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Introduzione 
 
Il presente lavoro nasce e si sviluppa grazie alla partecipazione ad un gruppo 
di ricerca, che ha iniziato a collaborare agli inizi di quest’anno, con l’obiettivo di 
esplorare due diverse tematiche: la Project Based Organization (PBO) applicata alle 
Cultural Industries (CI). Questi due argomenti sono stati dapprima analizzati 
distintamente in tutte le loro caratteristiche e peculiarità, per poi venire collegati in 
maniera indissolubile nel corso della trattazione. 
In particolare la numerosità delle tipologie di organizzazioni, ricomprese all’interno 
della definizione di Cultural Industries, ha offerto lo spunto per stabilire quale sarebbe 
potuta essere la più efficace pianificazione e suddivisione del lavoro da adottare.  
Si è deciso che l’intero gruppo di ricerca avrebbe lavorato in maniera congiunta, 
impegnandosi ad analizzare le due tematiche centrali della trattazione, PBO e CI, 
mentre in sottogruppi si sarebbero potute approfondire le caratteristiche ed il modus 
operandi peculiare di ogni singola categoria di imprese, rientranti nella definizione di 
Cultural Industries. 
 L’elaborato intende verificare se le imprese appartenenti al mondo delle 
Creative Industries e in particolare quelle operanti nel settore moda, sono organizzate 
alla stregua di PBOs e se sì attraverso quali modalità e varianti hanno adottato tale 
struttura.  
Il lavoro si compone di cinque capitoli che approfondiranno rispettivamente i 
seguenti concetti: la nascita dei distretti creativi e il fenomeno delle città creative; la 
mappatura dei distretti creativi in Italia e in Europa; i tratti distintivi delle imprese 
strutturate come PBOs e la composizione dei team di progetto; l’analisi del settore 
moda italiano ed estero; la creatività  insita nello sviluppo di una collezione di moda, 
le figure creative coinvolte e il riscontro con la realtà, attraverso il caso del brand 
italiano Bagutta. 
 I capitoli iniziali hanno l’obiettivo di inquadrare il concetto di creatività e 
mostrare come questa sia solita svilupparsi in aree territoriali caratterizzate da 
un’elevata concentrazione di imprese di piccole e medie dimensioni, impegnate in 
attività economiche similari. L’ubicazione viene prescelta in base alla numerosità di 
risorse materiali e umane presenti, necessarie per la realizzazione del business in cui
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le organizzazioni sono impegnate. La vicinanza spaziale permette invece di 
beneficiare delle economie di costo e di esperienza, poiché le imprese, operando nella 
medesima area, possono risparmiare in termini di costi di transazione e soprattutto 
godere degli effetti positivi derivanti dagli spillover di conoscenza, elemento 
imprescindibile nell’ambito delle industrie culturali e creative.  
La creatività, definita come l’abilità di generare qualcosa di innovativo, caratterizza 
tutti i settori dell’economia e ne rappresenta la forza motrice, ma nelle Industrie 
Creative lo sviluppo economico e quello creativo/culturale sono fenomeni interrelati, 
che si muovono di pari passo.  
Nel corso degli anni numerosi studi condotti, hanno contribuito a  chiarire quali sono 
le industrie che possono essere definite creative; attualmente rientrano in questa 
classificazione quelle impegnate nelle produzioni cinematografiche, radiotelevisive, 
musicali, nel design e nel fashion, nell’editoria, nella pubblicità e nell’architettura. 
 Data la tendenza delle imprese operanti nei settori ad elevato contenuto 
creativo ad organizzarsi in cluster e a localizzarsi in agglomerati urbani, nel secondo 
capitolo si è deciso di realizzare una mappatura di queste realtà all’interno del 
territorio europeo e italiano, concentrandosi in particolare sulle imprese operanti nel 
settore moda. Come detto inizialmente il progetto di ricerca punta ad analizzare le 
diverse tipologie di industrie creative una ad una e nel seguente lavoro, un’attenzione 
