4
definire né il concetto di questa peculiare forma di associazione né 
quello di appartenenza ad essa 
1
. 
È solo con la legge 13 Settembre 1982, n. 646, recante “ Disposizioni in 
materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ”, la c.d. 
legge Rognoni-La Torre, che, in correlazione all’ introduzione del nuovo 
art. 416-bis c.p. 
2
, viene tipizzata in una fattispecie penalmente rilevante 
l’appartenenza ad un’ associazione mafiosa o similare; appartenenza che 
diventa, così, necessario presupposto per l’ attivazione del procedimento 
di prevenzione nelle ipotesi di cui alla legge n. 575/1965, fornendo alla 
                                                 
1
  L’ indicazione, estremamente generica, delle persone indiziate di “ appartenere ad 
associazioni mafiose ” ebbe fin da subito bisogno di specificazioni da parte della giurisprudenza che si 
sforzò di individuare i criteri in virtù dei quali un soggetto poteva ritenersi mafioso.  
 Dapprima la giurisprudenza tentò di effettuare una specificazione con il richiamo a fenomeni 
di antisocialità: “ la legge n. 575 del 1965 si riferisce ad una categoria di persone diversa da quella di 
cui alla legge n. 1423 del 1956 perché qualificata dalla maggiore pericolosità sociale. A siffatta 
categoria è stata attribuita la denominazione di associazione mafiosa che, pur non essendo dalla legge 
definita, ha nel linguaggio comune significato univoco e limiti ben determinati, richiamandosi a gravi 
fenomeni di antisocialità ben individuati sotto il profilo concettuale e legale ” ( Cass. pen., Sez. I, 29 
ottobre 1969, Tempra, in Cass. pen., 1971, n.1417 ).  
 Sono stati, quindi, individuati fenomeni specifici di comportamento che, per il suo modo di 
manifestarsi e di operare, determinano grave pericolosità sociale; la Corte Suprema, in particolare, 
definisce mafiosa quella organizzazione che assume e mantiene un controllo di attività economiche 
attraverso la sistematica intimidazione in modo da creare situazioni di assoggettamento e di omertà 
(Cass. pen., Sez. I, 14 marzo 1980, Salatiello, in Cass. pen., 1981, n. 671). 
2
  Art. 416-bis: “ Chiunque fa parte di un’ associazione di tipo mafioso formata da tre o più 
persone, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. 
 Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’ associazione sono puniti, per ciò solo, 
con la reclusione da sette a dodici anni. 
 L’ associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza 
di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne 
deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il 
controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per 
realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il 
libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. 
 Se l’ associazione è armata si applica la pena della reclusione da sette a quindici anni nei 
casi previsti dal primo comma e da dieci a ventiquattro anni nei casi previsti dal secondo comma. 
 L’ associazione di considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il 
conseguimento della finalità dell’ associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o 
tenute in luogo di deposito. 
 Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo 
sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei 
commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà. 
 Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o 
furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che 
ne costituiscono l’ impiego. 
 Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre 
associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo 
associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso ”.   
 5
citata legge quel supporto di legalità che in precedenza le era mancato, 
apparendo indeterminati i suoi confini di applicabilità 
3
. 
L’ associazione di tipo mafioso viene, quindi, identificata con quel tipo 
di organizzazione caratterizzata da una rigorosa gerarchia, di poteri e di 
funzioni, che esprime una poderosa quanto insinuante forza di 
intimidazione, derivante dalla efficienza, unita all’ indecifrabilità, della 
struttura organizzativa; forza che viene spesso saggiata attraverso 
preliminari azioni dimostrative, le quali consentono poi di continuare 
nell’ esercizio di soprusi e violenze in un clima di apparente normalità di 
rapporti. 
Tale innovazione ha, però, suscitato notevoli discussioni in dottrina e 
giurisprudenza circa i rapporti tra giudizio di prevenzione e processo 
penale, laddove la legge n. 646/1982, nel modificare la legge n. 
