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La razza allevata nel nostro Paese è oggi indicata con la denominazione
“Bufala Mediterranea Italiana”. Diverse sono le ipotesi della sua
comparsa in Italia; una di queste è che sia stata introdotta nel VI secolo
dall‟Ungheria durante le invasioni barbariche [Maymone, 1945].
Campanile C., dal suo canto, sostiene che il bufalo fosse presente e
conosciuto in epoca romana e venisse utilizzato per lo sfruttamento dei
terreni paludosi e malsani; l'autore riferisce, inoltre, che gli ebrei
fossero soliti mangiare carne di bufala accompagnata da cavoli
[Campanile, 1960].
Balestrieri e coll. ritengono che l‟origine autoctona della specie sia stata
sostenuta dal ritrovamento di fossili risalenti al quaternario nel Lazio e
nell‟isola di Pianosa [fonti ANASB].
Molti, invece, sono concordi nell‟affermare che la sua introduzione in
territorio nostrano sia avvenuta durante le invasioni longobarde.
Agilulfo, dopo la vittoria sui Gepidi, popolo che abitava nella Pannonia
e che espandendosi minacciava gli Avari e i Longobardi, ricevette in
dono dal re degli Avari dei bufali quale segno di amicizia per l'aiuto
ricevuto. Nel 568 a.C. i Longobardi con Agilulfo iniziarono la
conquista dell'Italia e fu allora che diffusero la bufala nel Meridione.
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Sebbene la presenza della specie in epoche protostoriche fino all‟anno
mille sia lacunosa, numerose testimonianze fanno ritenere che assunse
una certa importanza nella realtà economica e sociale del nostro Paese
tra il XII e il XIII secolo, e dimostrazione di ciò ne è il decreto del re
Carlo I d'Angiò, conservato nei documenti dell'Abbazia di Farpa nel
Lazio, che ordina di restituire un bufalo domito (cioè da lavoro).
Inoltre a cavallo di questi due secoli si ricorda che l'unica forma di
attività agricola e zootecnica dei terreni pianeggianti e paludosi della
piana del Sele fosse rappresentata dall'allevamento del bufalo, animale
forte e in grado di trasformare le risorse foraggere degli acquitrini in un
prodotto pregiato. Tutto ciò avvenne là dove altri ruminanti, tra cui i
bovini (nonostante gli elevati costi di strutture, manutenzione e
impegno che richiedevano), facessero registrare elevati tassi di
mortalità e per tale motivo non erano in grado di produrre reddito (e da
qui nasce il detto: “‟a vacca pe‟ bellezza e „a bufala pe‟ ricchezza”).
Quindi, a questo ruminante è doveroso attribuire il merito di essere
molto resistente alle malattie, soprattutto agli endo- ed ectoparassiti (e a
tal proposito, si dice: “La bufala sta sempre bene in salute, ma quando
si ammala, muore”), e di aver reso possibile l‟utilizzazione di terreni
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degradati e di aree marginali evitandone il completo abbandono da
parte dell‟uomo.
L‟evoluzione storica dell‟attività economica che ruotava attorno al
settore bufalino è andata avanti anche nel 1300, con la
commercializzazione dei derivati del suo latte (latticini) e di carni
destinate solitamente al mercato di Napoli e Salerno; e nel 1400, anno
in cui incominciò ad attirare l‟attenzione degli imprenditori, che
trasformarono l‟allevamento da libero a semilibero, ed in alcuni casi a
stallino.
Tale specie continuò a mantenere quest‟importanza fino al XVIII
secolo, durante il quale era presente nella maggior parte del territorio
nazionale, e non limitato alle zone paludose del centro e del
meridione.
Poi, agli inizi dell‟800, in Italia, come conseguenza dell‟incremento
demografico, ci fu bisogno di nuove terre coltivabili. L‟allevamento
bufalino, organizzato su un sistema semiselvatico, si trovò in difficoltà
e venne sempre più relegato nelle aree acquitrinose dove gli
investimenti zootecnici erano quasi inesistenti, rappresentando [secondo
Maymone, 1945] “una vera fortuna per i pantani che non avrebbero
potuto trovare altra forma di sfruttamento”.
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Il bufalo divenne l‟animale tipico di questi luoghi, perché utilizzava
qualsiasi tipo di foraggio, anche scadente, e richiedeva poche cure.
Oltre alla produzione di carne e latte, era impiegato nel ripulire i canali
dalle erbe mediante il pascolamento e nel ripristinare i corsi d‟acqua
interrati attraverso il calpestio lungo l‟alveo, contribuendo così a
mantenere l‟equilibrio ambientale [Pugliese, 1998].
In quest‟epoca, secondo stime riportate da vari autori, la popolazione
bufalina si aggirava tra gli 8.100 capi censiti nel 1865 e gli 11.070 del
1881.
