CAPITOLO 1
L’epopea sicuritaria: origini e sviluppi da una 
sponda all’altra dell’Atlantico
Introduzione
«Emergenza  sicurezza.  Pronte  misure  drastiche  dall’esecutivo», 
«Tolleranza  zero  verso  stupratori  e  immigrati  clandestini», 
«Recintato  il  parco  dello  spaccio,  soddisfazione  dei  residenti». 
Questi sono soltanto esempi a titolo indicativo di decine e decine di 
titoli che ci capita di scorgere ogni giorno leggendo i quotidiani.
Se ci guardassimo bene indietro, se facessimo ricerche tra gli archivi 
dei  quotidiani  o  recuperassimo  i  servizi  dei  notiziari  televisivi,  ci 
renderemmo  conto  che  fino  a  qualche  tempo  fa  in  Italia,  fino 
grossomodo alla fine degli anni Ottanta, i problemi ai quali venivano 
riservati  gli  spazi  maggiori  nelle  politiche  di  newsmaking,  erano 
prevalentemente di tipo politico, sociale, economico.
Ora  il  clima  è  diverso:  assistiamo  ogni  giorno  ad  uno  stillicidio 
mediatico  sull’insicurezza  diffusa,  sui  problemi  della 
microcriminalità, il tutto corredato da interviste ai cittadini su quanto 
si sentano insicuri a passeggiare nelle proprie città.
Fanno parte dell’esperienza quotidiani di ciascuno di noi servizi nei 
telegiornali e intere pagine dei quotidiani sulle misure di sicurezza 
predisposte da questo o quel governo o dalle amministrazioni locali, 
dalle sempre più fantasiose ordinanze dei sindaci delle grandi città 
fino ad arrivare ai più piccoli comuni, il tutto condito con una salsa 
di  compiacimento  e  plauso  dei  cittadini  per  il  ristabilimento 
dell’ordine in zone degradate.
I fatti di cronaca nera sembrano ormai gli unici per i quali valga la 
pena di spendere pagine e pagine di approfondimenti catastrofistici.
Certo, si può tranquillamente obiettare che la cronaca nera esiste da 
quando esiste la carta stampata, ed è sicuramente vero.
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Ma perché da qualche anno a questa parte il  tema della sicurezza 
domina le pagine dei quotidiani e i servizi dei telegiornali? Perché 
abbiamo  avuto  un’impennata  della  percezione  dei  pericoli  che  ci 
circondano (o che ci potrebbero circondare)?
Se  guardiamo  con attenzione  alle  statistiche  sulla  criminalità  non 
vediamo aumenti dei tassi di delittuosità così marcati da giustificare 
un tale allarmismo. E nel corso di questo capitolo lo vedremo ancora 
meglio.
Citando Zygmunt Bauman possiamo concordare sul fatto che 
ogni  epoca  della  storia  si  è  differenziata  dalle  altre  per  aver  conosciuto 
forme  particolari  di  paura;  o  piuttosto,  ogni  epoca  ha  dato  un  nome di 
propria invenzione ad angosce conosciute da sempre1 
e possiamo tranquillamente affermare che anche la nostra epoca ha le 
proprie peculiarità in questo senso.
In  un  mondo  che  mai  come  ora  sta  conoscendo nuovi  scenari  di 
instabilità  a  livello  planetario  (terrorismo  internazionale,  crisi 
finanziaria,  mutamenti  climatici)  e  a  livello  individuale 
(precarizzazione  del  mercato  del  lavoro,  desocializzazione  del 
salario), ecco che si delinea una società che ha un estremo bisogno di 
forme di rassicurazione materiale e simbolica.
Quale  miglior  rassicurazione  allora  che  la  concentrazione  verso  i 
“nemici  interni”,  quelli  più  vicini  e  immediatamente  percepibili 
come minacce alla nostra incolumità e a quella dei nostri cari?
Qual  è  la  soluzione  più  semplice  se  non  pensare  alla  propria 
esistenza  come  una  quotidiana  lotta  per  la  sopravvivenza  fisica, 
minacciata da orde barbariche pronte ad assalirci e a darci la caccia 
per puro divertimento o per due soldi?
Il  rischio  è  sempre  stato  una  componente  dell’agire  umano, 
dall’economia alla vita sociale quotidiana, la differenza sta nel fatto 
che oggi minacce come la microcriminalità e la violenza urbana, che 
in  ogni  società  e  in  ogni  tempo  sono  state  presenti  seppur  con 
1
 Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999, 
pag.99
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intensità e tassi di incidenza diversi, sono trattate dai mass-media con 
toni a dir poco catastrofistici.