575/1965, ha assunto la fattispecie criminosa di cui all’ art. 416-bis c.p. 
quale presupposto comune di entrambi i procedimenti. In sostanza, 
poiché l’ art. 1 della legge n. 575/1965 fa riferimento agli “ indiziati ” di 
appartenere ad associazioni di tipo mafioso e, d’ altra parte, la presenza 
di indizi gravi, univoci e concordanti può comportare la responsabilità 
penale per la fattispecie di cui all’ art. 416-bis c.p., è sorta la necessità di 
delimitare gli ambiti rispettivi delle due situazioni. 
Vi è comune accordo tra gli operatori del diritto nel sostenere che il 
presupposto di applicabilità della normativa sia uguale in entrambi i casi 
e consista nella prova, non nell’ indizio, dell’ esistenza di 
                                                 
3
  La scelta del legislatore del 1965 aveva, infatti, sollevato feroci critiche di tipo garantista 
relative alla scarsa tassatività dell’ art.1 della legge n. 575/1965, laddove per indicare i destinatari 
delle misure si limitava a riferirsi agli “ indiziati di appartenere ad associazioni mafiose ”; si disse che 
“ con questa dizione generica si determina un contrasto tra l’ esigenza della prevenzione e quella della 
tassatività, col connesso pericolo di violazioni delle libertà personali dei soggetti interessati da tale 
legge ” GIALANELLA A., Il punto sulla questione probatoria nelle misure di prevenzione antimafia, 
in Quest. giust., 1994. 
 6
un’associazione di tipo mafioso, in una qualsiasi delle forme che può 
assumere secondo il dettato dell’ art. 416-bis c.p.  
L’ esistenza di un determinato tipo di associazione appare, dunque, 
pregiudiziale rispetto alla nozione di indiziato di appartenenza ad 
associazione mafiosa; associazione quest’ ultima che naturalmente deve 
essere penalmente rilevante ai sensi dell’ art. 416-bis c.p.
4
.  
Permane, invece, diversità fra i due procedimenti sotto il profilo del 
grado e del tipo di prova circa il dato della partecipazione del soggetto 
all’ associazione criminale. Ciò che è assolutamente necessario è avere la 
prova certa in relazione alla sussistenza dell’ associazione così come 
viene ipotizzata nell’ art. 416-bis c.p., nonché nell’ art. 1 della legge n. 
575/1965; quanto, invece, all’ appartenenza del soggetto alla stessa 
associazione, la legge richiede solo l’ acquisizione di fatti 
oggettivamente valutabili e controllabili che conducano ad un giudizio di 
ragionevole probabilità 
5
.   
Il giudizio in tema di applicazione delle misure di prevenzione, infatti, ha 
per oggetto solo la pericolosità sociale del soggetto e non la sua 
responsabilità penale. La giurisprudenza, pertanto, ha più volte chiarito 
che il procedimento di prevenzione, avendo come presupposto la 
pericolosità sociale del soggetto rapportata a determinati parametri, si 
fonda su elementi con minore efficacia probatoria, che, tuttavia, qualora 
si tratti di pericolosità qualificata dall’appartenenza ad associazione di 
tipo mafioso, debbono raggiungere la consistenza dell’ indizio, con 
esclusione, quindi, di sospetti, congetture ed illazioni, che sono mere 
                                                 
4
  DE LIQUORI L., Fattispecie preventiva ed associazione mafiosa; realtà e simbolismo della 
nuova emergenza, in Cass. pen., 1990 
5
  “ Nel procedimento di prevenzione, a differenza di quello penale, non si richiede la 
sussistenza di elementi tali da indurre ad un convincimento di certezza, essendo sufficienti circostanze 
di fatto, oggettivamente valutabili e controllabili, che conducano ad un giudizio di ragionevole 
probabilità circa l’ appartenenza del soggetto al sodalizio criminoso, con esclusione, dunque, di meri 
sospetti, illazioni e congetture ” ( Corte Costituzionale sent. 22 dicembre 1980, n. 177 ). 
 7
intuizioni del giudice, mentre l’indizio è sempre fondato su un fatto 
certo. Ne consegue che, dato il minore livello probatorio degli elementi 
necessari per l’ applicazione della misura di prevenzione, è sufficiente 
che gli indizi dimostrino anche la sola probabilità che il prevenuto sia 
appartenente ad un’ associazione di tipo mafioso 
6
. 
