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Esso unisce le discipline in quanto dispone di dimensioni 
antropologiche, sociologiche, psicologiche e culturali e per questo è 
difficile coglierlo alla luce di una singola ottica. 
La mia riflessione sull’attività ludica parte da un’osservazione colta 
sul campo in una scuola dell’infanzia.  
Attenta a guardare le attività spontanee dei bambini mi accorsi che, 
durante i momenti di gioco, si sentivano un po’ sperduti, non 
riuscivano ad organizzarsi, darsi delle regole, tanto meno a giocare da 
soli o tra loro.  
Mi chiesi se fosse possibile che dei bambini della scuola dell’infanzia 
trovassero delle difficoltà nell’esercitare quello che tutti considerano il 
loro “lavoro”: il gioco. 
Se il ludico rappresenta un istinto innato, intrinseco al soggetto, 
come mai un bambino non dovrebbe essere capace di manifestarlo 
autonomamente? 
Forse la potenzialità ludica per esprimersi necessità di un ambiente 
adeguato, pronto ad accoglierla? Se così fosse, allora, la scuola 
dovrebbe prenderne atto e adeguarsi per introdurre tale prospettiva.  
È possibile insegnare e imparare a giocare solo se ne viene data 
l’opportunità; in tal senso, se ciò accade, la spontaneità del gioco 
insita in ogni individuo si potrà manifestare in ogni sua forma senza 
più perdersi e continuare ad espandersi. 
Si apre allora una nuova questione: perché è così importante offrire la 
possibilità ai nostri allievi di giocare? In quale ambito il gioco può 
essere coinvolto nella vita scolastica? È davvero possibile insegnare e 
imparare a giocare e, soprattutto, insegnare e imparare giocando? 
Quali sono le problematiche inerenti al ludico nella programmazione? 
Qual è la sua valutazione attuale?  
Il compito del presente lavoro è di comprendere quale valore 
assuma l’azione ludica nella didattica, come stimolatrice non solo di 
apprendimenti, ma anche di formazione ed educazione della persona 
nella sua globalità. 
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Quando una soggetto gioca non è sempre cosciente del fatto che sta 
utilizzando la maggior parte delle sue potenzialità e lo fa divertendosi. 
Il “gusto” del gioco è un vortice misterioso al quale molti studiosi 
hanno cercato di dare forma e di cui non si può fare a meno perché 
agisce in termini di benessere psico/fisico. Per questo ritengo svolga 
un’insostituibile funzione educativa, riservando un adeguato spazio 
alla sfera emotiva nell’infanzia e non solo in essa. È un agire sempre 
illuminato dal “senso”, e per questo si pone accanto all’ispirazione 
della conoscenza, della virtù, della dignità. Rappresenta un’attività 
fondamentale, attraverso la quale si sviluppano le proprie capacità, ci 
si confronta con la realtà, con le cose e con le persone. 
Da questa premessa emerge come il gioco irradi la sua forza e i 
suoi benefici in ogni campo dell’esistenza umana, migliorando l’uomo 
nel suo essere individuale, ma anche nel suo essere sociale, dove c’è 
gioco c’è la persona in una delle sue manifestazioni più vere e, 
contemporaneamente, c’è anche comunanza e reciprocità. 
Nel lavoro che si vuole presentare verranno delineati i diversi punti di 
vista con cui il gioco è stato finora studiato per capirne la natura e le 
mille sfaccettature da cui è composto e perché sia così importante 
rivalutarlo all’interno dell’azione didattica.  
Generalmente, l’attività ludica individua modalità particolari,  che 
determinano, costituiscono altrettante specificazioni del gioco in 
quanto termine universale e generico. 
L’elaborato si sviluppa in quattro capitoli che lo analizzano secondo 
prospettive differenti.  
Per cogliere il senso apprenditivo e formativo del ludico e la sua 
importanza nella didattica (ma anche nella vita), si deve partire dalle 
origini della natura umana stessa, alla quale è legato. 
Per questo si è scelto di avvicinarsi al gioco utilizzando più approcci 
presentati in successione logica. Il ludico, componente innata e 
culturale, agisce nella psicologia umana, per cui bisogna coglierne gli 
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aspetti in un’ottica pedagogica per poterli riversare nella pratica delle 
agenzie educative.  
Partendo da un discorso  antropologico-sociologico sulla visione del 
gioco come elemento umano, si passa all’osservazione delle sue 
applicazioni a livello psicologico, e quindi di come queste possano 
rientrare nelle teorie pedagogiche ed essere applicate in seguito 
all’interno di un contesto educativo come la scuola primaria.  
Nel capitolo I cerco di chiarire perché il gioco sia importante, da 
dove nasca, quale sia il ruolo che ricopre nella nostra esistenza e, 
così come negli altri capitoli, la ragione per cui esso è necessario.  
