4
fino a quello di Amsterdam, da Nizza fino ad oggi, settori ed ambiti di competenze 
sempre più ampi sono stati devoluti al livello europeo. Il diritto dell’Unione europea 
è di conseguenza entrato prepotentemente negli ordinamenti giuridici dei singoli 
Stati, condizionandone ed indirizzandone la produzione normativa, scardinando 
vecchi equilibri e ponendo la necessità di riforme. Il vecchio ordinamento 
comunitario è stato gradualmente sostituito da un nuovo soggetto di diritto la cui 
natura sfugge alle tradizionali classificazioni. Le ultime spinte guardano verso una 
esperienza federale, la quale tuttavia sembra ancora lontana dal trasformarsi in realtà. 
Parallelo a questo movimento e in apparenza confliggente, un generale 
processo di regionalizzazione ha coinvolto, nell’ultimo decennio, gran parte dei paesi 
europei, inclusi quelli tradizionalmente accentrati come le Francia. Alla cessione di 
sovranità verso l’alto, in favore di un soggetto sovrastatale, si accompagnava una 
generale rivendicazione di competenze proprie da parte delle entità sub-statali e si 
chiedeva una cessione di poteri verso il basso. 
Quella che si presentava come una contraddizione si è rivelata essere però la 
doppia faccia di una medaglia, i due aspetti di uno stesso fenomeno, complementari 
l’uno rispetto all’altro. Gli enti sub-statali, sebbene privati di alcun competenze loro 
proprie, non hanno intralciato il cammino comunitario ma hanno contribuito a 
fornirgli legittimità democratica; l’Unione europea ha visto in queste articolazioni 
interne un grande potenziale democratico, un ponte con i soggetti materialmente 
destinatari del corpus normativo comunitario, e non ha esitato a favorire la loro 
creazione, dove assenti, o il loro sviluppo. 
Si è così venuta parzialmente modificando la storica visione dell’Unione 
europea quale unione esclusivamente di Stati, per lasciare il posto ad una nuova 
 5
concezione, più complessa ma maggiormente rispondente alla realtà, che poggia le 
sue basi sul modello della multilevel governance e sul principio di sussidiarietà.  
Proprio su questi due concetti si è incentrata gran parte dell’attenzione 
nell’agenda politica comunitaria dell’ultimo decennio, sebbene il processo di 
valorizzazione delle regioni, tanto a livello europeo quanto a livello nazionale, si 
possa far risalire agli anni ottanta. 
In Europa i primi sintomi di una rinnovata attenzione nei confronti delle 
regioni in senso non più geografico ma politico sono costituiti dalla istituzione di un 
organo rappresentante le istanze regionali (il Consiglio consultivo degli enti regionali 
e locali ad opra della Commissione) e da una risoluzione del Parlamento europeo del 
1988 (la Carta europea della regionalizzazione) nonché dal coinvolgimento delle 
regioni nella gestione dei Piani Integrati Mediterraneo e dei Fondi strutturali. Sarà il 
Trattato di Maastricht, del 1992, ad inserire per la prima volta a livello europeo il 
principio di sussidiarietà e ad istituire il Comitato delle regioni, organo consultivo 
nelle materie di interesse regionale, la cui disciplina verrà gradualmente modificata 
dai successivi trattati. La possibilità di accedere alle riunioni del Consiglio dei 
Ministri ha ulteriormente valorizzato questi soggetti, ponendo le giuste premesse 
verso il riconoscimento di una loro propria soggettività comunitaria.  
I grandi passi compiuti negli anni ottanta e novanta non hanno tuttavia portato 
a quanto ci si aspettava: i trattati di Amsterdam e i Nizza, sebbene abbiano apportato 
alcune significative novità circa il principio di sussidiarietà e il Comitato delle 
regioni, non hanno compiuto quel salto di qualità che a molti sembrava vicino. Il 
progetto, da molti ventilato, di un’Europa delle regioni sembra essere giunto ad un 
momento di stallo, nonostante il grande attivismo a livello regionale. 
 6
In ogni caso la grande attenzione posta in particolar modo dalla Commissione 
nei confronti di temi quali la legittimità democratica dell’Unione e l’avvicinamento 
tra le istituzioni comunitarie e i cittadini ha avuto la capacità ed il merito di 
richiamare l’attenzione sulla dimensione regionale, tanto che alcuni autori sono 
arrivati ad ipotizzare l’esistenza, a livello comunitario, di tre livelli distinti: 
comunitario, nazionale  e regionale. 