Ai fini dell’ affermazione della pericolosità sociale di un soggetto, 
qualificata appunto dalla sua appartenenza ad un ‘associazione di tipo 
mafioso, è necessaria e sufficiente, quindi, l’ esistenza di un fatto noto, 
come premessa minore di un ragionamento logico di tipo indiziario, 
all’esito del quale sia possibile risalire al fatto ignoto, come premessa 
maggiore dell’ appartenenza della persona all’ associazione di tipo 
mafioso, in virtù di un giudizio probabilistico 
7
. 
Il giudizio di pericolosità non può, comunque, non essere 
necessariamente basato su un’ oggettiva valutazione dei fatti, in modo da 
escludere valutazioni puramente soggettive ed incontrollabili da parte di 
chi promuove od applica la misura di prevenzione 
8
. 
Il giudice della prevenzione, quindi, non può in alcun modo prescindere 
da una corretta valutazione degli elementi indiziari e dall’ obbligo di una 
motivazione che presenti i fondamentali e necessari requisiti della 
correttezza, della completezza e della logicità; se così non fosse, infatti, 
verrebbe meno al principio di legalità, cui deve ispirarsi per il suo 
carattere giurisdizionale il provvedimento di prevenzione 
9
. 
Una volta stabilito l’ ambito di applicabilità delle disposizioni contro la 
mafia di cui si discute, bisogna, però, sottolineare come l’ innovazione 
più importante realizzata dalla legge n. 646/1982 riguarda sicuramente 
                                                 
6
  Cass. pen., Sez. I – Sent. n. 2760 del 14 agosto 1987 – Imp. Amato, in Riv. pen., 1988, pag. 
506.  
7
  Trib. di Napoli, Sezione per l’ applicazione delle misure di prevenzione, 31 ottobre 2008. 
8
  Corte Costituzionale, sent. 22 settembre 1980, n. 177. 
9
  Cass. pen., Sez. I –  Sent. n. 2062 del 15 dicembre 1988 – Imp. Cancelliere. 
 8
l’introduzione nell’ alveo della legge n. 575/1965 di misure atte ad 
aggredire il patrimonio del destinatario, al fine di privarlo di quei mezzi 
che costituiscono sia il frutto e/o il reimpiego di attività illecite sia lo 
strumento attraverso cui perseguire nuovi e più ampi profitti.  
Con tale provvedimento normativo si realizza, dunque, una radicale 
trasformazione del sistema delle misure di prevenzione, segnando il 
passaggio da misure di tipo personale a misure di tipo patrimoniale; si 
passa, cioè, da un sistema di lotta alla mafia imperniato esclusivamente 
sulla persona del mafioso o presunto tale, ad una strategia allargata, volta 
a colpire oltre la persona anche il suo patrimonio. 
Tale mutamento di strategia ha origine nella presa d’ atto da parte degli 
operatori giuridici del fatto che l’ elemento di forza delle organizzazioni 
mafiose non è più rappresentato dalla componente personale, quanto 
piuttosto dalle ingenti ricchezze accumulate ed utilizzate, anche e 
soprattutto, dietro la parvenza della legalità.  
Gli istituti di prevenzione patrimoniale nascono, quindi, dalla raggiunta 
consapevolezza che la normativa antimafia non può più limitarsi ad 
intervenire nel settore dell’ ordine pubblico, ma deve poter incidere 
anche nel settore economico, ove essa raggiunge la maggiore deterrenza.  
È a partire dagli anni Settanta, peraltro, che si segna uno sviluppo in 
senso economico delle organizzazioni mafiose; tali associazioni, 
intrapresa un’attività fortemente redditizia come quella del traffico di 
droga, hanno, infatti, riversato i guadagni illeciti nell’economia legale, 
allo scopo di riciclare il denaro “ sporco ” attraverso il suo 
reinvestimento in attività imprenditoriali “ pulite ” e di consolidare ed 
incrementare il proprio potere sul territorio nazionale e transnazionale. 
 9
Ed è proprio la ricchezza di sospetta provenienza, o meglio l’ illecito 
arricchimento che contraddistingue i sodalizi criminosi, che viene visto 
come sintomo e causa della pericolosità sociale. 
