classificasse un fiore o un minerale, c’è, purtroppo, la grande 
complicità della varie amministrazioni coloniali che, con il tacito 
consenso della Chiesa, hanno usato queste etichette 
caratterizzando, di conseguenza, la vita sociale di interi popoli. 
Il Tribunale di Norimberga non ha condannato esclusivamente 
gli individui legati al Nazismo, ma ha condannato soprattutto il 
sistema ideologico. 
Il proliferare di sistemi politici autoritari ha fatto dell’Africa 
(forse insieme al Sud America) il continente con una grande 
propaganda di regime, fondata su “ideologie” diverse in base ai 
Paesi, ma che hanno portato, negli ultimi trent’anni, a numerose 
“Revisioni storiche”. In Ruanda, l’etnia è stata a lungo rivista e 
corretta, esasperata fino al nazional-razzismo del partito unico al 
potere, MNRD, facente capo al Presidente Habyarimana, 
assimilato in modo perfetto dalla popolazione grazie ai media del 
potere, alla luce di tutte quelle potenze che, a Norimberga, 
avevano condannato l’ideologia nazista. 
La stessa Chiesa, nella sua istituzione, ha mantenuto un suo 
ruolo fondamentale, come sempre, sempre mai perdere di vista i 
propri interessi, appoggiando sempre i regimi che si sono 
susseguiti nella recente storia del Ruanda e chiudendo gli occhi 
alle evidenti violazioni dei Diritti Fondamentali dell’Uomo, che si 
sono perpetrate in Ruanda in modo velato prima e alla luce del sole 
dall’inizio della guerra del 1990 fino alla “distrazione” del 1994. 
Francia, Stati Uniti, Inghilterra, ecc., ormai risolvono le loro 
controversie diplomatiche direttamente sul terreno africano, 
come il probabile piano di una espansione anglofona in quei 
territori ad influenza francese (infatti, lo Zaire non esiste più, e, 
al suo posto, vi è il nuovo ex-Congo - RDC). Dobbiamo tenere 
presente che, in Africa, fino a quando le minorità sociali e tutti i 
cittadini non avranno una protezione, come loro diritto 
fondamentale per vivere, e non potranno avere accesso alle 
informazioni del potere, questa metastasi genocidaria, che ha 
avuto la sua esplosione in Ruanda, rischia di espandersi per tutto il 
continente africano e gli ultimi sconvolgimenti politici e sociali 
trasmettono questo timore. 
La domanda che spesso ricorre è il perché gli interessi di Stati 
Uniti e Francia siano così forti da creare tale disastro. Che cosa 
c’è, in questa Regione, di tanto prezioso da attirare le “attenzioni” 
delle grandi multinazionali economiche o di semplici privati 
facoltosi? 
La Regione dei Grandi Laghi, anche se si è scoperto da poco, ha, 
nel suo sottosuolo, in grandi quantità, oro, pietre preziose, gas e 
numerosi altri giacimenti di materie prime; ha grosse risorse 
idriche e, quindi, energetiche; in più, visto il caos, ormai da lungo 
tempo presente, questo territorio risulta una zona franca per ogni 
sorta di traffico, dalla droga alle armi, dai diamanti ai bambini. 
Questa situazione tempestosa potrebbe essere tutta a favore 
della Francia, che può tentare ancora qualche chance all’ormai 
consolidato insediamento anglofono nel territorio (infatti, in 
Ruanda, tra le lingue ufficiali, oggi si è aggiunto l’inglese). 
Naturalmente, queste forze negative del Sistema non dominano, 
fortunatamente, gli animi di tutti gli abitanti della Regione, e 
numerose sono le coraggiose opposizioni all’ideologia dell’odio in 
nome dell’etnia e a qualunque altra causa negativa alla formazione 
di una società civile. In Ruanda, come in Burundi o nell’ex-Zaire, vi 
sono posizioni positive che tentano di ritrovare la verità storica 
dei loro antichi Paesi e, senza aspettare gli aiuti governativi, si 
sforzano di compiere il dovere di ogni uomo, partecipando 
attivamente alla Ricostruzione. Ma senza Giustizia vera, non 
contraddittoria, non ci potrà mai essere Riconciliazione. 
Questo è forse il prezzo che, dopo trent’anni di cattiva 
decolonizzazione, che ha causato il dramma, la Regione dei Grandi 
Laghi deve pagare, ma è nostro compito cercare che la metastasi 
del cancro ruandese non si propaghi. 
Non si può cercare risposte o spiegazioni certe ai grandi 
drammi mondiali, ma questo mio piccolo apporto alla 
conoscenza della realtà che a noi ormai giunge con eco molto 
soft dal nostro sistema di informazione può, in parte, chiarire 
alcuni quesiti necessari per la comprensione non solo del 
dramma, ma soprattutto del disegno socio-politico delle 
potenze occidentali in Ruanda e nella Regione dei Grandi Laghi. 
CAPITOLO 1 
 