Freno a questi progetti è sempre stata la Corte di giustizia delle Comunità 
europee, che non ha mai mancato di ricordare come lo Stato rimanga sempre l’unico 
soggetto responsabile nei confronti delle istituzioni comunitarie: risiede qua il 
principale punto di attrito, cioè nel fatto che all’accresciuto ruolo regionale si 
contrappone ancora l’originaria impronta internazionalistica dell’Unione. 
L’attivismo regionale è stato però frutto anche di un’altra spinta, tutta interna 
alle arene nazionali. Gran parte delle nazioni europee ha assistito, spesso favorendoli, 
a processi di decentramento, cedendo ambiti di competenza sempre maggiori a 
organi regionali.  
Tra queste, l’Italia ha proceduto alla modifica di una parte della Costituzione di 
non trascurabile rilevanza, preceduta da importanti innovazioni a Costituzione 
invariata. Il sistema italiano ne è risultato profondamente modificato, anche se 
appare, per certi aspetti, ancora alla ricerca di nuovi equilibri. Le regioni sono 
divenute co-protagoniste del rinnovato quadro istituzionale e il loro coinvolgimento 
negli affari europei è stato sancito definitivamente in Costituzione, dove peraltro per 
la prima volta è stato inserito un riferimento all’Unione europea quale limite e fonte 
normativa. Regioni ed enti locali hanno mostrato la capacità e la voglia di assumere e 
rafforzare il proprio ruolo a livello internazionale. Su questa spinta ha di certo 
 7
influito lo stretto rapporto con le istituzioni comunitarie, che hanno rappresentato la 
prima sede di confronto con le altre realtà dei paesi membri. 
Nel presente lavoro, spinti da un interesse nei confronti di un fenomeno in 
continua evoluzione, si è voluto mettere in risalto il crescente ruolo esercitato dalle 
regioni a livello comunitario, evidenziando la sinergia di azioni tra arene interne e 
sollecitazioni esterne. 
Lo si è fatto partendo dall’analisi separata dei due processi evolutivi: prima si è 
analizzato il quadro europeo, mettendone in risalto le principali novità introdotte 
negli anni e le tendenze dominanti; si è accennato al ruolo svolto in questi processi 
dalle singole realtà regionali in ambito europeo: cosa chiedono le regioni e quali sono 
le prospettive attuali di evoluzione. Al versante interno è stata dedicata la seconda 
parte del primo capitolo: il ribaltamento del precedente assetto nella distribuzione 
delle competenze legislative è stato analizzato prima nelle sue linee generali, per poi 
concentrarsi sulle conseguenze della riforma in ordine alla partecipazione italiana 
alla dinamica comunitaria, con particolare riguardo all’attività regionale.  
Si è visto come dalle modifiche introdotte con la legge costituzionale n. 3 del 
2001 le regioni si vedano garantita tanto la partecipazione alla fase ascendente 
quanto quella alla fase discendente della produzione normativa comunitaria, e come 
questa garanzia sia stata resa effettiva dalla legislazione ordinaria. 
In particolare, si è voluto analizzare lo spazio concretamente assegnato alle 
regioni nella formazione e nel recepimento del corpus normativo comunitario, 
sempre in una prospettiva evolutiva e ponendo in risalto gli ostacoli incontrati e le 
proposte per il futuro. 
 8
Alla partecipazione alla fase ascendente è stato dedicato il secondo capitolo: 
dopo una breve introduzione sui modelli di partecipazione, la distinzione 
fondamentale è stata operata tra partecipazione diretta e partecipazione indiretta. In 
relazione alla prima ci si è soffermati sui principali istituti a ciò preposti, ovvero il 
Comitato delle Regioni, gli Uffici regionali di collegamento e le possibilità introdotte 
dalla nuova legge 5 giugno 2003, n. 131, la quale in attua il nuovo Titolo V della 
parte seconda della Costituzione. La partecipazione regionale alla formazione della 
“posizione” italiana in ambito europeo, la c.d. partecipazione indiretta, è stata 
studiata distintamente, sulla base delle novità introdotte dalla modifica della legge 
legge 5 febbraio 2005, n. 11, che, modificando sul punto la legge La Pergola, ha 
inteso riformare il meccanismo di partecipazione dell’Italia all’Unione europea. 