La letteratura di ambito socio-antropologico offre un quadro 
essenziale delle prime definizioni e ricerche in materia. 
In quanto componente profondamente umana, il gioco riveste, però, 
un ruolo determinante per la nascita della cultura e per la formazione 
della persona. 
Autori come Schiller e Froebel ne hanno elevato il valore ad un livello 
esistenziale in cui l’uomo realizza pienamente se stesso. 
In seguito, si prendono in esame le teorie di due grandi pensatori, 
Roger Caillois e Johan Huizinga, per cogliere il significato e la natura 
del gioco, ma anche quali siano le spinte che influenzano i 
comportamenti ludici. 
Huizinga opera una prima analisi sugli aspetti ancestrali del gioco. La 
sua ricerca si muove su due piani, il primo ne chiarisce la natura, 
mentre il secondo porta in luce la parte ludica insita nelle 
manifestazioni culturali (le gare sportive, il diritto, la filosofia, la 
poesia, l’arte…). Per l’autore esso ha un senso, il quale si manifesta in 
modo implicito nel “gusto” emergente dall’attività ludica svolta. Il 
“gusto” del gioco è irrazionale, ma dà vita ai modi di agire, alle 
attività, al senso, alle funzioni sociali e permette l’uso di immagini per 
la trasformazione del reale. Da qui l’origine dei miti che sottolineano il 
valore simbolico-rappresentativo della cultura. La trasfigurazione si 
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attua attraverso le parole (i miti) e le azioni ((i giochi-rito) entrando, 
così, a pieno titolo nelle attività culturali.  
Di tutt’altro pensiero è Caillois il quale non era dello stesso parere 
dello storico olandese, in quanto definisce il senso del gioco solo in se 
stesso. Il suo contributo risiede, piuttosto nello sforzo di classificare i 
giochi in base ai bisogni che sottendono i diversi atteggiamenti di 
natura psicologica; essi sono stati raggruppati nelle quattro categorie 
che definiscono le “spinte” ludiche (agon, alea, mimicry, ilinx). Ciò 
dimostra come la natura ludica sia innata in ogni individuo.  
In seguito ci si chiede se, come sostiene il sociologo francese, l’attività 
ludica, in quanto concepita in termini di gratuità, sia davvero 
improduttiva.  
Uno dei compiti dell’elaborato è anche quello di combattere il 
pregiudizio riguardante la frivolezza e non serietà del gioco, percepito 
solo come perdita di tempo o svago e, così, sottovalutato. 
In questo contesto, verrà presentato un breve escursus sul gioco nelle 
varie epoche, per coglierne elementi di diversità, uguaglianza ed 
evoluzione fra le varie culture del passato, ma anche odierne.  
La ludicità si veste, infatti, non solo con i colori  delle diverse culture, 
ma assolve anche al compito di unirle dimostrando come, anche se 
con diverse forme, l’umanità possa trovare, grazie a lei, un terreno 
neutrale di confronto e di dialogo.  
 Nel capitolo II, una volta operata la presentazione dei fattori 
culturali della ludicità, si individueranno gli elementi psicologici del 
gioco.  Agendo a questo livello, esso favorisce ed incrementa la 
formazione della personalità umana, promuovendo nel contempo una 
vasta gamma di competenze.  
La psicologia è pressoché unanime nel considerare come il fanciullo 
diventi attivo ed indipendente proprio attraverso le attività ludiche.  
Dopo aver presentato brevemente le prime teorie psicologiche del 
gioco (Groos, Carr, Hall, Claparède, Buytendijk, Chateau) 
approfondisco il discorso psicoanalitico (Adler, Jung, Baudouin, 
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Freud, Klein) per poi introdurre le posizioni di Piaget, in merito allo 
sviluppo stadiale e dei giochi inerenti ad essi; quella di Vygotskij per 
la zona prossimale di sviluppo; e, infine, Winnicott per la teoria degli 
oggetti transizionali. 
Si entra in merito ad ogni singola teoria per poi tracciare un filo 
conduttore che le vede accordarsi su quattro ragioni peculiari (il gioco 
come funzione esplorativa, catartica, la simulazione dei ruoli e delle 
regole, costruzione del vero sé e del linguaggio come strumento del 
pensiero). 
Tali implicazioni mettono in luce la relazione intercorrente tra gioco, 
intelligenza ed apprendimento alla quale vengono dedicati due 
paragrafi separati.  
L’esistenza di una pluralità di intelligenze (Gardner) e di diverse 
tipologie di apprendimento arricchiscono l’attività didattica, la quale 
può inserire elementi differenziati al suo interno per favorire e 
promuovere le potenzialità di ogni soggetto. La ludicità, in quanto 
poliforme e differenziata, vi si dovrebbe inserire perdendo ogni iniziale 
vellitrismo. 