Ciò dimostra che il crescente interesse per questa specie e per i suoi
prodotti aveva fatto incrementare di circa il 27% il patrimonio in meno
di 20 anni. Senza contare che la presenza del bufalo in alcune zone
dell'Italia meridionale era legata alle caratteristiche orografiche del
terreno e alla sua particolare adattabilità a condizioni climatiche
avverse, come il clima caldo-umido delle aree palustri.
Nel nostro Paese, con l‟inizio della Rivoluzione Industriale (1900, anno
in cui si contavano circa 20.000 capi), venne avviato un processo di
bonifica di ampie superfici paludose per recuperare terre all‟agricoltura,
che portò ad una drastica riduzione dei bufali (19.000 capi nel 1908;
15.000 nel 1930; 13.000 nel 1942).
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Questo processo, che sembrava inarrestabile, stava portando alla
scomparsa della specie dal territorio italiano con un minimo storico di
5.500 capi nel 1950; in questo frangente temporale la bufala era
considerata sinonimo di zootecnia arretrata e di territori malsani, inoltre
non veniva più riportata separatamente dal bovino nelle statistiche
ufficiali.
Per rilanciare il settore bufalino, quindi, si ritenne di dover operare
notevoli trasformazioni sia di tipo strutturale che di organizzazione
aziendale, applicando le stesse tecniche utilizzate per Bos taurus
(bovino domestico).
Si è passati, infatti, da un allevamento di tipo estensivo (dove gli adetti
richiamavano le bufale “per nome”, anche cantilenandolo, quando
dovevano mungerle manualmente sui pascoli) ad uno di tipo confinato
tutto l‟anno (dove, invece, venivano identificate con una targhetta
riportante un numero a 14 cifre, e munte attraverso mungitrici
meccaniche) che, pur limitando lo spazio a disposizione dei soggetti, è
stato in grado di assicurare meglio i fabbisogni nelle diverse fasi
produttive.
Il suo incremento numerico, inoltre, è stato incoraggiato non solo dalle
favorevoli condizioni di mercato, ma anche dalla maggiore attenzione
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alla rimonta, che negli anni passati, a causa della scarsa cura prestata
alle bufale durante la gestazione avanzata e al vitello nei primi giorni di
vita, è stata falcidiata dalle malattie neonatali, dal barbone e dalle
verminosi.
Ora ben si comprende come il patrimonio bufalino italiano sia andato
incontro ad una continua espansione passando da una consistenza pari a
12.000 capi del primo dopoguerra (1947) a circa 340.000 stimati nel
2007 [dati Caserta€conomia, 2007], contro i 6,3 milioni di capi bovini
[ISTAT, 2007]; dati registrati in uno spaccato di storia zootecnica
contraddistinto frequentemente da periodi di crisi, in cui ci sono stati
imprenditori, che remando controcorrente, hanno creduto in una specie
simbolo di arretratezza e di latifondo.
Oggi, in Italia, sono tre le regioni che detengono ben il 95% della
popolazione di Bubalus bubalis (bufalo domestico): Campania (78,2%),
basso Lazio (14,7%), Puglia (2,1%).
In particolare, in Campania [dove si contano circa 250.000 capi; dati
Caserta€conomia, 2007] il suo allevamento si localizza in provincia di
Caserta nell‟area del basso Volturno-Garigliano, dalla media valle del
Volturno e nel piano campano; mentre nel salernitano si estende dalla
media e bassa valle del Sele fino alle pendici dei monti Alburni e del
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Cilento. Nelle zone napoletane, invece, abita soprattutto i pressi del
lago di Licola e dei Regi Lagni. La ritroviamo anche ad Avellino e a
Benevento.
Analizzando i diversi fattori che hanno contribuito alla sua crescita nel
nostro Paese (dal 1947 al 2007), e considerando che oggi non vi è una
cultura del latte di bufala (che presenta peculiarità elevate in contenuto
di grasso e proteine rispetto al „latte vaccino‟) come bevanda
alimentare, si può affermare con molta sicurezza che tale incremento è
stato determinato principalmente dall‟aumento del consumo della
mozzarella ottenuta col suo latte (si ricorda la Mozzarella di Bufala
Campana, molto apprezzata dai consumatori sia a livello nazionale che
internazionale, la quale è uno dei più noti formaggi a “pasta filata
fresca”, e riconosciuta a marchio D.O.C. nel 1993 e D.O.P. nel 1996),
della ricotta e del formaggio.
Questo frangente, in aggiunta alla crisi del comparto bovino iniziata nel
1984 in seguito alle restrizioni imposte dalla Comunità Europea (CE)
sulle quote di produzione del latte, ha favorito l‟espansione del bufalo
[Proto, 1993; Zicarelli, 1990].
Attualmente, il suo allevamento è praticato prevalentemente in aziende
specializzate nelle quali la quasi totalità della produzione lorda
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vendibile (PLV) è costituita dalla vendita del latte e, marginalmente da
quella della carne, seppure quest‟ultimo stia diventando un settore in
crescita.
Fig. 1 Bubalus bubalis.