I  RICORSI  DIMENTICATI 
 
La violenza delle immagini che nel 1994 traumatizzarono i 
media del mondo intero, secondo Gerard Prunier
1
, rappresentano 
un perfetto esempio di mascheramento, basando sull’effetto 
chock delle stesse immagini e dei vari commenti, il modo per 
deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle reali 
responsabilità europee (principalmente Francia e Belgio, 
direttamente coinvolte nel genocidio del Ruanda). Non meno 
confusi ed imprecisi furono i commenti di chi, in quel periodo, ha 
cercato una spiegazione storica al problema ruandese. Tutti i 
maggiori organi di informazione, i maggiori quotidiani mondiali, si 
sono affannati nel presentare con grande diffusione di immagini 
l’orrore, l’inferno, lo scoop della morte.  
La parola genocidio ha riportato indietro le coscienze di 
ognuno, le immagini cambiavano di colore ma non di violenza. 
Tutto ciò, Prunier ritiene sia stato abilmente orchestrato e 
manipolato da chi, in quel momento, doveva mostrare i buoni e i 
cattivi. 
Le radici storiche di questo dramma non sono poi tanto lontane 
nel tempo, in quanto, se il Ruanda si è trovato diviso in tre etnie 
                                                 
1
 Gérard Prunier, La Dimension Politique du Génocide au Rwanda, Rivista Hérodote, Paris, 1995, p.270. 
provenienti da ceppi originari razziali diversi, lo deve alla visione 
classificatrice della razza umana che caratterizzava il contesto 
intellettuale dell’antropologia alla fine del secolo scorso. 
Ma che cos’è genocidio? Possiamo noi cogliere il senso pieno 
della parola, concretizzandola, immaginando, quindi, 
l’inimmaginabile? Il passato ci mostra quanto ciò sia difficile. 
Infatti, durante i quattro anni dello sterminio ebreo in Germania, 
durante la seconda guerra mondiale, le notizie della tragedia che 
si consumava giunsero, in tempo reale, anche dove il nazismo o il 
fascismo non c’erano, ma non ci fu, da parte dell’opinione 
pubblica, una reazione immediata, una presa di coscienza 
immediata. Sono passati alcuni anni prima della comprensione 
storica del dramma. Tra le varie testimonianze sullo sterminio in 
atto in quei luoghi dove il problema era lontano, come Londra o 
New York, scaturisce in modo evidente che l’opinione pubblica 
non riesce a cogliere concretamente un genocidio in atto. Nel 
1944 un giurista americano di origine ebreo-polacca, Raphael 
Lemkin
2
, fu il primo a coniare, dal greco genos (razza, tribù) e dal 
suffisso latino cide (uccidere), la parola genocidio, ovvero 
distruzione di una nazione o di un gruppo etnico e, quindi, la 
negazione al diritto fondamentale dell’uomo: vivere. 
                                                 
2
 Danielle Helbig, Jacqueline Martin, Michel Majoros, Documents sur le Génocide, Edition Luc Pire. 
Un genocidio implica un piano organizzato con il fine di 
distruggere un popolo o un gruppo etnico, uccidendo, quindi, non 
l’uomo, ma la sua appartenenza umana.  
Il primo genocidio di questo secolo culmina nel 1915 ai danni 
degli Armeni da parte dell’Impero Turco-Ottomano, dissoltosi 
alla fine della prima guerra mondiale. In questo caso, i battaglioni 
che venivano inviati per eseguire il genocidio, venivano istruiti 
lungo il tragitto dai loro superiori, che ricevevano, a loro volta, gli 
ordini per telegrafo. Durante il secondo conflitto mondiale, il 
nazismo usò, per la prima volta, tutti i settori della società per 
una eliminazione industriale degli ebrei principalmente e di tutti 
gli inferiori che l’ideologia nazista riteneva dovessero sparire per 
la totale diffusione della razza pura. In questo caso, è evidente 
lo stretto rapporto tra l’ideologia e il genocidio con la totale 
partecipazione dell’intero apparato sociale tedesco. 
Quello che si è svolto in Ruanda non è un esempio di una 
qualche barbarie di tipo africana, anzi, ciò che è successo ha 
avuto, in molti aspetti, notevole somiglianza con il sistema e con 
l’ideologia di sterminio tipicamente nazista. Il sistema politico 
attuato da Habyarimana è stato definito un nazional-razzismo
3
 
perfettamente assimilato dalla popolazione che, manovrata dai 
media del potere, dall’esercito e da tutte le strutture e 
sottostrutture statali, ha compiuto l’inimmaginabile, mettendo in 
                                                 