 Nel capitolo III ci si muove seguendo una traccia pedagogica. 
Ho ritenuto necessario soffermarmi a descrivere l’evoluzione di presa 
di coscienza sul gioco, anche nei confronti del lavoro e di come queste 
due attività basilari si sono alternate nei luoghi dell’istruzione e della 
formazione.  
Per pensare, poi, ad una didattica ludica, bisogna chiedersi che cosa 
si intende con il termine insegnamento e, soprattutto, quali ne siano 
le funzioni primarie: per questo credo opportuna una presentazione 
delle idee educative e pedagogiche di personaggi autorevoli quali 
Froebel, Dewey, Ferrière, Steiner, Claparède. 
Se si giunge così al presupposto che il gioco concerne lo sviluppo 
della personalità in tutti i suoi aspetti, allora lo si può pensare in 
termini applicativi nella programmazione ed attuarlo attraverso 
strategie di animazione. 
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Inoltre, nel corso del capitolo, ho anche cercato di individuare i 
collegamenti del gioco con le discipline e le “educazioni” previste dai 
documenti ministeriali (Lingua italiana, Musica, Ed. all’immagine, 
Ed. interculturale, Ed. all’affettività), dando al capitolo un taglio il più 
possibile didattico.  
Sono ben consapevole che l’attività ludica offre un ampio ventaglio di 
altri possibili collegamenti che non sono stati presi in esame,  non 
tanto perché considerati meno importanti, ma perché già piuttosto 
conosciuti (esiste una vasta gamma di giochi matematici, ma anche 
di giochi per insegnare storia e geografia). Personalmente ho puntato 
sui giochi e sulle discipline che considero poco valorizzate nel 
panorama odierno.  
 Nel capitolo IV, di impronta prettamente didattica, sono 
proposte riflessioni sull’idea di scuola e professione docente.  
Quando si tratta di apportare delle modifiche bisogna scontrarsi 
inevitabilmente con la paura del cambiamento che ci mette di fronte 
ad una vera e propria sfida: mettersi in discussione. 
In questo ultimo capitolo ho voluto affrontare le modalità con cui 
introdurre nella classe il gioco, e quali siano le problematiche ad esse 
connesse.  
Naturalmente, non avendo avuto ancora modo di fare esperienza 
diretta sul campo, le mie riflessioni sono solo di natura teorica, ma 
non per questo avulse dalla realtà. Quando si utilizza il gioco a scuola 
bisogna riconoscerne, oltre le potenzialità, anche le diverse tipologie 
con cui esso si presenta: viene così presentata una distinzione tra i 
termini ludico, ludiforme e ludomatetico. Difatti è possibile proporre 
attività sotto forma di gioco (anche se a volte sembra una sorta di 
piccolo inganno), ma si può anche pensare di offrire la possibilità di 
giocare davvero, cioè presentare e condurre attività ludiche, ad 
esempio, proprie di diverse epoche o culture (come il gioco dei quattro 
cantoni). 
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Ho proposto alcuni esempi di attività come prova del fatto che 
esistono giochi semplici da introdurre in qualsiasi momento, ma è 
bene pensare un’attività in termini di programmazione vera e propria, 
non solo come evento occasionale.  
Infine, la tendenza al gioco, nella sua autentica essenza, 
permane, almeno potenzialmente, per tutta la durata della vita, 
manifestandosi in modi diversi, ma conservando intatte le proprie 
caratteristiche fondamentali, e rivestendo sempre il suo ruolo di 
forma di espressione e di espansione della personalità, di attività 
creativa e originale, libera e spontanea, dotata di una finalità 
soggettiva e spesso inconsapevole. 
Concludendo, confido che il lavoro da me svolto raggiunga 
l’obiettivo di mostrare, il gioco sotto una nuova luce non tradizionale, 
rivalutandolo come per il soggetto in formazione, un’esperienza totale 
che coinvolge la persona nella sua unità bio-psichica e spirituale, ed 
è fonte di gioia di intima soddisfazione.  
Il vero gioco simbolico si manifesta con il maturare delle facoltà 
immaginative e delle capacità di astrazione. Si può asserire che la sua 
comparsa coincide con la nascita dell’intelligenza e del consolidarsi 
delle facoltà superiori della psiche. 
“Gioco”, dunque è una parola bellissima e onnicomprensiva che si 
inserisce, volenti o nolenti, nella vita di ogni uomo e di ogni cultura, 
per cui l’importanza dell’atteggiamento ludico, il suo continuo 
oscillare tra teoria e prassi si radica in una natura sui generis, 
eclettica e poliforme, che lo individua di volta in volta come soggetto 
d’indagine, attività pedagogica, dinamica biologica, psicologica, 
esistenziale e sociale.