Particolare attenzione è stata di seguito dedicata alla disciplina della fase 
discendente, la cui trattazione è stata suddivisa in due distinti capitoli: l’attuazione 
vera e propria, al capitolo III, e il potere sostitutivo dello Stato, al IV. 
In tutto il lavoro si sono tenute in particolare considerazione anche le pronunce 
della Corte costituzionale, che ha avuto un ruolo importantissimo in questo campo, 
poiché ha permesso adeguamenti della disciplina precedente  alle nuove esigenze 
poste dal rinnovato quadro costituzionale e dalle evoluzioni prodottesi a livello 
europeo. 
Il quadro emerso che ne è uscito è quello di sistema alquanto complesso, 
descritto efficacemente, da A. D’Atena con l’espressione “il doppio intreccio 
federale”. I cambiamenti realizzatisi negli anni sono risultati, sebbene graduali, 
costanti e profondamente innovativi. I soggetti coinvolti, le regioni innanzitutto, 
hanno avuto il merito di essere pienamente coscienti degli scenari che si andavano 
 9
aprendo e delle proprie potenzialità. Hanno quindi preso parte attiva a questo 
processo, tentando di superare gli ostacoli derivanti da una concezione tradizionale 
dei rapporti internazionali. Grazie a queste pressioni si è arrivati ad un superamento 
della visione dei rapporti con l’Ue come meri rapporti internazionali: l’Unione, 
proprio per la sua peculiarità, verrà, da un certo momento in poi, trattata 
distintamente; le relazioni con la stessa verranno aperte alla partecipazione regionale, 
e lo Stato rinuncerà a parte delle sue prerogative nell’ambito della politica estera. 
Il processo evolutivo appare comunque ancora in atto. La bocciatura della 
Costituzione europea, ad opera di paesi come la Francia e il Belgio, non deve essere 
letta come una battuta d’arresto, ma piuttosto come una occasione: l’occasione di 
fare il punto della situazione, di testare la volontà degli Stati membri e di procedere 
maggiormente consapevoli del processo in atto. 
Anche in Italia, le recenti modifiche del quadro normativo non sembrano un 
punto d’arrivo ma piuttosto un punto di partenza. La disciplina posta in essere dalle 
nuove norme, costituzionali ed ordinarie, sarà auspicabilmente applicata, 
sperimentata, fino a renderla pienamente rispondente alle esigenze di un rinnovato 
modello di governance. Probabilmente modifiche si renderanno necessarie per 
rimediare alle lacune prodotte dal legislatore; altrettanto probabili saranno, come già 
accaduto, conflitti tra lo Stato e gli enti sub-statali. Ma anche questi conflitti 
mostreranno la propria utilità nella misura in cui permetteranno di chiarire aspetti 
importanti di questi rapporti. 
L’intenzione di questo lavoro è di mettere in luce questi delicati meccanismi in 
movimento, di rendere percepibili le diverse istanze, le molteplici richieste poste sul 
 10
tappeto da tutti i soggetti, istituzionali e non, che si trovano ad operare nei rispettivi 
ambiti nazionali e regionali, e al contempo in un unico quadro europeo. 
 
 
 
 
 11
CAPITOLO I     L’EVOLUZIONE STORICA DEI 
RAPPORTI TRA L’UE E LE AUTONOMIE 
REGIONALI 
1) Il versante europeo 
Nel dibattito sul futuro dell’Unione europea un posto centrale è occupato dalla 
questione della legittimazione democratica dell’UE, ovvero dal problema di come 
avvicinare i cittadini alle istituzioni europee, istituzioni percepite ancora troppo 
lontane e quindi incapaci di cogliere e dare risposte efficaci ai loro bisogni.  
Non è un caso che la questione si ponga proprio nel momento in cui l’UE 
acquisisce poteri più penetranti nei confronti degli Stati membri e si allarga 
inglobando nuovi territori. Il fatto di possedere competenze più ampie rende infatti 
questo soggetto più presente nella vita dei cittadini in conseguenza, appunto, 
dell’incremento dei campi d’azione ad esso assegnati; tuttavia, “l’incertezza su cosa 
sia l’Unione, su cosa aspiri a divenire, i suoi limiti geografici, i suoi obiettivi politici 
e il modo in cui i poteri sono ripartiti con gli Stati membri”
2
 rischia di far percepire 
l’Unione come qualcosa di estraneo, difficilmente afferrabile, e in ogni caso come 
una questione che riguarda esclusivamente la classe politica, e al quale è difficile far 
giungere la propria voce per comunicare esigenze specifiche.  