Di fronte all’emergere di nuovi rischi ancora non conosciuti (si pensi 
ai cambiamenti climatici, al terrorismo internazionale, alle mutazioni 
genetiche, alle pandemie virali, alle prospettive nefaste causate dalla 
crisi  economica  globale,  ecc…) chi  detiene  il  potere  legittima  se 
stesso  reinventandosi  problematiche  già  conosciute  attraverso 
linguaggi,  stili  e forme nuove, declinando così vecchi problemi  in 
nuovi termini, allo scopo di esercitare quello che in sociologia viene 
comunemente detto “controllo sociale”.
Queste  tesi  potrebbero  sembrare  rivelatrici  di  un  approccio 
catastrofista, o peggio ancora, mi si passi il termine, complottista, ma 
non è così.
Indagare  sulle  nuove  forme  dell’insicurezza  sociale  equivale  a 
chiedersi perché, di fronte ad emergenze che sembrano puramente 
mediatiche, si risponde con un agire politico che di mediatico ha ben 
poco, ripercuotendosi immediatamente sulle vite dei cittadini.
Ma non voglio andare oltre in questa introduzione, sperando che le 
ipotesi  qui  accennate  possano  avere  riscontro  nelle  pagine  che 
seguono.
Nel corso di questo capitolo esporrò lo “stato dell’arte” delle ricerche 
nel  campo  dell’insicurezza  sociale  e  delle  politiche  che  ne 
conseguono.
Sono diverse le prospettive attraverso le quali gli studiosi che più si 
sono concentrati su questo tipo di problematiche hanno analizzato il 
problema.
Mi  concentro  su  tre  autori  in  particolare  che  mi  sembrano 
fondamentali  per  capire  l’oggetto  di  studio  di  questa  tesi,  Loïc 
Wacquant,  David  Garland  e  Jonathan  Simon.  Di  questi  autori  ho 
apprezzato particolarmente la critica radicale, nei termini di rapporto 
tra  politiche  sicuritarie  e  democrazia,  che  apportano  alla  visione 
attualmente  dominante  delle  politiche  criminologiche  e  della 
devianza dei paesi occidentali. Seppur con sfumature differenti tutti e 
tre questi  autori  denunciano i  pericoli  che questo tipo di  politiche 
penali e ordine di pubblico rappresentano alla struttura democratica 
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degli stati occidentali, talvolta alla luce dei cambiamenti economico-
sociali  derivati  dall’avvento  e  dallo  sviluppo  dell’orientamento 
cosiddetto neoliberista.
Loïc  Wacquant,  studioso  francese,  allievo  di  Pierre  Bourdieu  e 
docente  all’università  di  Berkeley  in  California,  propone  di 
combinare l’analisi materialista di stampo marxista-engelsiana (che 
propone di studiare l’insorgenza del discorso sicuritario alla luce dei 
radicali e moderni cambiamenti dei sistemi di produzione capitalista) 
e l’analisi dei simboli, mutuata da Émile Durkheim e Pierre Bourdieu 
(volta a determinare come lo Stato adotta simboli, linguaggi e metodi 
di persuasione per tracciare e determinare i confini della realtà)2.
Wacquant  vede un legame strutturale  tra  il  sistema  di  produzione 
postfordista,  e dunque del neoliberismo,  e la nascita di uno “stato 
penale” che sorgerebbe dalla ceneri dello stato sociale.
L’autore  riassume  le  caratteristiche  di  questo  cambiamento  nel 
sistema  economico  e  del  lavoro:  precarizzazione  del  lavoro, 
desocializzazione del salario, intensificazione dello sfruttamento nei 
confronti dei settori più marginali e dequalificati della forza lavoro, 
espansione della povertà nelle inner cities statunitensi.
L’ipertrofia del sistema carcerario e l’ascesa del nuovo stato penale 
viene  dunque  letta  alla  luce  di  questi  cambiamenti,  come  un 
paradigma  di  governo  delle  popolazioni  urbane  povere  e  delle 
minoranze razziali (da qui il titolo del testo “Punire i poveri”).
Proprio  sull’aspetto  razziale  delle  nuove  politiche  delle  pena 
americane  si  concentra  Wacquant,  che  spiega  come  l’emergenza 
criminalità si sia sviluppata definitivamente come reazione alle lotte 
per  i  diritti  civili  che  hanno  infiammato  i  ghetti  urbani  per  un 
decennio tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70.
