, permettendo 
alle stesse relazioni di riprodursi. Pertanto, ogni modello di regolazione 
include norme di comportamento (ad esempio, considerare legittime alcune 
forme di gerarchia sul posto di lavoro), welfare, contratti sindacali e 
controllo dello stato sulla sicurezza delle regolazioni. 
Il conflitto è trasformato, sempre temporaneamente, in riproduzione 
sociale quando i gruppi in competizione giungono ad una serie di 
compromessi riguardanti l’organizzazione della produzione e della 
distribuzione dei beni sociali. Nella loro lotta per ottenere il potere, i gruppi 
esercitano pressioni gli uni su gli altri per delineare limiti, regole, procedure, 
divisione del territorio, diritti e doveri. La mobilizzazione sociale e i 
compromessi così negoziati trovano conferma nelle norme sanzionatorie 
dello Stato, che aiutano il regime a mantenersi stabile.  
Sedando temporaneamente le contraddizioni presenti nel regime di 
accumulazione, si attua uno sviluppo deciso dell’accumulazione del 
capitale, fino a che nuove crisi impongano successivi aggiustamenti. Il 
regime di accumulazione trova, infatti, il suo punto di crisi nell’incapacità 
del sistema di esaudire tutte le aspettative create; i cambiamenti nella 
tecnologia, nel commercio, o nelle risorse disponibili possono causare non 
 12
previste frizioni tra parti del sistema egemonico. 
La crisi ha luogo allorché il sistema di regolazione palesa la propria 
incapacità a stemperare problematiche quali l’aumento delle perdite di 
produttività, i deficit del commercio e le tensioni sociopolitiche. Gli attori 
sociali cercano allora i termini di un nuovo compromesso, maggiormente 
capace rispetto al regime passato di fronteggiare le tensioni accumulate. 
La maggior parte dei regolazionisti applica questo schema generale 
per comprendere i cambiamenti sociali verificatisi a far data dagli ultimi 
anni ’60, con particolare riferimento alle crisi che hanno colpito, 
intaccandolo, il compromesso sociale fordista prosperante dalla seconda 
guerra mondiale in poi che si basava, come si è visto, su alti livelli di 
meccanizzazione e la razionalizzazione taylorista, con l’accordo di 
distribuire i frutti della crescita economica nella nazione. 
Secondo i regolazionisti il primo elemento di crisi del Fordismo è 
dato dalla svalutazione della conoscenza del processo produttivo da parte 
dei lavoratori, provocata dalla massiccia utilizzazione della catena di 
montaggio, e dalla conseguentemente formazione di lavoratori facilmente 
rimpiazzabili, gravemente esposti a fenomeni di riduzione dei salari.  
Il secondo elemento essenziale è dato dal declino della produttività. 
Quale compensazione della svalutazione della posizione lavorativa, i 
lavoratori chiedevano che il capitale ridistribuisse a loro più di quanto 
realizzava come profitti e garantisse la piena occupazione come norma della 
politica economica nazionale.  
La realizzazione di questi obiettivi determinava la posizione di 
equilibrio del regime di accumulazione fordista, in cui i salari più alti e la 
sicurezza sul lavoro, lontani dal minare la competitività del capitalismo, 
 13
stabilizzarono il sistema assicurando “diversivi” per i guadagni produttivi 
del capitale. 
Il sistema si sfaldò perché è insito in un campo di incentivi generare 
a lungo termine comportamenti contrari alle sue stesse premesse. Esacerbati 
da parte delle aziende i principi tayloristi, attraverso la crescente 
meccanizzazione, la produzione computerizzata e fenomeni quali il 
subappalto del lavoro manuale nelle aree dove i salari sono più bassi, i 
lavoratori, le cui conoscenze e talenti erano già esclusi dai piani 
organizzativi delle società dove lavoravano, diventarono meno produttivi.  
La diminuzione del profitto comportò la diminuzione degli 
investimenti e, conseguentemente, la riduzione delle entrate fiscali del 
welfare state e l’aumento della disoccupazione. D’altro canto, la crescita 
dell’internazionalizzazione del commercio contribuì pesantemente a 
peggiorare la crisi. L’elevata competizione tra U.S.A., Europa e Giappone 
svalutò enormemente l’efficacia dei modelli di regolazione a livello 
nazionale del sistema di produzione.  
Nel mondo occidentale, i salari, che una volta intensificavano la 
domanda ed aiutavano la finanza del welfare state, soffrivano la pressione al 
ribasso. Nel 1980 gli U.S.A. di R. Reagan e l’Inghilterra di M. Thatcher 
cercarono di contenere la caduta economica attraverso la 
deregolamentazione sia dei mercati finanziari sia del lavoro. La produzione 
sarebbe stata stimolata, credevano, se lo Stato avrebbe permesso maggiore 
libertà nella gestione dei rapporti tra capitale e lavoro, tagliato il welfare 
state e ridotto i suoi interventi per regolare i rapporti di lavoro.  
Queste strategie ebbero successi effimeri, in quanto riducendo 
l’intervento dello Stato nell’economia la produzione risultò incrementata 
 14
attraverso trend che esacerbarono le iniquità sociali e la conflittualità dello 
sviluppo capitalistico. Inoltre, per quanto riguarda gli U.S.A., l’utilizzo del 
deficit per finanziare l’industria militare solo temporaneamente fu di stimolo 
per l’economia: in effetti, il deficit crebbe tanto da scoraggiare gli 
investimenti di capitale e diminuì la crescita.  
In tutti questi casi – perdita di produttività, mercati globalizzati, 
diminuzione dell’intervento dello Stato nel mercato – dimostrano come i 
trend economici correnti abbiano minato il modello di regolazione che fece 
del Fordismo un regime di accumulazione del lavoro. 
 