Preoccupazioni al riguardo sono state espresse a più livelli tanto dagli Stati 
membri quanto dai diversi organi comunitari nelle varie sedi di discussione. È la 
Commissione presieduta da Romano Prodi a dare il via ad un primo dibattito sul 
                                                 
2
La governance Europea – Un libro bianco, COM/2001/0428. 
 12
punto. Il Libro Bianco sulla Governance europea (Commissione 2001) è una presa 
d’atto del sentimento di estraneità che i cittadini europei nutrono nei confronti 
dell’azione dell’Unione, manifestato anzitutto dal tasso decrescente di partecipazione 
alle elezioni del Parlamento europeo, elezioni che nel complesso hanno registrato 
una inesorabile e costante caduta della percentuale dei votanti dal 1979 al 2004
3
. Il 
“no” irlandese in occasione del referendum per la ratifica del Trattato di Nizza 
(trattato approvato in un secondo momento con il referendum dell’ottobre del 2002, 
peraltro senza l’intervento di modifiche al testo originario) e la crisi, dovuta alla 
mancata ratifica da parte di Francia e Olanda, di ciò che dovrebbe divenire la Carta 
costituzionale europea,  non sono segnali confortanti. 
L’Unione non agisce efficacemente, le sue istituzioni sono poco conosciute e 
gli atti che queste pongono in essere malvisti. L’allargamento dell’Unione ai paesi 
dell’est non fa che acuire questo disagio rendendo ancora più urgenti modifiche che 
ne legittimino l’operato. Il Libro Bianco propone a tal fine di rendere più trasparente 
il funzionamento dell’Unione, attraverso una maggiore informazione e 
comunicazione delle diverse fasi del lavoro, con consultazioni più frequenti con le 
parti interessate che possano rendere partecipi le diverse componenti della società 
civile.  
Emerge così chiaramente la caratteristica principale dell’ordinamento 
comunitario, un ordinamento caratterizzato non solo e non tanto dal rapporto tra le 
                                                 
3
 Per un’analisi approfondita dell’affluenza alle urne in occasione delle tornate elettorali dal 1979 ad 
oggi si veda il sito web www.europarl.it, all’interno del quale, nella sezione elezioni, sono registrate le 
percentuali per ciascun paese membro. I dati non fanno che confermare il trend negativo che si 
osserva in generale, con le sole eccezioni dell’Italia, in cui sebbene un calo sia osservabile la 
percentuale rimane comunque alta (73.1% nel 2004 a fronte dell’84.9% del 1979), del Belgio, che 
registra la partecipazione più alta d’Europa, e del Lussemburgo, dove occorre in ogni caso ricordare 
che il voto è obbligatorio. Preoccupanti sono i dati relativi ai 10 nuovi Paesi membri, che nel 
complesso vedono un’affluenza alle urne pari al 26.7%, abbassando così la media totale Europea, che 
nel caso di un’Europa a 15 sarebbe stata del 49.1%. 
 13
sue istituzioni quanto piuttosto dalle interazioni che si vengono a creare tra soggetti 
non  istituzionali. L’Unione europea non è un Governo ma piuttosto una Multilevel 
Governance
4
, che oltre alle relazioni strettamente istituzionali deve prendere 
costantemente in considerazione anche le interazioni di soggetti non istituzionali e i 
rapporti tra livelli istituzionali diversi. Riformare la governance europea significa 
prendere atto del fatto che non c’è un singolo attore capace di dare risposte univoche, 
risposte che invece vanno ricercate nella mediazione e nella composizione di più 
voci in una sorta di patchwork
5
. In pratica ci troviamo di fronte ad un sistema 
pluralistico e policentrico, in cui gli attori pubblici e privati prendono parte al 
processo delle politiche: “in ciascuna area di policy ci sono più attori in gioco. A 
volte sono gli attori pubblici (lo Stato e le Regioni politiche) ad avere il ruolo chiave, 
a volte è l’industria, altre volte sono molto importanti anche le associazioni non 
governative”
6
.  
È in questo contesto che si inserisce la rivalutazione delle Regioni da parte 
dell’Unione. Avvicinare l’Europa ai cittadini significa infatti necessariamente 
dialogare con quei livelli istituzionali che questi sentono più vicini. E le Regioni, in 
quanto enti di governo territoriale, possono essere portatrici di interessi collettivi ed 
istituzionali.   