Per questo, il fine della prevenzione nella lotta contro le associazioni di 
tipo mafioso si realizza oggi attraverso il simultaneo e coordinato 
utilizzo di misure di prevenzione di natura personale
10
 e misure di 
prevenzione di natura patrimoniale
11
, le quali, nel corso degli anni, 
hanno subito continui rimaneggiamenti legislativi, allo scopo di cercare 
di adeguarle alle rinnovate esigenze di politica criminale 
12
. 
Da ultimo, il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, 
dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, recante “ Misure urgenti in materia di 
sicurezza pubblica ”, ha notevolmente esteso l’ applicabilità delle misure 
di prevenzione patrimoniali agli indiziati di tutta una serie di delitti che 
                                                 
10
  
 
 Le misure di prevenzione personali sono: l’ avviso orale ( art. 4, legge n. 1423/1956 ), il 
rimpatrio con foglio di via obbligatorio ( art. 2, legge n. 1423/1956 ), la sorveglianza speciale di 
pubblica sicurezza ( art. 3, comma 1, legge n. 1423/1956 ), il divieto e l’ obbligo di soggiorno ( art. 3, 
comma 2, legge n. 1423/1956 ). 
11
  Le misure di prevenzione patrimoniali sono: il sequestro dei beni ( art. 2-ter, comma 2, legge 
n. 575/1965), la confisca ( art. 2-ter, comma 3, legge n. 575/1965, la cauzione ( art. 3-bis, legge n. 
575/1965 ), le misure patrimoniali interdittive (art. 10, legge n. 575/1965 ) e la sospensione 
dell’amministrazione dei beni ( art. 3-quater, legge n. 575/1965 ). 
12
  A mero titolo esemplificativo si rammenta: d.l. 6 settembre 1982 n. 629, convertito, con 
alcune modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726 “Misure urgenti per il coordinamento della 
lotta contro la delinquenza mafiosa”; legge 3 agosto 1988, n. 327 “Norme in materia di misure di 
prevenzione personali”; legge 15 novembre 1988, n. 486 “Disposizioni in materia di coordinamento 
della lotta contro la delinquenza di tipo mafioso”; d.l. 14 giugno 1989, n.230, convertito, con 
modificazioni, dalla legge 4 agosto 1989, n. 282 “Disposizioni urgenti per l’ amministrazione e la 
destinazione dei beni confiscati ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575 ”; legge 19 marzo 1990, 
n. 55 “Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme 
di manifestazione di pericolosità sociale”; d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, 
dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata 
e di trasparenza e buon andamento dell’ attività amministrativa”; d.l. 8 giugno 1992, n. 306, 
convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 “Modifiche urgenti al nuovo codice di 
procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”; legge 24 luglio 1993, n. 256 
“Modifica dell’ istituto del soggiorno obbligatorio e dell’ art. 2-ter, legge 31 maggio 1965, n. 575”; 
d.l. 20 dicembre 1993, n. 529, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 febbraio 1994, n. 108 
“Disposizioni urgenti in materia di scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi 
degli altri enti locali, conseguente a fenomeni di infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso”; 
legge 7 marzo 1996, n. 109 “Disposizioni in materia di gestione e destinazione dei beni sequestrati o 
confiscati”; d.l. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2001, 
n. 438 “Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale”; d.l. 27 luglio 2005, n. 144, 
convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 “Misure urgenti per il contrasto del 
terrorismo internazionale”. 
 10
compongono un quadro molto ampio di criminalità organizzata, 
comprendente fra l’ altro, oltre alle organizzazioni di tipo mafioso, anche 
quelle finalizzate al traffico di stupefacenti, al contrabbando di tabacchi 
lavorati esteri ed alla commissione di delitti di schiavismo 
13
.   
Il nuovo art. 1 della legge n. 575/1965, infatti, dispone che: “ La 
presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni di 
tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente 
denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi 
corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso nonché ai 
soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’ art. 51, comma 3-bis, del 
codice di procedura penale ”. 