I.3 Vie d’uscita dal Fordismo 
 
 Il progressivo esaurimento della fase ascendente del Fordismo si è 
reso evidente nei primi anni ’80 del 1900, in cui l’organizzazione 
economica dei paesi a capitalismo avanzato ha subito significativi 
mutamenti che, secondo un’opinione di largo consenso, rappresentano i 
segnali inequivoci dell’approssimarsi di una nuova fase epocale del modo di 
produzione, contrastante con la logica della produzione fordistica rigida. 
In particolare, si è assistito al progressivo diffondersi di innovazioni 
nelle tecnologie e nelle strategie organizzative, che nell’orientare il processo 
produttivo “da valle a monte” invertono la sequenza del Fordismo classico, 
segnano il tramonto del gigantismo strutturale, coinvolgono la forza lavoro 
nell’andamento del processo produttivo. 
 Un interessante approccio all’analisi dei mercati del lavoro è dato 
dalla teoria della c.d. “specializzazione flessibile”, che analizza la flessibilità 
del lavoro nell’ambito della più articolata lettura economica di impostazione 
 15
istituzionalista, sviluppatasi nel corso degli anni ’70 e ‘80. 
 Un altro contributo particolarmente significativo per la 
comprensione delle possibili vie di uscita dal postfordismo è dato 
dall’analisi del c.d. Toyotismo, ovverosia del nuovo “modo di produzione 
snella” messo a punto dall’ingegner Ohno e applicato con successo alla 
produzione di automobili Toyota, che segna l’abbandono della produzione 
di massa, nel duplice senso che non ha più le grandi dimensioni del passato 
e non è standardizzata.  
 
I.3.1 La specializzazione flessibile 
 
All’interno della scuola istituzionalista nel filone della c.d. 
“specializzazione flessibile” elaborato da Piore e Sabel [1984] si sviluppa la 
prima teoria relativa al passaggio dal modello fordista a quello postfordista 
qui presentata . L’analisi storica effettuata dagli Autori si fonda sul concetto 
di industrial divide, vale a dire delle svolte industriali che determinano il 
passaggio da un modello organizzativo ad un altro. 
Il primo industrial divide del XX Secolo ha virtualmente segnato 
l’inizio del Fordismo, separando il proto-capitalismo, basato su il lavoro 
artigianale e l’organizzazione informale del lavoro, dal capitalismo maturo, 
incentrato cioè su la produzione standardizzata, che richiedeva macchine 
specializzate e manodopera dequalificata. 
Lo sviluppo della produzione di massa, inoltre, risulta essere 
storicamente correlato alla preminenza della grande industria statunitense e 
della sua capacità di generare mercati di massa per prodotti standardizzati. 
E’ noto come questo sistema sia entrato in crisi negli anni ’70, con il 
passaggio dal mercato di massa, strettamente correlato alle metodologie di