3
 G. Prunier, La Dimension Politique du Génocide au Rwanda, cit., p.277. 
atto ciò che è stato organizzato e preparato, col tacito consenso 
delle potenze europee, durante i trent’anni di “Hutu Power”. La 
complicità, in alcuni casi evidente, di Stati, come Francia e 
Belgio, e di grosse Organizzazioni politiche mondiali, come nel 
caso dell’ “Internazionale Democratica Cristiana” che ha 
apertamente sostenuto il potere di Habyarimana nonostante le 
evidenti mancanze dei diritti fondamentali dell’uomo perpetrate 
in Ruanda durante l’intero periodo del suo dominio, ha permesso 
l’attuazione del genocidio. 
Una delle differenze tra i tre genocidi che si sono verificati in 
questo secolo è che, mentre in Europa la complicità popolare, 
nonostante il quasi totale ed inevitabile coinvolgimento, rimase in 
qualche modo velata, in Ruanda tutto si è svolto a viso scoperto e 
tutti, adulti e bambini, sono rimasti coinvolti. Non bisogna 
dimenticare che, mentre il Ruanda bruciava (ideologicamente 
prima, realmente dopo), nell’ex-Jugoslavia veniva attuato il piano  
(anche  in  questo  caso  con   molte   similitudini   al   nazismo) 
della “Grande Serbia” e della “Pulizia Etnica”. Sia in Ruanda che in 
ex-Jugoslavia un gruppo voleva dominare sugli altri, ma notevoli 
sono le differenze nell’attuazione dei due diversi piani di “Pulizia 
Etnica”. Anche i serbi, con Sebrenica e Sarajevo, si sono 
macchiati di “crimini contro l’umanità” - anche se, in un primo 
tempo, lo sterminio di Sebrenica fu definito “atto di genocidio” - 
ma il fine della Grande Serbia è la costruzione di uno Stato con 
l’allontanamento di tutti coloro che non sono serbi e, 
principalmente, l’uccisione degli uomini in età di combattere. In 
Ruanda, invece, il fine principale del progetto del partito unico al 
potere (M.N.R.D., fautore, per oltre vent’anni, del nazional-
razzismo, del lavaggio delle coscienze hutu) era lo sterminio 
totale dei Tutsi, dai neonati ai vecchi; se il progetto fosse 
riuscito, in Ruanda e nei Paesi limitrofi non ci sarebbe rimasto un 
solo Tutsi. 
Una domanda fondamentale da porsi è: perché questo 
genocidio? Perché gli ideologi di questo progetto sono in gran 
parte dileguatisi, protetti da chissà quale servizio segreto in 
previsione di chissà quale piano futuro dove usare, ancora una 
volta, l’ etnia e il rancore come capro espiatorio di ogni problema 
che potrebbe nascere tra il nuovo potere ruandese e i vari 
partners occidentali? 
Osservando un po’ più profondamente le vicende che 
coinvolgono l’Africa dei Grandi Laghi da Museweni (presidente 
dell’Uganda) in poi, sembrerebbe che sia in atto un piano di 
estendere il controllo anglofono in quei territori che, fino a 
qualche tempo fa, erano Stati “vassalli” francofoni. In poche 
parole, gli Stati Uniti e l’Inghilterra tentano di mettere fuori 
gioco la Francia in quella parte del continente il cui controllo 
significherebbe un buon 50% di tutte le risorse minerarie, e non, 
dell’intera Africa.  
Ma cosa c’entra tutto ciò nel genocidio del Ruanda? Per poter 
cercare una possibile risposta, a parte l’organizzazione 
pianificata di tutto il progetto, bisogna risalire un po’ indietro 
nella storia del Ruanda, dalle antiche rivalità tra i vari reami 
esistenti e, quindi, le lotte dei circa diciotto clan anticamente 
presenti in Ruanda, fino all’arrivo degli Europei e della loro 
notevole contribuzione a sfaldare l’ordine esistente nella regione, 
strumentalizzando e ponendo il nome di etnia alle divisioni sociali, 
o, meglio, alle “identità sociali”. E’ fondamentale notare che in 
kinyarwanda non esiste una parola che identifichi e traduca la 
parola e il concetto di etnia; infatti, la parola usata in questi casi 
è bwoko (categoria, specie, genere, classe). In altre parole, 
bwoko può essere, nello stesso momento, la categoria 
professionale, o il gruppo, o, ancora, la regione di appartenenza. 
Bwoko è, fondamentalmente, l’identità sociale dove il fatto di 
essere Tutsi, Hutu o Twa non comporta una divisione sociale. 
Tutto ciò, però, è da osservare prima della ritrascrizione 
storica effettuata dal 1959, in cui il passato fu rivisto e, 
progressivamente, riscritto su basi razziali ed etniche, ripetendo 
ciò che l’antropologia al servizio della colonizzazione ha fatto 
come una Bibbia dell’origine della specie umana. Ancor prima di 
cercare di risalire nel tempo per cercare, almeno in parte, di 
capire la causa di questo genocidio e quali siano i vari meccanismi 
che abbiano contribuito alla messa in atto del progetto, bisogna 
condannare il fallimento dell’ONU e buona parte dei suoi Stati 
membri: anziché intervenire nel mantenere l’ordine, l’ONU dà, 
invece, “l’ordine” di non-coinvolgimento dei “suoi” caschi blu e si 
limita alla protezione e all’evacuazione dei cittadini stranieri 
residenti. Anche la morte   dei   dieci  caschi  blu  belgi,  nel  
tentativo  di  difendere  il  primo ministro ruandese, la signora 
Uwilingiyimana
4
, resta un mistero nel completo fallimento 
mondiale. L’immagine adatta è che, durante i tre mesi di 
massacri, nonostante tutta l’opinione pubblica ne fosse al 
corrente, soprattutto in Belgio e Francia, il “mondo intero abbia 
chiuso il sipario” per poi “riaprirlo”, con tutta la sua farsa 
evidente, durante la pseudoumanitaria azione, portata   avanti 
dalla Francia, che prese il nome di OPERAZIONE TURQUOISE, dove 
il fine pubblico era l’aiuto diretto delle popolazioni coinvolte, 
mentre, in realtà, servì come mezzo per mettere in salvo la 
maggior parte delle F.A.R. (Forze Armate Ruandesi, sconfitte e 
riversatesi, quindi, con i profughi verso lo Zaire) e molti dei 
responsabili di ciò che è successo. Infatti, oltre ai vari problemi 
che deve affrontare uno Stato straziato dalla guerra, in Ruanda 
si pone anche il problema di rendere giustizia, ma è talmente 
totale la partecipazione popolare al genocidio stesso, che risulta 
abbastanza arduo dare ad ognuno la propria pena. Certo è che, 
come la moglie di Habyarimana, considerata la vera dominatrice 
                                                 