Il riconoscimento di un preciso ed effettivo ruolo delle Regioni nel processo di 
integrazione europea è condizione essenziale perché nello sviluppo di tale processo si 
tenga conto delle peculiarità della realtà del nostro continente. 
                                                 
4
Il concetto di governance si oppone al concetto di government poiché, benché riguardante pur sempre 
le relazioni interne ad uno Stato, non si limita alle relazioni di carattere istituzionale, ma ricomprende 
anche le interazioni di tipo sociale che si realizzano attraverso procedure consensuali e non solo 
autoritative.   
5
 F. MORATA, Come migliorare la governance democratica europea delle Regioni, in Le istituzioni 
del federalismo, n. 1/2004, pp. 28 ss., part. p.31. 
6
 W. WALLACE, Collective governance, in H. WALLACE e W. WALLACE (a cura di), Policy 
making in the European Union, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 523- 542. 
 14
Per molto tempo le Regioni sono rimaste ai margini delle riforme istituzionali 
europee: l’Europa era composta di soli Stati che malvolentieri accettavano 
interferenze di enti substatali (in particolar modo quelle incidenti sulla cura delle 
relazioni con l’estero) ed erano poco disposti a concedere a questi ultimi spazi di 
autonomia. D’altra parte era la stessa Comunità ad essere affetta da una sorta di 
“cecità”
7
 nei confronti degli stessi, forse ancora poco importanti ai fini del 
perseguimento di obbiettivi tipici di “un’agenzia amministrativa”
8
 più che di un ente 
politico. Il numero limitato di materie devolute a livello comunitario e la natura 
fondamentalmente tecnica delle stesse faceva ritenere che il sacrificio di competenze 
dei governi infrastatali fosse trascurabile e che la legittimità delle decisioni 
comunitarie assunte nei settori devoluti fosse adeguatamente garantita dal ruolo 
determinante svolto nel processo decisionale dai governi nazionali. 
E' indubbia la constatazione che nel corso degli ultimi decenni si sia 
manifestata, nella maggior parte degli Stati membri dell'Unione europea, una 
tendenza crescente alla regionalizzazione ed alla decentralizzazione. Questa tendenza 
ha comportato l'attribuzione, in favore di soggetti esponenziali delle comunità locali, 
di compiti, funzioni, responsabilità e poteri sempre più consistenti. 
Da ciò deriva la necessità, per gli organi dell'Unione, di accrescere la 
considerazione e l'approfondimento di tutti i temi che siano comunque connessi al 
ruolo delle Regioni e degli enti locali nell'ambito comunitario. Questo rinnovato 
interesse consente, altresì, di migliorare notevolmente il rapporto tra le istituzioni 
                                                 
7
 Viene generalmente tradotta così l’espressione tedesca Landesblind-heit, utilizzata per la prima volta  
da Hans Peter Ipsen nel 1966 nel celebre saggio Als Bundesstaat in der Gemeinschaft, apparso in 
Probleme des Europäischen Rechts. Festschrift für Walter Hallstein zu seinem 65. Geburstag, 
Frankfurt a.M., 1966, pp.248 ss., spec. 256. 
8
 G. AMATO, Il contesto istituzionale europeo, in Le istituzioni del federalismo, n.1/2004, pp.11 ss., 
spec. p.12. 
 15
comunitarie ed i cittadini dell'Unione, dando un'attuazione più concreta e più visibile 
a quel principio della sussidiarietà che ormai costituisce uno dei pilastri fondamentali 
del nuovo ordinamento comunitario. Sussidiarietà significa, infatti, che il livello 
decisionale e di allocazione delle funzioni deve essere quello più opportuno in 
relazione all'obiettivo da conseguire: l’autorità di livello superiore non deve 
estendere il proprio intervento oltre quanto è strettamente necessario e, in particolare, 
non deve esercitare attività che possono essere meglio svolte a livello inferiore. Le 
Regioni e gli enti locali previsti negli ordinamenti dei vari Stati membri devono 
assolvere, appunto, a questo ruolo fondamentale di cerniera e di raccordo tra i vertici 
della Comunità e la popolazione: soltanto l'applicazione in sede locale della 
legislazione dell’UE può consentire al cittadino di percepire e di apprezzare in tutta 
la sua importanza il rapporto che oggi lo collega indissolubilmente alle istituzioni 
comunitarie. 