maggiore verrà rivolta alle realtà che popolano il mondo del fashion. In Europa sono 
stati identificati 84 cluster operanti nel settore moda e la quota maggiore è localizzata 
nel territorio italiano.   
I distretti italiani sono nati e si sono ampliati durante il boom economico degli anni 
Cinquanta e Sessanta, quando l’economia cresceva a ritmi elevati. Gli anni Settanta ed 
Ottanta hanno conosciuto lo sviluppo di tali forme di aggregazione e mentre 
tutt’intorno il sistema economico rallentava la corsa, i distretti hanno portato 
sviluppo e benessere nelle regioni del nord e del centro Italia. E’ a partire dagli anni 
Novanta che tali forme organizzative si sono diffuse anche nelle regioni del sud del 
Paese. Hanno sempre mostrato un’arrestabile capacità di riorganizzarsi e 
riposizionarsi rispetto ai cambiamenti del mercato ed è per questo che nonostante la 
globalizzazione e gli sconvolgimenti ambientali, risultano ancora efficaci. Oggi l’ISTAT 
ne riconosce ufficialmente 45, concentrati nel comparto del tessile/abbigliamento; 
alcuni tra questi verranno descritti nel corso del presente lavoro.
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 Terminato l’approfondimento riguardante le Industrie Creative, si passa ad 
analizzare il secondo macro-argomento di cui la tesi si compone, vale a dire il 
fenomeno delle Project-Based-Organizations, con l’intento finale di studiarli in 
maniera congiunta.  
Le PBOs sono strutture utili per gestire operazioni che sono sostanzialmente uniche, 
nuove e transitorie, in cui le attività da eseguire non sono prevedibili con assoluta 
certezza. In tali organizzazioni il personale è organizzato in team e lavora intorno a 
specifici progetti. La costruzione del team e le dinamiche interne al gruppo sono 
sicuramente aspetti delicati e decisivi per la riuscita del progetto nel suo complesso; 
nessun dettaglio va tralasciato o ignorato poiché una mancanza a livello strutturale 
potrebbe compromettere il risultato atteso. Una tra le principali decisioni da 
prendere riguarda la numerosità del team, poiché la produttività non dipende 
semplicemente da competenze e conoscenze di cui gli individui sono portatori, ma è 
anche profondamente legata ad elementi sociali come la comunicazione, il 
coordinamento, il bilanciamento tra le contribuzioni dei vari membri, il supporto 
reciproco e la coesione.  
 Gli ultimi due capitoli sono incentrati sull’analisi del settore moda e hanno 
l’intento di verificare come all’interno di questo si sia sviluppato ed adeguato il 
concetto di Project-Based-Organization.   
Il settore è stato analizzato utilizzando i classici strumenti di indagine, tra cui il 
modello delle cinque forze di Porter e la matrice di Abell. Sono state inoltre indagate 
quelle che sono le principali peculiarità tra cui la stagionalità della domanda, la 
presenza di una filiera produttiva complessa, il ciclo di vita del prodotto moda e la 
realizzazione delle collezioni di moda.  
Le imprese del sistema moda sono solite lavorare in contesti particolarmente incerti e 
mutevoli e si strutturano attorno alla realizzazione di progetti, aventi una durata 
limitata nel tempo. I progetti sui quali lavorano sono le collezioni, che rappresentano 
la fondamentale unità di analisi e alla cui realizzazione concorre il lavoro di numerose 
persone, alcune delle quali intervengono nelle vesti di creativi, altre con ruoli 
maggiormente commerciali e manageriali.   
Per analizzare nel dettaglio l’iter che viene seguito per l’ideazione e lo sviluppo di una 
collezione e per indagare quali sono le dinamiche esistenti all’interno di un team di 
lavoro, verrà utilizzato l’esempio di Bagutta, un brand di proprietà di CIT SpA, azienda
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italiana operante nel settore moda, che ha gentilmente accettato di mettere a 
disposizione la sua esperienza, per rendere tale trattazione maggiormente esaustiva.
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Capitolo 1 
 
