1.1  BIOMATERIALI ED INGEGNERIA TESSUTALE
L’ingegneria tessutale [1] applica i principi dell’ingegneria e delle scienze della vita al fine di 
sviluppare sostituti biologici che ripristinino, mantengano o migliorino le funzioni di tessuti e 
di  organi.  Rappresenta  un  settore  di  crescente  interesse  medico  ed  industriale  ed  è 
caratterizzata  da  una  grande  interdisciplinarità:  in  essa  convergono significativi  contributi 
delle scienze di base, della scienza dei biomateriali, della bioingegneria, delle biotecnologie, 
della biologia molecolare e della medicina rigenerativa.1
Il  particolare  approccio  fornito  da  questa  tecnologia  innovativa  differisce 
sostanzialmente dalle tradizionali tecniche di impianto per il fatto che i tessuti ingegnerizzati, 
in caso di successo, si integrano con quelli del paziente, apportando in tal modo un contributo 
specifico  e  duraturo  alla  guarigione,  senza  richiedere  debilitanti  e  costosi  trattamenti 
farmacologici. È anche possibile utilizzare composizioni di materiali biologici e biomateriali 
nelle quali elementi tessutali sono combinati con biomateriali per creare un sistema atto al 
ripristino o alla modifica delle funzioni di un tessuto o di un organo. 
Lo studio dei biomateriali utilizzati nell’ingegneria tessutale rappresenta un importante 
settore di ricerca.  Si definisce biomateriale un materiale concepito per interfacciarsi  con i 
sistemi biologici al fine di valutare, dare supporto o sostituire un qualsiasi tessuto, organo o 
funzione del corpo (II  International Consensus Conference on Biomaterials, Chester, Gran 
Bretagna,  1991).  I  biomateriali  rispondono al  bisogno dell'uomo di  sostituire  od integrare 
tessuti ed organi non più attivi dal punto di vista funzionale o metabolico, danneggiati da 
eventi patologici o traumatici. Il numero di applicazioni di biomateriali innovativi è cresciuto 
notevolmente in questi ultimi anni e la portata delle conseguenti innovazioni terapeutiche ha 
consentito ad un numero elevatissimo di pazienti la sopravvivenza e/o una migliore qualità 
della vita grazie alla ripristinata funzionalità di parti compromesse dell'organismo (Figura 1).
I  biomateriali  possono  essere  utilizzati  sia  in  impianti  permanenti  (protesi),  sia  in 
dispositivi  che  sono a contatto  con il  corpo umano per un periodo di  tempo limitato (ad 
esempio,  i  dispositivi  monouso  impiegati  durante  gli  interventi  chirurgici)  [2].  Alcuni 
dispositivi medici possono essere utilizzati identicamente per qualsiasi paziente, altri invece 
devono essere realizzati per il singolo caso clinico, con forma, dimensioni e caratteristiche 
individuali; questo aumenta la difficoltà della progettazione e della scelta dei materiali. 
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 Dott.ssa Roberta Gambaretto; “Peptidi per la progettazione di biomateriali innovativi: sintesi e studi conformazionali”; (2005) tesi 
di dottorato in scienze chimiche - XVIII ciclo.
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Le prestazioni dei materiali impiegati in campo medico sono valutate in base alla loro 
biofunzionalità  e  biocompatibilità.  La  biofunzionalità si  riferisce  alle  proprietà  che  un 
dispositivo deve avere per riprodurre una determinata funzione dal  punto di vista  fisico e 
meccanico; la biocompatibilità, invece, si riferisce alla capacità del dispositivo di continuare a 
svolgere quella determinata funzione durante tutta la vita utile dell'impianto, senza evocare 
reazioni  avverse  nell’organismo:  è  strettamente  connessa,  quindi,  alle  interazioni  tra  i 
biomateriali ed i tessuti con cui vengono a contatto [3]. 
 
Figura 1: Esempi di dispositivi medici attualmente utilizzati come impianti.
Vari  studi  hanno dimostrato  che l'impiego di  materiali  inerti,  che  non evocano cioè 
alcuna reazione nell'organismo ospite né di rifiuto né di riconoscimento, non ha portato a 
buoni risultati.  Nessun dispositivo che sia tollerato passivamente dall'organismo e che non 
stimoli una favorevole interazione, può assicurare la stabilità delle sue prestazioni nel lungo 
periodo. Gli studi più recenti sono pertanto rivolti all'impiego di materiali “bioattivi”, ovvero 
capaci di promuovere funzioni benefiche nelle cellule e nei tessuti che li circondano.
Fino ad ora, nella maggior parte dei casi, si riesce ad ottenere la funzionalità meccanica 
e fisica grazie all'utilizzo di materiali disponibili fin dai primi anni '90. 
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Le  interazioni  biomateriale-tessuto  possono  dar  luogo  a  processi  degradativi  nei 
materiali ed a reazioni di intolleranza nell'organismo, specialmente per i componenti destinati 
ad operare per tempi lunghi in ambienti corrosivi e sotto l'azione di carichi ciclici.