2
 Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello  
stato penale nella società neoliberale, Milano, Feltrinelli, 2000; Loïc 
Wacquant, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, 
Roma, DeriveApprodi, 2006
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In un testo pubblicato nel 20013 (e tradotto per la prima volta in Italia 
nel  2004),  David Garland,  attuale  docente  di  sociologia  presso la 
New  York  University  School  of  Law,  adotta  una  prospettiva 
“culturalista”,  che  mette  in  relazione  i  cambiamenti  in  materia  di 
politica  della  pena  e  della  sanzione  enfatizzando  la  dimensione 
sociale  delle  devianze.  Un  altro  interessante  aspetto  osservato  da 
Garland  è  dato  dalla  correlazione  tra  l’attuale  costruzioni  sociali 
delle devianze (e di conseguenza il loro trattamento) e  i complicati 
processi  di  trasformazione  culturale  osservabili  nelle  società 
occidentali  contemporanee.  Queste  trasformazioni  (disgregamento 
del  valore  della  famiglia,  stili  di  vita  non  conformisti, 
flessibilizzazione del lavoro, ecc…) creerebbero, secondo l’ipotesi di 
Garland, una situazione di percezione dell’insicurezza diffusa e un 
orientamento  dei  governi  rispetto  alle  politiche  della  pena di  tipo 
anti-welfarista.
Questi orientamenti anti-welfaristi sarebbero riconducibili da un lato 
alla rottura del compromesso politico e, soprattutto, fiscale sul quale 
si  reggeva lo stato sociale,  dall’altro da un’insoddisfazione diffusa 
nei  confronti  di  quelle  strategie  tipiche  dell’assistenzialismo  dello 
stato,  causata  a  sua  volta  da  un  aumento  dei  tassi  di  criminalità 
registrata  proprio  negli  anni  di  massimo  sviluppo  del  trattamento 
sociale delle devianze.
Per  questa  serie  di  ragioni  i  saperi  criminologici  e  le  tecnologie 
rivolte  al  trattamento  e  al  recupero  dei  criminali  sono  stati 
ampiamente riconsiderati in un’ottica penalista.
I  fattori  così  considerati  creerebbero  una  nuova  “cultura  del 
controllo”  (dalla  quale,  appunto,  il  titolo  del  libro)  che declina  il 
crimine  come  un  fenomeno  normale  –  con  il  quale,  cioè  siamo 
costretti a fare i conti nella quotidianità – e al contempo mostruoso. 
Si  svilupperebbe  così  una  sorta  di  “criminologia  della  vita 
quotidiana”  (aspetto  normale  della  criminalità)  che  pervaderebbe 
ogni aspetto del vivere civile e sociale e una “criminologia dell’altro” 
dai  caratteri  fortemente  neo-autoritari  (aspetto  mostruoso  della 
criminalità).
3
 David Garland, La cultura del controllo, Milano, Il Saggiatore, 2004
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Le  tecniche  che  derivano  da  questa  “criminologia  della  vita 
quotidiana”,  per  esempio  i  sistemi  di  videosorveglianza,  i  metal 
detector  nei  luoghi  pubblici  o  le  gated  communities residenziali, 
svolgono  la  funzione  di  controllo  sociale  discreto,  ma  continuo, 
inserito nell’ordinato fluire delle esistenze delle persone in quanto 
produttori e consumatori.
Questo primo aspetto delle nuove politiche  sicuritarie abituerebbero 
il cittadino, secondo l’autore, a considerare la criminalità come un 
rischio endemico, come il traffico o le malattie.
Le politiche che derivano dalla “criminologia dell’altro”, sembrano 
entrare in contraddizione con i dettami neoliberali di alleggerimento 
dello Stato, mostrando apertamente il volto severo e punitivo della 
legge. Secondo Garland il principio che ispira queste politiche penali 
non  è  più  la  riabilitazione,  bensì  la  vendetta  nei  confronti  di  chi 
commette il crimine.
I linguaggi che supportano questo tipo di pratiche esibiscono, come è 
facile immaginare, i tratti tipici dei discorsi neo-autoritari, quali la 
ristabilizzazione dell’ordine e della difesa della società minacciata 
dal male. 
Garland prende dunque in esame alcuni delle tecniche penali che si 
rifanno alla “criminologia dell’altro”: la reintroduzione in alcuni stati 
della pena di morte anche per i malati psichiatrici, la reintroduzione 
dei lavori forzati, la pubblicazione di elenchi con i nominativi degli 
ex detenuti per reati sessuali, il three strikes and you’re out4, ecc.
Garland conclude, in accordo con l’approccio “culturalista” del quale 
è  fautore,  che  tale  insieme  di  politiche  hanno  un  significato 
fortemente simbolico: da un lato tendono a offrire una rassicurazione 
ai cittadini e dall’altro vanno in controtendenza rispetto ai dettami 
neoliberali di cui sopra. Per questo motivo Garland rifiuta una lettura 
causale, al contrario ad esempio di Loïc Wacquant, del rapporto tra 
nuove politiche sicuritarie e processi di ristrutturazione capitalista in 
senso neoliberale.
4
 Misura legislativa che impone ai giudici statali di condannare a un periodo 
obbligatorio e prolungato di carcere persone che siano state condannate per 
un reato penale grave in tre o più distinte occasioni.
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