4
 Colette Braeckman, Histoire d’un Génocide, Fayard, 1994. 
dell’ “Akazu”, il clan presidenziale ideatore del piano genocidiario, 
anche altre personalità del vecchio regime, totalmente coinvolte 
nel genocidio, sono in libertà, protetti dagli Stati complici del 
regime caduto (al primo posto la Francia), mentre le prigioni del 
Ruanda sono stracolme
5
 di persone che non furono altro che 
mezzi o, addirittura, semplici spettatori. 
Ciò che rende possibile lo svolgersi di tragedie umane di 
immane portata, non per opera dell’imprevedibile natura, ma per 
il freddo calcolo della ragione umana che ha caratterizzato 
soprattutto questo secolo, grazie alla globalizzazione mondiale 
che il progresso ha inevitabilmente portato, è il lungo, e a volte 
inesistente, o forse impotente, corso che la “giustizia” compie 
per definire e poi, eventualmente, punire tutti coloro che sono 
accusati di aver commesso “crimini contro l’umanità” o “atti di 
genocidio”. L’elenco è lungo, a cominciare da Karadzic e Mladic, 
ancora liberi e apertamente sostenuti dall’estremismo serbo-
bosniaco, ai fautori del genocidio ruandese, in gran parte liberi, 
come la già accennata Agathe Kazinga, moglie di Habyarimana ed 
elemento di prim’ordine nelle decisioni fondamentali dello 
“Akazu” (alla lettera, “piccola famiglia”), organizzatrice e 
sostenitrice del genocidio, residente a Parigi con i figli dal 1994 
e aiutati dal governo francese, come Rwabukumba Seraphin, 
cognato di Habyarimana e diretto sostenitore economico del 
                                                 