La  biocompatibilità,  inoltre,  non  è  funzione  solo  delle  caratteristiche  dei  materiali 
(proprietà chimiche,  rugosità,  energia e carica  superficiale,  stabilità chimica,  proprietà  dei 
prodotti di degradazione, ecc.) e dei dispositivi impiantati (dimensioni, forma, rigidità, ecc.), 
ma anche delle condizioni dell'organismo ospite (tipo di tessuto, luogo di impianto, età, sesso, 
condizioni generali di salute, regime farmaceutico, ecc.) e della tecnica chirurgica. Lo stato di 
salute generale, infatti, influenza in modo significativo i processi riparativi ed i meccanismi di 
difesa dell’organismo. 2
Due sono le  caratteristiche  principali  che  vanno  considerate  nella  valutazione  della 
biocompatibilità di un materiale: la resistenza del materiale ai processi di degradazione e gli 
effetti che i prodotti di tali processi hanno sui tessuti. La biocompatibilità di un materiale non 
va intesa comunque solo in riferimento alla sua sicurezza biologica, ma è relativa anche alle 
caratteristiche  chimico-fisiche  ed  alle  proprietà  meccaniche  del  materiale  e  deve  pertanto 
essere controllata  durante  l'intero ciclo produttivo,  dalla  fase  di  progettazione  a  quella  di 
sterilizzazione,  dall'approvvigionamento delle materie  prime al  confezionamento finale  del 
prodotto.
1.2 ADESIONE CELLULARE ALLA SUPERFICIE DEI BIOMATERIALI
L’integrazione  dei  biomateriali  con  i  tessuti  è  mediata  dall’adesione  cellulare  alla  loro 
superficie.  Le  caratteristiche  superficiali  dei  materiali,  la  topografia  e  la  composizione 
chimica,  giocano un ruolo  essenziale  nel  processo  di  adesione  cellulare  [4-12].  Dato  che 
l’adesione e la migrazione appartengono alla prima fase dell’interazione cellula/materiale, la 
qualità di queste fasi influenza la capacità delle cellule di proliferare e differenziarsi una volta 
a contatto col biomateriale [75].
All’interfaccia  tessuto-impianto,  in  ambiente  fisiologico,  hanno  luogo  una  serie  di 
interazioni di natura fisica, chimica e biochimica su scale temporali diverse, nelle quali sono 
coinvolte macromolecole provenienti dai tessuti e dai fluidi biologici [13-15]. 
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 Dott.ssa Roberta Gambaretto; “Peptidi per la progettazione di biomateriali innovativi: sintesi e studi conformazionali”; (2005) tesi 
di dottorato in scienze chimiche - XVIII ciclo.
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Una volta inserito, l’impianto espone la sua superficie all’ambiente biologico, nel quale 
prevale la presenza di molecole d’acqua: esse si legano rapidamente alla superficie formando, 
nell’arco  di  qualche  nanosecondo,  uno strato semplice  o  doppio,  la  cui  struttura  è  molto 
diversa  da  quella  dell’acqua  liquida  e  dipende  fortemente  dalle  proprietà 
idrofiliche/idrofobiche superficiali. In seguito, gli ioni presenti nell’ambiente (ad es.: Na+, Cl-, 
Ca2+, PO43-) vengono dapprima solvatati e poi inglobati, secondo una disposizione spaziale 
che dipende, ancora una volta dalle caratteristiche della superficie. In un periodo di tempo 
successivo, le proteine contenute nel fluido biologico che circonda l’impianto giungono in 
contatto  con  la  superficie,  dove  sono  coinvolte  in  una  serie  di  fenomeni  che  vanno 
dall’adsorbimento, a variazioni di conformazione, alla eventuale denaturazione. 
Nel  complesso,  lo  strato  proteico  che  si  deposita  è  composto  dalle  prime  proteine 
adsorbite e da quelle  che, in ordine di tempo, sono giunte per ultime ma manifestano un 
legame  più  forte  con  la  superficie.  Ancora  una  volta  le  caratteristiche  originarie  della 
superficie influenzano la composizione dello strato proteico e la conformazione delle proteine 
presenti. Lo strato proteico deve comunque essere considerato come uno strato dinamico, nel 
senso che, anche per effetto dei fluidi biologici in contatto con esso, la composizione e la 
conformazione delle proteine varia  per tutto l’arco di tempo necessario per il  processo di 
guarigione [75].
Una  volta  formato  lo  strato  proteico,  i  fenomeni  all’interfaccia  incominciano  a 
riguardare una scala dimensionale più grande: quella delle cellule, le cui dimensioni sono da 
102 a 104 volte maggiori di quelle delle proteine e la cui complessità strutturale e funzionale è 
enormemente superiore. Le cellule interagiscono con lo strato proteico attraverso i recettori 
presenti sulla membrana. La specificità delle interazioni dipende da come è organizzato lo 
strato proteico, oltre che dalla temperatura, dal pH e dalla rugosità: in altri termini, il contatto 
tra cellule e materiale è mediato dagli strati che si depositano via via sulla superficie [16]. 
Le  cellule  aderiscono  alla  superficie  e,  mediante  l’attivazione  di  una  sequenza  di 
funzioni biologiche, crescono, migrano, si differenziano, sintetizzano matrice extracellulare 
(ECM) e producono nuovo tessuto [17]. Si può dunque concludere che le caratteristiche della 
superficie determinano la qualità dei processi di adesione, proliferazione e differenziazione 
cellulare e quindi influenzano, in ultima istanza, la formazione di nuovo tessuto. 
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