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INTRODUZIONE 
 
“Non fatemi vedere i vostri palazzi  ma le vostre carceri, 
poiché è da esse che si misura il grado  
di civiltà di una nazione” 
Voltaire 
 
Nel presente lavoro affronterò il tema della maternità in carcere, con particolare 
attenzione agli stili di attaccamento che possono svilupparsi in una relazione diadica 
ambientata in una struttura così particolare come quella detentiva. 
La relazione tra madre e bambino nel contesto penitenziario è un argomento, sia nel 
panorama nazionale che in quello internazionale, poco studiato ma molto dibattuto sia a 
livello sociale che legislativo, e che dunque a mio avviso rappresenta un importante 
oggetto di studio e di osservazione per la psicologia, e più in generale per tutti i 
professionisti della cura e di coloro che operano nell’ambito delle relazioni d’aiuto. 
Per delineare un percorso che porti ad una migliore comprensione del tema trattato, 
metterò in evidenza nella prima parte l’importanza del rapporto materno con la propria 
prole, facendo soprattutto riferimento agli importanti contributi della psicoanalisi e della 
psicologia dinamica. In modo particolare, prenderò in considerazione gli studi 
sull’attaccamento materno di Bowlby (1969), che ha sottolineato l’importanza della 
relazione tra madre e bambino, individuandone tre principali stili: l’attaccamento sicuro, 
l’attaccamento insicuro/evitante, e l’attaccamento ansioso/ambivalente. A questi stili, si 
aggiunge un quarto individuato da Mary Main e Judith Solomon (1986) attraverso la 
Strange Situation, ed è l’attaccamento disorientato/disorganizzato. Sulle orme di questi 
contributi vedremo come in carcere tende a svilupparsi uno stile di attaccamento 
particolarmente simbiotico, caratteristico della relazione tra madre e bambino nel 
contesto detentivo. 
Inoltre, facendo riferimento agli studi di Shore (2001) e al suo modello 
psiconeurobiologico dell’attaccamento, vedremo che la maturazione del cervello può 
dipendere anche dalle esperienze affettive nella diade madre-bambino.
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Ho messo in luce come le condizioni dell’ambiente penitenziario possono ripercuotersi 
sullo sviluppo cognitivo, sociale e motorio del bambino. Per rendere possibili queste 
riflessioni mi sono servita principalmente dei contributi di Biondi (1994) che, come 
vedremo, ha dedicato molti dei suoi studi allo sviluppo psico-fisico del bambino in 
carcere. La vicinanza del bambino alla sua mamma è fondamentale per un buono 
sviluppo del piccolo, ma le condizioni socio-ambientali del carcere possono essere per 
lui sfavorevoli. I fattori di rischio non sono legati soltanto alla detenzione, ma anche al 
tipo di reato commesso dalla madre, al modo in cui si è verificato l’arresto, 
all’eventualità che il bambino abbia assistito a questo, alla durata della detenzione, e 
alla possibilità che il bambino sia nato in carcere o abbia avuto esperienze di vita 
all’esterno.  
La struttura carceraria limita nell’autonomia di gestione del figlio, inoltre priva il 
bambino di alcuni aspetti che garantiscano un suo sereno sviluppo, e non concede  alla 
diade ritmi quotidiani che si avrebbero in condizione di libertà. Inoltre, i limitati spazi in 
cui cresce il bambino possono essere causa di ritardi nello sviluppo motorio. Non meno 
rilevanti possono essere i problemi legati al linguaggio che diviene limitato, può 
svilupparsi un lessico specifico dell’ambiente penitenziario, differente da quello del 
mondo esterno, per esempio le prime parole pronunciate dal bambino potrebbero essere 
termini appartenenti al lessico e alle routines carcerarie. Anche lo sviluppo cognitivo e 
affettivo del bambino può risentirne, soprattutto in assenza  di rinforzo ambientale 
affettivo e relazionale sui quali il bambino può fare affidamento nel momento del 
bisogno. Non a caso alcuni test somministrati come le Scale Denver hanno messo in 
luce una limitata  vivacità intellettuale, connessa a problemi di tipo psicologico 
(Frankenburg, Dobbs, 1967). 
In carcere l’assenza della figura paterna e di diversi pari con cui relazionarsi, 
rappresenta per il bambino un fattore di rischio per un buono sviluppo della sua 
personalità e delle capacità relazionali. Vedremo come attraverso il gioco e la 
frequentazione di asili nidi esterni, si possono limitare alcune ripercussioni sullo 
sviluppo sociale del bambino. 
Un significativo contributo sulla situazione detentiva della madre e del suo bambino è 
rappresentato dall’osservazione sulla relazione della diade effettuata da Carla Candelori 
e Maria Dal Dosso (2007), attraverso il metodo dell’Infant Observation. Da questa
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osservazione è emersa una situazione relazionale povera e con stimoli limitati, che 
hanno dato la sensazione di un legame tra madre e figlio caratterizzato da un senso di 
insicurezza per entrambi. È stata proprio questa ricerca ad alimentare in me l’interesse 
per questa tematica e per le dinamiche ad essa collegate, scegliendo poi tale argomento 
per la mia tesi di laurea. 
Nel corso del mio lavoro ho preso in considerazione i vissuti dolorosi che possono 
presentarsi nella detenuta madre, e di conseguenza ripercuotersi sulla relazione con il 
figlio. Oltre al senso di colpa e la vergogna, una delle prime difficoltà a cui deve far 
fronte la donna è la scelta di tenere con sé il proprio bambino, che si basa 
principalmente su una motivazione affettiva, ma, tenendo conto che molte di queste 
donne non hanno persone di riferimento all’esterno della struttura, tale scelta risulta 
essere anche di tipo sociale. 
La condizione di madre detenuta implica la necessità di scegliere tra una dolorosa 
prospettiva di stare lontana dal proprio bambino, e l’altrettanto dolorosa prospettiva di 
tenerlo accanto a sé, in cui la sua presenza le darà più sicurezza, ma allo stesso tempo 
potrà sentire il peso per la sua “innocente" reclusione. Proprio in riferimento ai vissuti 
materni, un gruppo di ricerca del Laboratorio di Psicodinamica dello Sviluppo “Anna 
Martini” (2011) ha svolto uno studio esplorativo nella sezione femminile della Casa 
Circondariale Dozza di Bologna, analizzando le rappresentazioni materne in carcere, e il 
livello di stress percepito rispetto al mantenimento della relazione con il figlio. In 
questo studio su otto donne, tre hanno evidenziato una rappresentazione materna 
integrata/equilibrata, altre tre hanno mostrato una rappresentazione materna 
ristretta/disinvestita, e due una rappresentazione materna non integrata/ambivalente.  
Sul versante letterario, un prezioso contributo è quello offerto da Rosella Pastorino 
(2013), che in un suo libro, racconta la storia vera di Milena, una bambina nata in 
carcere e che successivamente si dedicherà alla cura dei bambini che vivono in 
detenzione, in quanto in grado di comprendere bene le loro sofferenze. Ci sarà possibile 
vedere, attraverso gli occhi di Milena, come un bambino possa vivere la durezza del 
carcere. 
Proprio perché il carcere è un luogo “duro”, ho voluto esplorare alcuni interventi a 
sostegno della madre e del suo bambino. Non è raro che donne esasperate dalla vita 
detentiva arrivino a gesti estremi come il suicidio, o che stati depressivi materni
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influiscano anche sul benessere del bambino. È importante intervenire per limitare il 
rischio di una Sindrome di Prisonizzazione (Clemmer,1941), ossia un quadro 
psicopatologico indotto dall’ambiente detentivo, in cui la donna perde i comportamenti 
sociali appartenenti alla sua cultura, le sue capacità intellettive, fino a casi estremi come 
alcune forme di deterioramento mentale, in cui è possibile osservare schemi 
comportamentali appartenenti alla cultura detentiva.  
Il ruolo dello Psicologo in tale contesto è di fondamentale importanza, la psicologa 
Chiara Bellini (2013) sottolinea come il potenziamento del servizio psicologico in un 
carcere ligure abbia diminuito drasticamente l’assunzione di psicofarmaci. Formare un 
punto di ascolto per la donna, nonostante ci possano essere limitazioni nel setting e nel 
segreto professionale, è fondamentale per rendere più tollerabili i vissuti dolorosi della 
donna, e il suo benessere sarà positivo anche per la sua relazione con il bambino.  
Con l’intento di approfondire e dare un contributo personale a questo lavoro,  la seconda 
parte sarà dedicata agli aspetti e ai dettagli emersi dalla mia esplorazione effettuata in 
alcune delle strutture detentive femminili presenti in Italia.  
Per lo svolgimento di questa analisi ho utilizzato come strumento un colloquio clinico 
guidato, costruito appositamente.  
Tale colloquio è strutturato in modo da andare ad indagare diverse aree tra cui l’ingresso 
in carcere, l’esperienza della maternità, gli aspetti riguardanti il bambino nella struttura, 
la relazione tra madre e figlio, gli stati emotivi materni ed infine una breve indagine 
sulle eventuali esperienze extracarcerarie effettuate dalla diade.
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CAPITOLO PRIMO 
Relazione materna e attaccamento in carcere 
 