Non è un caso il fatto che nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali si 
ritrovi questa affermazione: “l'Unione contribuisce alla preservazione e allo sviluppo 
dei valori comuni nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli 
d'Europa, nonché dell'identità nazionale degli Stati membri e dell'organizzazione dei 
loro poteri pubblici a livello nazionale, regionale e locale”. Così come, 
analogamente, non è un caso che il percorso di avvicinamento dell'Unione ai cittadini 
abbia rappresentato un obiettivo fondamentale del processo di Nizza, e che il Libro 
Bianco della Commissione sulla governance europea richieda espressamente una 
stretta collaborazione tra le istituzioni europee, i governi nazionali, le 
amministrazioni regionali e locali e la società civile. 
 16
La spinta verso una riconsiderazione delle Regioni è stata il frutto di stimoli 
diversi riconducibili essenzialmente a due direttrici: da una parte l’Unione, dall’altra 
le Regioni stesse. La loro formazione (o il loro rafforzamento nei paesi in cui queste 
già erano presenti) è infatti sicuramente riconducibile a  fattori endogeni quali la 
cultura, la storia o l’economia, ma su questo processo ha necessariamente influito un 
elemento esogeno come quello delle politiche regionali comunitarie.  
Il passaggio dall’integrazione economica all’integrazione politica ha messo in 
evidenza un grande paradosso tipico dell’Unione europea, cioè che alcuni stati come 
il Lussemburgo, l’Irlanda o la Danimarca, meno popolati di famose regioni quali il 
Baden-Wurttemberg, avessero, al contrario di queste ultime, potere di veto in seno 
all’Unione. 
Le maggiori e prime vittime di questa situazione, nel momento in cui il 
processo di integrazione fu avviato, sono state i Läender tedeschi e le Regioni 
italiane da poco istituite. Tali entità infatti, al pari degli Stati di appartenenza, sono 
state interessate da importanti sottrazioni di competenze in favore delle Comunità, 
ma, a differenza degli Stati di appartenenza, si sono viste completamente tagliate 
fuori dai processi decisionali dell’ordinamento comunitario. Di conseguenza hanno 
perso  di significato i poteri di interazione, quali ad esempio l’iniziativa legislativa 
statale che nell’ordinamento italiano spettava anche, in base all’art 121, comma 2, 
Cost., ai Consigli regionali italiani, o i poteri dei Läender nel processo legislativo 
federale tramite il Bundesrat, previsti nelle rispettive Costituzioni nazionali e che 
operano esclusivamente nell’ordinamento interno, senza inoltre che le Regioni e i 
Läender potessero fare affidamento su strumenti di tutela giurisdizionale a livello 
comunitario, dal momento che questa veniva, ed è tutt’ora, riservata ai soli Stati. 
 17
Le ragioni di quanto appena descritto vanno probabilmente ricondotte alle 
strutture costituzionali degli Stati membri al momento d’avvio del processo 
d’integrazione negli anni cinquanta. Strutture costituzionali che erano, nella maggior 
parte dei casi, organizzate centralisticamente, con le uniche eccezioni costituite 
appunto da Germania - Stato federale nato da un processo di unificazione - ed Italia, 
la quale peraltro ancora aveva un “regionalismo a metà”, poiché le uniche Regioni 
esistenti erano quelle speciali, mentre le Regioni ordinarie vennero attuate solo 
successivamente negli anni settanta. 
A conferma del fatto che fosse proprio la prevalenza di ordinamenti accentrati 
a determinare una sorta di cecità della comunità stanno le prime aperture comunitarie 
in favore degli enti sub-statali successivamente ad alcuni mutamenti costituzionali 
interni alla gran parte degli Stati membri a partire dagli anni ’70. 
Nel 1970 infatti il nostro ordinamento riesce finalmente a sbloccare la 
condizione di impasse che aveva “congelato” le nostre Regioni ordinarie per venti 
anni, dando loro concreta attuazione con la legge 16 maggio 1970, n. 281, che 
prevede i provvedimenti finanziari per l’attuazione concreta delle Regioni ad 
autonomia ordinaria e la delega al Governo per l’emanazione di norme per il 
passaggio delle funzioni statali alle Regioni, nelle materie loro attribuite dalla 
Costituzione. Due anni dopo, nel 1972, vengono emanati i decreti governativi 
delegati che trasferiscono alle Regioni ordinarie le funzioni nelle materie loro 
attribuite dalla Costituzione; contemporaneamente il Belgio procede ad una iniziale 
regionalizzazione del suo territorio creando tre Regioni e tre Comunità dette 
“culturali”, alle quali vengono attribuite diverse competenze.