1.1 Cluster e distretti in letteratura 
 
In questo primo capitolo sarà revisionata la letteratura precedente a questo 
studio sulle creative industries, partendo dalla formazione dei distretti industriali e 
dei cluster fino ad arrivare all’analisi del processo di nascita e sviluppo delle maggiori 
creative cities in Europa.  
I primi studiosi che si sono occupati di questi temi vivevano in una realtà 
completamente differente rispetto a quella dei nostri giorni; sarà quindi intento di 
questo studio definire le differenze e le modifiche che ci sono state anche dal punto di 
vista teorico nell’ambito dei distretti e dei cluster.  
Questo viaggio temporale nel mondo delle aggregazioni di impresa su base 
territoriale comincerà con autori che si sono occupati di definire i distretti industriali 
del dopoguerra, per giungere alle più recenti definizioni di creative cluster con un 
focus sulla grande espansione che stanno avendo le città europee e mondiali  
nell’ambito della creatività. 
 Nello specifico, la prima parte del lavoro si occuperà di delineare i tratti 
fondamentali dei concetti teorici di distretto e cluster, analizzandone forze e 
caratteristiche peculiari; sarà successivamente introdotto il concetto di creatività, 
funzionale all’analisi delle principali differenze tra le cultural e le creative industries 
per arrivare, da ultimo, alla definizione e alla descrizione delle forze e peculiarità dei 
cluster creativi. Per concludere,saranno analizzate in dettaglio le città creative con un 
focus su quelle che sono le organizzazioni che le compongono e le interazioni che 
vengono ad esistere tra esse. 
 
1.1.1 La prima definizione di distretto industriale 
 
Il concetto di distretto industriale è stato introdotto dall’economista Alfred 
Marshall (1890), il quale lo ha concettualizzato in termini di: “aggregazione di un 
numero rilevante di piccole imprese di natura simile situate nella stessa località”. Tale 
aggregazione è l’effetto della localizzazione, in un’area geograficamente concentrata, 
di piccole e medie imprese, connesse tra di loro in una stretta collaborazione
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finalizzata a trarre vantaggio dalle economie esterne di scala. Attraverso 
l’osservazione e lo studio delle zone tessili di Sheffield e del Lancashire, due 
importanti realtà industriali della fine del XIX secolo, Marshall giunge ad interessanti 
risultati. L’Autore sottolinea la rilevanza insita nel fattore localizzazione, in base al 
quale i produttori si stabiliscono in prossimità delle risorse naturali che risultano 
fondamentali affinché la loro attività abbia successo. Tale importanza è da imputare 
alla presenza di diversi fattori, tra cui l’accesso a  materie prime o a particolari risorse 
naturali, la presenza di un clima favorevole, o la presenza di una città, intesa come 
mercato di sbocco o centro di smistamento.  
Il concetto di localizzazione conduce Marshall a definire due diverse tipologie 
di modelli produttivi: la città manifatturiera e il distretto industriale vero e proprio. 
Generalmente questi due termini sono ricompresi nel più ampio e generico concetto 
di “distretto industriale”, ma vi sono delle differenze che Marshall discute nel suo 
“Industry and Trade” (1919). La maggiore diversità tra questi due poli produttivi è 
data da fattori economici tra cui gli alti costi della città, provocati dall’urbanizzazione 
di massa, che favoriscono in molti casi la dislocazione degli impianti produttivi in 
luoghi meno costosi e più isolati, dove i costi di gestione sono inizialmente minori 
(Giudice, 2012). 
Marshall giunge così ad una definizione di distretto industriale, che da 
semplice aggregazione di piccole e medie imprese diventa “un’entità socioeconomica 
costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente parte di uno stesso settore 
produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione, ma 
anche concorrenza» (Marshall, 1919) 
I vantaggi della localizzazione si concretizzano in “economie esterne” di scala, 
che si contrappongono a quelle cosiddette “interne” derivanti dall’esecuzione di 
attività produttive all’interno di sistemi industriali integrati verticalmente. Le 
economie esterne si distinguono in tre tipologie (Marshall, 1890): 
 
1) economie derivanti dall’accesso ad un comune mercato del lavoro e dalla 
condivisione di beni comuni, come infrastrutture o istituzioni educative; 
2) economie derivanti dal risparmio dei costi di trasporto e di transazione, 
dovute alla vicinanza tra le imprese lungo la supply chain; 
3) economie derivanti da spillover di conoscenza.