Riguardo alla consistenza del quadro indiziario necessario e sufficiente 
per poter avviare anche nei confronti di detti soggetti le indagini di 
prevenzione, valgono anche qui naturalmente le osservazioni fatte in 
merito all’ applicabilità della legge n. 575/1965 agli indiziati di 
appartenere ad associazione di tipo mafioso. Va, comunque, precisato 
che si deve trattare di elementi indiziari che non possono avere una 
consistenza inferiore a quella richiesta per assumere la qualità di persona 
sottoposta alle indagini per i medesimi reati.  
                                                 
13
  In particolare l’ art. 10, comma 1, lett. a), del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, ha integrato l’art. 
1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, estendendone l’ applicabilità anche “ ai soggetti indiziati di uno 
dei reati previsti dall’ art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale ” e quindi agli indiziati dei 
seguenti reati: 
-  Associazione per delinquere finalizzata a commettere reati di schiavismo ( art. 416, 
sesto comma, c.p. ); 
-  Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù ( art. 600 c.p. ); 
-  Tratta di persone ( art. 601 c.p. ); 
-  Acquisto e alienazione di schiavi ( art. 602 c.p. ); 
-  Sequestro di persona a scopo di estorsione ( art. 630 c.p. ); 
-  Delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’ art. 416-bis c.p.; 
-  Delitti commessi al fine di agevolare l’ attività delle associazioni mafiose; 
-  Associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, 
n. 309); 
-  Associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri ( art. 291-quater 
del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 ). 
 11
Soggetti attivi del procedimento: le autorità competenti ad avanzare 
la proposta di applicazione della misura patrimoniale. 
 
Il procedimento di prevenzione inizia con la proposta, che deve essere 
motivata, di applicazione di una misura di prevenzione. 
L’ attuale formulazione dell’ art. 2 della legge n. 575/1965 dispone che: 
“ Nei confronti delle persone indicate dall’ articolo 1 possono essere 
proposte dal procuratore nazionale antimafia, dal procuratore della 
repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimora la 
persona, dal questore o dal direttore della Direzione investigativa 
antimafia, anche se non vi è il preventivo avviso, le misure di 
prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e 
dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, 
di cui al primo e al terzo comma dell’ articolo 3 della legge 27 dicembre 
1956, n. 1423, e successive modificazioni. 
Quando non vi è stato il preventivo avviso e la persona risulti 
definitivamente condannata per un delitto non colposo, con la 
notificazione della proposta il questore può imporre all’ interessato il 
divieto di cui all’ art. 4, quarto comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 
1423; si applicano le disposizioni dei commi quarto, ultimo periodo, e 
quinto del medesimo articolo 4. 
Nelle udienze relative ai procedimenti per l’ applicazione delle misure di 
prevenzione richieste ai sensi della presente legge, le funzioni di 
pubblico ministero sono esercitate dal procuratore della Repubblica di 
cui al comma 1 ”. 
Tale articolo, che identifica i soggetti titolari del potere di formulare la 
proposta de qua, è però frutto di una serie di modifiche legislative, che 
hanno portato all’ odierna disposizione ad opera del Decreto-legge 23 
 12
maggio 2008, n. 92, recante “ Misure urgenti in materia di sicurezza 
pubblica ”, convertito dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. 
La legge n. 1423/1956 indicava, infatti, come unico legittimato a 
formulare la proposta il questore della provincia in cui il soggetto 
dimora
14
. 
Tuttavia, tale originaria competenza esclusiva del questore, prevista nei 
confronti di tutte le categorie indicate dall’ art. 1 della stessa legge n. 
1423, è venuta meno, in seguito alle varie successive leggi speciali, sotto 
due punti di vista. Innanzitutto è oggi ristretta ai soli casi in cui non si 
può prescindere dal preventivo avviso orale, ossia quando la proposta è 
formulata nei confronti delle persone appartenenti alle categorie previste 
dal n. 3 dell’ art. 1 della legge n. 1423/1956, che concerne coloro che 
“sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in 
pericolo l’ integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza 
o la tranquillità pubblica”, secondo il testo del citato art. 1, come 
sostituito dall’ art. 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327. Infatti, soltanto a 
tali categorie non sono estensibili le disposizioni di cui alla legge n. 