 
Nel presente capitolo vorrei porre l’attenzione sul concetto di attaccamento tra madre e 
bambino, per poi poterne discutere i suoi aspetti all’interno del contesto carcerario. È 
stato a lungo discusso se la condizione di detenzione incida sulla possibilità 
dell’instaurarsi di un legame di attaccamento sano nella diade, e delle eventuali 
ripercussioni sullo sviluppo cognitivo del bambino.  
In Italia a partire dalla legge 354 del 1975, nota come “legge Gozzini”, 
dell’ordinamento penitenziario, le mamme possono portare con sé i propri bambini di 
età inferiore ai tre anni. Attualmente con la legge 62/2011, le madri possono scontare la 
pena detentiva con i loro bambini fino al compimento del sesto anno di vita del figlio 
non in carcere ma in Istituti Icam, ossia istituti a “custodia attenuata” che evitano di far 
trascorrere al minore un’infanzia dietro le sbarre. 
Questi provvedimenti oltre ad apportare significative innovazioni nelle strutture 
carcerarie, sottolineano l’importanza e la tutela della relazione madre-bambino. A tal 
proposito ritengo doveroso andare a definire, attraverso alcuni contributi teorici, le 
dinamiche di questa relazione. 
 
1. Contributi psicoanalitici relativi all’attaccamento materno  
 
La psicoanalisi offre, attraverso la teoria pulsionale e la teoria delle relazioni oggettuali, 
due diverse descrizioni della relazione madre-bambino. 
La prima teoria deriva dalle prime formulazioni di Freud, il quale sostiene che il legame 
che unisce la madre al bambino è rappresentato dalla libido o energia sessuale (Freud, 
1915). In questo contesto il bambino appena nato vive in quello che egli stesso definisce 
come “narcisismo primario” nel quale il bambino investe tutta la sua carica erotica su se 
stesso prima di rivolgerla verso altre persone, e sperimenta una crescita della tensione. Il 
ruolo della madre in tale situazione è quindi quello di fornire il veicolo per la scarica