5
 Colette Braeckamn, Terreur Africaine, Burundi, Rwanda, Zaire, Fayard, 1995. 
gruppo di quadroni della morte, noti con il nome di INTERAHAMWE, 
e molti altri
6
. 
Certo, ciò che può sembrare sconcertante, per il singolo 
cittadino, è come, nonostante la storia ci metta sempre in 
guardia, non esiste ancora oggi un Ordine Giuridico che possa 
agire senza violare la libertà nazionale e lo Stato stesso nella sua 
forma istituzionale, compiendo il proprio Dovere, dando giustizia 
in nome dell’ “Umanità”, la stessa che, nello stesso tempo, gli 
conferisce il potere di agire come organo superiore, 
rappresentante non di una parte, ma di tutta l’umanità. Ancora 
oggi, come il caso Priebke conferma, nonostante alla fine della 
seconda guerra mondiale si istituì un tribunale (il Tribunale di 
Norimberga) avente come fine quello di dare la giusta punizione 
ai fautori dell’ “Olocausto” e a tutti coloro che, direttamente e 
non, contribuirono allo svolgersi dei fatti, gran parte dei 
colpevoli, e a volte i maggiori, sfuggirono al giudizio dovutogli. 
Questa “giustizia”, sempre a Norimberga, inorridita 
dall’olocausto, mette ancora una volta le basi teoriche affinché 
cose del genere non avvengano più nella storia dell’umanità. Sono 
oltre tre secoli che l’uomo, con la rivoluzione americana prima, 
quella francese dopo, è sempre più avanti nel tempo, cerca di 
porre le basi costituzionali affinché i diritti fondamentali 
dell’uomo vengano prima di ogni altra cosa. Ma, se una parte 
                                                 
6
 D. Helbig, J. Martin, M. Majoros, Documents sur le Génocide, cit. 
dell’umanità combatte per ciò, come la Convenzione di Ginevra 
(22.08.1864), che, partendo dallo spirito umanitario di Henry 
Dunant, impegnava le potenze mondiali dell’epoca a dover 
garantire i diritti di prigionieri, feriti e personale sanitario in 
caso di guerra, la realtà ci mostra come molti concetti, che 
eleverebbero l’uomo al suo rango naturale, sono a lui sconosciuti e 
non hanno, quindi, valore. Ed ecco, allora, che periodicamente 
escono fuori veri massacratori, demoni (come Pol-Pot e i 
2.000.000 di cambogiani uccisi in nome dell’ideologia) che 
concludono questo fine secolo con un colore che prevale sugli 
altri, il Rosso, ma non quello ideologico, bensì quello del sangue 
che ha interamente colorato gli schermi e le coscienze di ogni 
individuo. 
Quindi, il problema sostanziale che, in un certo modo, ha 
potuto permettere che si ripetessero, a breve distanza di tempo, 
drammi umani così grandi, è da trovarsi, in gran parte, nella 
cattiva, e a volte “ingenua”, gestione della giustizia, che non ha 
saputo cogliere il giusto corso storico degli avvenimenti umani, 
lasciando troppi spazi, nei quali gli estremismi, in luoghi diversi, 
hanno avuto il modo di esprimere e compiere ciò che hanno voluto 
(tra i tanti, Pinochet che, nonostante sia riconosciuto un 
“criminale”, vive e, in qualche modo, ancora influenza la vita del 
Cile). 
 
CAPITOLO 2 
 
QUALCHE  NOZIONE  SULL’ AFRICA 
 
Le conoscenze classiche dell’Africa, nonostante la relativa 
vicinanza con l’Europa, si sono limitate alla parte settentrionale 
del continente e, in misura minore, a quella orientale propiscente 
all’Asia, in corrispondenza dell’Arabia e, più a sud, fino a 
Zanzibar. Del resto del continente le notizie erano vaghe e, 
spesso, si mescolavano con la fantasia, tanto che perfino la forma 
geografica del continente era poco conosciuta: infatti, Tolomeo 
riteneva che l’Africa non fosse circumnavigabile e che l’Oceano 
Indiano fosse un mare chiuso. Solo nel 1876-77 Enrico Stanley 
compì la prima traversata del Congo, quattro secoli dopo la 
scoperta delle sue foci. 
Il nome Africa deriverebbe dalla radice semitica Faraqa
1
, che 
significa dividere, separare - probabilmente per la sua posizione 
tra Oceano Atlantico e Indiano - applicata dapprima dai Fenici di 
Tiro alla colonia di Cartagine e poi i Romani estesero il nome, 
diventato Africa, per designare tutto quel continente fino ad 
allora chiamato Libia. 
                                                 
1
 Istituto Italiano per l’Africa, L’Africa, Profilo geografico e storico-politico del continente, Roma, 1971, p.7.