575/1965, secondo quanto prescrive l’art. 19 della legge 22 maggio 
1975, n. 152, nel testo modificato dall’ art. 13 della legge n. 327/1988. 
In secondo luogo, il questore concorre, in tutti gli altri casi, con la 
legittimazione di altri organi, che attualmente sono individuati nel 
                                                 
14
  Per l’ individuazione della dimora, che è poi la stessa in base alla quale viene stabilito il 
tribunale con sede nel capoluogo di provincia competente ad applicare le misure di prevenzione, la 
giurisprudenza ritiene che bisogna tenere conto dei presupposti e degli scopi della l. n. 1423/1956, che 
sono correlati alla pericolosità sociale del soggetto e al luogo ove essa si manifesta e trova alimento, 
sicchè deve intendersi il luogo in cui il soggetto ha tenuto comportamenti sintomatici di tale 
pericolosità, traendo vantaggi per la propria attività, e non quello della sua residenza anagrafica (Cass. 
pen., Sez. VI, 16 marzo 1999, Grande Aracri, in Cass. pen., 2000, n. 853; Sez. I, 4 marzo 1999, 
Tedesco, ivi, 2000, n. 162; Sez. I, 17 gennaio 1994, Marrucci, ivi, 1994, n. 1611; Sez. I, 5 febbraio 
1993, Ciancimino, ivi, 1994, n. 468; Sez. VI, 18 maggio 1992, Buzzise, ivi, 1993, n. 1280). 
 Sull’ irrilevanza della residenza anagrafica si sono pronunciate anche le Sezioni Unite, 4 
marzo 1972, Mancino, in Cass. pen., 1972. 
 13
procuratore della Repubblica, nel procuratore nazionale antimafia e nel 
direttore della Direzione investigativa antimafia 
15
. 
In realtà, quanto al procuratore della Repubblica l’ estensione avvenne 
già con il testo originario dell’ art. 2 della legge n. 575/1965. Sorse, però, 
subito la questione sull’ individuazione del pubblico ministero 
competente per la proposta, non avendo il legislatore nulla disposto in 
proposito. Ci si chiedeva, in particolare, se tale potere dovesse intendersi 
attribuito al solo organo del p.m. presso il tribunale competente ad 
applicare la misura, ovvero del p.m. presso il tribunale avente sede nel 
capoluogo di provincia ove dimora la persona ritenuta pericolosa. 
La giurisprudenza della Corte di Cassazione affermò fin da subito che la 
competenza a formulare la proposta, essendo di natura funzionale, 
spettava al pubblico ministero presso il tribunale competente ad 
applicare la misura di prevenzione, ossia al tribunale con sede nel 
capoluogo di provincia ove la persona ritenuta pericolosa dimora, con 
esclusione del pubblico ministero presso altro tribunale della stessa 
provincia 
16
. Per la stessa giurisprudenza tale conclusione era inevitabile, 
in quanto basata sull’assunto secondo cui la competenza del pubblico 
ministero nel codice di procedura penale del 1930 non era 
autonomamente attribuita, ma era riflessa e derivata da quella 
dell’organo giurisdizionale presso il quale esercita le sue funzioni.  
                                                 
15
  A tali competenze va aggiunta, sino alla data del 31 dicembre 1992, quella dell’ Alto 
commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, di cui all’ art. 1-quinquies 
del d.l. 6 settembre 1982, n. 629, convertito in legge 12 ottobre 1982, n. 726. Cessate con il 31 
dicembre 1992, le funzioni dell’ Alto commissario sono state attribuite al Ministro dell’ Interno con 
facoltà di delega ad organi dello stesso Ministero secondo le rispettive competenze, tra i quali era 
previsto anche il direttore della Direzione investigativa antimafia, secondo quanto disposto dall’ art. 2 
comma 2-quater d.l. 29 ottobre 1991, n. 345, convertito in legge 1 gennaio 1993, n. 410. 
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  Cass. pen., Sez. I, 24 settembre 1990, Zagani, in Cass. pen., 1992, n. 419; Cass. pen., Sez. I, 
23 aprile 1990, Longo, in Giust. pen., 1990, III; Cass. pen., Sez. I, 12 febbraio 1990, Alagna, in Giust. 
pen., 1991, III.